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Romae dà nuovo slancio alle proposte per il futuro dell'Unione.
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stella del firmamento politico, che governo metterà insieme
Mark Rutte, alla sua terza volta da premier? In attesa del
voto in Francia e Germania, Bruxelles rivolge l'attenzione
anche alle urne dei Paesi vicini: mentre gli Stati dei
Balcani si incontrano a Sarajevo (presente anche l'Italia)
per rafforzare la cooperazione regionale, la Serbia si
prepara alle presidenziali con un occhio all'Ue.
La cancelliera tedesca Angela Merkel, intanto,
vola a Washington, dove oggi incontrerà per la
prima volta Donald Trump: dal bilaterale arriveranno
segnali distensivi per il commercio internazionale?
Formule europee #EU60: prematuro parlare di Federazione Riccardo Perissich 21/03/2017
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Un articolo appassionato di Giuliano Amato, a proposito di un interessante libro di Sergio Fabbrini, riprende con forza un tema che serpeggia nel dibattito italiano sull’Europa: quello della necessità di pensare a un nucleo integrato secondo linee federali all’interno di un’Unione più larga il cui collante resterebbe il mercato unico.
Il tema sembra essere rilanciato dalle recenti allusioni di Angela Merkel, poi riprese dai quattro maggiori governi dell’euro-zona, di un’Europa a più velocità. Alla base ci sarebbe la convinzione che c’è in Europa una frattura fondamentale e insanabile sulle finalità stesse dell’Unione. Non vorrei che la discussione fosse almeno in parte basata su un equivoco.
Equivoci e interpretazioni In primo luogo, non mi sembra legittimo interpretare in questo senso tutti gli appelli degli europei che chiedono o propongono “più Europa”. Chi, come Emmanuel Macron in Francia, propone un Parlamento della zona euro non lo fa all’interno di un disegno federalista.
Del resto, anche se così fosse, la parola “federalismo” sarebbe oggi declinata in modo molto diverso e in parte incompatibile in francese, italiano, tedesco e probabilmente anche spagnolo. Fra la concezione tedesca di un “governo delle regole” con un esecutivo debole e quella francese di un esecutivo forte (non importa se intergovernativo o federale), c’è ancora un abisso.
In secondo luogo, la distinzione fra gestione del mercato e compiti del preconizzato nucleo federale, è molto più complicata di come alcuni pensano. Si è già visto nel caso britannico che il punto più delicato e del resto non completamente risolto nel negoziato condotto con David Cameron, fu proprio il rapporto fra mercato dei capitali e gestione dell’euro-zona.
Come Amato rileva nel suo articolo, il mercato unico è ancora oggi, assieme al ruolo delle Bce nella gestione della moneta, il settore dove sono presenti i maggiori elementi “federali”. Un mercato unico non strettamente interconnesso, anche dal punto di vista istituzionale, con settori oggetto di differenziazione sarebbe ben poca cosa; al massimo una zona di libero scambio come quella che tenteremo di negoziare con la Gran Bretagna.
In terzo luogo,ricordo bene come nacque all’inizio degli Anni ’80 il concetto di “differenziazione”. Non fu certo per astratte ragioni istituzionali. Era ormai diffusa la convinzione che la Gran Bretagna non sarebbe stata disponibile per progressi decisivi oltre l’approfondimento del mercato e si voleva trovare una strada per progredire anche senza Londra.
Come sappiamo il principio è stato applicato per l’euro e per Schengen. Se oggi ne parliamo di nuovo, vuol dire che abbiamo in mente i Paesi scandinavi e l’Europa orientale. Il problema dei primi non merita francamente che si spenda troppo tempo in architetture complesse. Sono popoli eminentemente pragmatici con cui troveremo sempre un modus vivendi. Da un punto di vista pratico, la Danimarca fa già parte dell’euro. La differenza fra la proposta di cui parliamo e la differenziazione fin qui praticata, è che si tratterebbe di una scelta radicale fra modelli d’integrazione.
L’Europa orientale più difficile della Gran Bretagna Proprio da qui sorge il mio dubbio più importante. L’Europa orientale paradossalmente presenta difficoltà maggiori della Gran Bretagna. Tutti sappiamo quanto l’evoluzione recente di alcuni di quei Paesi sia fonte di preoccupazione. Da questo punto di vista è comprensibile l’irritazione che spinge a pensare a una minaccia di esclusione.
Trovo tuttavia sorprendente che Paesi come la Francia e l’Italia sembrino dimenticare che l’arco d’instabilità che va dal Baltico ai Balcani, da cui sono nate le due guerre mondiali che hanno portato il continente sull’orlo del suicidio, è ancora oggi il ventre molle dell’Europa.
La Germania sembra oggi l’unica ad essere cosciente dell’importanza strategica e geopolitica di quei paesi e della necessità vitale che l’Europa in un modo o nell’altro contribuisca alla loro stabilizzazione. Solo chi ha scarsa memoria può pensare che sia un obiettivo facile da raggiungere.
Con la Gran Bretagna, Paese sicuramente democratico e nostro stabile alleato, anche dopo Brexit troveremo una forma di proficua collaborazione. Lo stesso non è necessariamente vero a Oriente, soprattutto nel momento in cui assistiamo a una nuova minaccia russa.
Con quei Paesi bisogna quindi adottare una strategia più abile che limitarci a dire “Decidete: ‘Dentro o fuori’”. Non dimentichiamo che fino a poco tempo fa la Polonia era considerata uno dei grandi successi dell’allargamento. Non possiamo nemmeno pensare che il rapporto con loro si possa ridurre a un legame commerciale. Deve invece essere politico e comprendere una dimensione di difesa che non possiamo più abbandonare interamente alla Nato. Una ragione per rallentare la corsa di chi vuole andare avanti? Certamente no, ma ci vorrà una strategia molto articolata.
Portare avanti la costruzione ibrida Per queste ragioni penso che la saggezza consista nel proseguire pazientemente sulla strada perseguita negli ultimi sessant’anni: aggiungere progressivamente e rafforzare elementi federali in una costruzione ibrida. Almeno per il prevedibile futuro, Ventotene continuerà a essere un faro ma è destinata a restare un’isola italiana. Nel frattempo, si può usare la differenziazione come uno stimolo e come uno strumento per evitare i veti, ma senza dimenticare l’unità a 27.
Mi sembra che questo sia il senso delle prese di posizione prima del Benelux, poi della Germania e ora anche dell’Italia. Evito per carità di patria di ricordare che chi di là dalle Alpi parla di velocità plurime ha a volte in mente anche un “caso italiano”.
Certo, il prezzo da pagare in termini di trasparenza e comprensione del processo, è elevato. Amato lo rileva giustamente e uno sforzo di spiegazione è indispensabile. Più ancora della trasparenza del sistema, per battere i populisti è necessario oggi chiudere il divario fra le aspettative, gli annunci e le realizzazioni concrete. La risposta a questa esigenza deve venire dalle politiche e non dagli assetti istituzionali.
C’è un altro aspetto su cui invece concordo con, mi sembra, il pensiero implicito di Amato e di Fabbrini. La costruzione evolutiva e barocca in cui ci situiamo è eminentemente instabile. Com’è dimostrato dal caso britannico, il momento di scegliere “dentro o fuori” arriverà inevitabilmente. È però nostro interesse che il momento della verità intervenga il più tardi possibile e per il minor numero di Paesi.
Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore.
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