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mercoledì 28 giugno 2017

Ricerca parametrale n. 552. Notizie del 28 giugno 2017

Ue e Turchia, Usa e migranti, Iran
Newsletter n° 552 , 28 giugno 2017

È giunta l'ora di porre fine al processo di adesione della 
Turchia all'Unione europea? Dopo il referendum di aprile,
 che ha ulteriormente accentrato il potere nelle mani di 
Erdogan, se lo chiedono in tanti. Per il direttore dello 
IAI Nathalie Tocci, l'Europa non deve lasciare sola la 
società civile turca: mantenere lo status quo, per 
entrambi i partner, è il minore dei mali; accelerare 
verso un'unione doganale moderna, invece, 
l'incentivo a non raggelare i rapporti. Le nubi
 sulla fattibilità di ulteriori allargamenti Ue stazionano anche sui Balcani, che si preparano alla tappa italiana - a Trieste il 12 luglio - del Processo di Berlino, dopo che il 
Montenegro è intanto divenuto il 29o Stato membro 
della Nato. Negli Usa, Donald Trump ottiene una
 mezza vittoria: la Corte Suprema dà un parziale
 via libera all'applicazione del Muslim Ban
 (il divieto di ingresso negli Stati Uniti per 
cittadini provenienti da 6 Paesi a maggioranza
 musulmana), mentre i deserti al confine con
 il Messico fanno registrare quasi più morti del
 Mediterraneo. E in Iran, i pasdaran provano a capitalizzare, a 
spese dei riformatori, i toni aggressivi dell'Amministrazione Trump e dei sauditi.

Ricerca Parametrale n. 551. Notizie del 26 giugno 2017

Caso Regeni, Siria, Mar Rosso, roaming
Newsletter n° 551 , 26 giugno 2017

Il ritorno dell'ambasciatore italiano al Cairo? Un passo
 indietro, secondo i contrari all'invio: iniziative 
diplomatiche alternative da prendere dovrebbero 
andare piuttosto nella direzione di quelle "misure 
progressive" già evocate dal premier Gentiloni. 
AffarInternazionali continua a ospitare il dibattito
 pro e contro il ritorno del rappresentante italiano
 al Cairo, mentre proprio l'Egitto è protagonista in
 Medio Oriente di una manovra per trasferire all'Arabia
 Saudita la sovranità su due isolotti nel Mar Rosso,
 con l'ok di Israele. Come si evolve nel frattempo 
la situazione in Siria, a una settimana dal nuovo
 incontro del Gruppo di Astana convocato dalla 
Russia per il 4 luglio? E mentre comincia la 
stagione estiva, l'Unione europea, sempre alle
 prese con il problema dei migranti, fa leva
 sull'abolizione del roaming: un risultato concreto 
per rompere il clima di diffidenza da parte dei cittadini dell'Ue. 







Migranti e spazi d’eccezione
Mediterraneo: nuove geografie umane
Diego Bolchini
25/06/2017
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La mobilità nel Mediterraneo dei rifugiati, tra campi istituzionali e campi spontanei, è stato uno dei temi affrontati dal XXXII Congresso Geografico Italiano, avente come filo conduttore "l'apporto della geografia tra rivoluzioni e riforme".

L'evento, che s’è svolto a Roma in giugno, si tiene mediamente ogni 4-5 anni (l’ultimo s’era svolto a Milano nel 2012). Questa edizione ha permesso di sviluppare un’ampia serie di dibattiti e sessioni riguardanti migrazioni, narrazioni di realtà tra atlanti e mappe, geografia fisica e geografia umana.

Di particolare interesse è apparso il panel sulle Mediterranean mobilities dei rifugiati, tra campi istituzionali e campi spontanei. Muovendo da una prospettiva di geografia culturale associata ai luoghi di stazionamento/passaggio dei rifugiati in Europa, questi sono stati caratterizzati come "spazi sospesi di eccezione" caratterizzati da una bivalente dialettica securitaria/umanitaria. L’indicazione emerge dall’intervento del professor Claudio Minca, già docente alla Wageningen University, Paesi Bassi.

Aree di primo impatto: i casi di Libano, Giordania e Turchia
Fenomeno relativamente nuovo nell’Occidente europeo, il proliferare dei campi profughi visti come spazi di eccezione è invece esperienza e laboratorio socio-geografico da lungo tempo conosciuto in Paesi mediorientali come il Libano. Nel Paese dei Cedri esistono, infatti, da diversi decenni campi palestinesi gestiti dall’Unrwa. Veri e propri micro-cosmi complessi, suddivisi in aree interne secondo le diverse fazioni presenti (Fatah, Hamas e componenti minori), cui negli ultimi anni si sono sommate nuove pressioni migratorie dallearee di crisi contermini più recenti.

Proprio rispetto al flusso umanitario siriano, la Giordania, dal canto suo, ospita dal 2012 - tra gli altri - un enorme campo a Zaatari, che ha raggiunto transitoriamentele oltre 100.000 unità residenti, diventando di fatto la quarta città più popolosa del Paese. La Turchia accoglie a sua volta strutture di dimensioni rilevanti, con diversi campi oltre i 10.000 residenti e taluni - secondo stime Unhcr di maggio - oltrei 20.000/30.000 residenti.

Un arcipelago di presenze evanescente
La refugee geography rappresenta, di fatto, un settore di ricerca ancora relativamente pionieristico, che sta tuttavia consolidando i primi fondamenti teorico-concettuali in interazione con i diversi riscontri empirici sul terreno. L’apparire e sparire subitaneo di campi (alternativamente definiti in gergo jungles o no man’slands) come quello di Calais in Francia (con un picco di circa 10.000 residenti) posto a 5 km dal centro cittadinoo quello di Idomeni in Grecia (circa 8.000 abitanti) ha generato una serie di riflessioni sulla nuova scrittura territoriale di uomini e luoghi in Europa.

All’interno degli spazi di eccezione rappresentati dai campi di rifugiati le regole sociali e giuridiche del normale vivere appaiono affievolite e modificate. Le priorità e le esigenze sono diversificate e caotiche, tra ricerche di connessioni wi-fi e apparizioni di barberie improvvisate, generazione di micro-economie locali e writings su muri e superfici verticali di ogni tipo. Le ibridazioni si moltiplicano in modo inedito, come nel campo di Presevo in Serbia lungo la cosiddetta rotta balcanica, dove la lingua-pensiero cirillico e latina si mescola (o si scontra) con una pluralità di lingue-pensiero afghane e arabo-dialettali.

Anche la stessa descrizione della realtà di vita nei campi da parte di giornalisti e ricercatori incontra problemi etici e di genuinità di rappresentazione e interpretazione. È dunque evidente la necessità di sviluppare un nuovo pensiero geografico, indagando sui rapporti tra individui all’interno dei campi e sulle interazioni e retroazioni degli stessi rispetto alle corone urbane di riferimento in cui questi sono immersi o da cui sono separati e/o esclusi, a seconda del contesto specifico e della prospettiva ideologica adottata.

Descrizioni emozionali ed esigenze di nuove risposte
Lo scrittore irlandese Francis Hackett si esprimeva così quasi cento anni fa, in un lavoro datato 1918 dal titolo Ireland, a study in nationalism: “Credo in tutti i proventi di un sano materialismo: buona cucina, case asciutte, piedi asciutti, fognature, tubi di scarico, acqua calda, luce elettrica, buone strade, strade illuminate.Credo in tutto questo per tutti. Si può essere umanamente straordinari come santi e interiormente ricchi come poeti, ma lo si è nonostante queste privazioni e non a causa di esse”.

Più avanti nel tempo, dall’altra parte dell’Oceano, il sociologo e urbanista americano Lewis Mumford si è a lungo interrogato nel secolo scorso sulle pagine del ‘New Yorker’ sulla condizione dell’uomo e le culture e architetture delle città del XX secolo, viste come spazi di normalità quotidiana tra musei, teatri, ponti, parchi e grattacieli.

Oggi appare necessario sviluppare una rinnovata cognizione dei nuovi spazi mobili ed evanescenti rappresentati dai campi formali-istituzionali e informali-spontanei. Per loro natura liquidi e potenzialmente ubiqui, essi si pongono oggi in rapporto critico con le spazialità più statiche e comuni dell’urbanesimo europeo contemporaneo.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nell’intervento fatto presso la Società Geografica Italiana a maggio per i 150 anni dalla sua fondazione, aveva evidenziato le specificità delle nuove geografie globali che caratterizzano la contemporaneità. Solo un tentativo di nuova razionalizzazione degli inediti rapporti tra spazi, realtà territoriali e relazioni umane potrà aiutare agestire le “diversità condivise” tra comprensione, progettualità e possibile sostenibilità di lungo periodo.

Diego Bolchini è analista di relazioni identitarie, autore di contributi per diverse riviste specializzate nei settori afferenti geopolitica, sicurezza e difesa.

















Vedere più chiaro in un problema grave

Ong sotto inchiesta
Migranti: verso norme internazionali valide
Onofrio Spinetti
22/06/2017
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L’indagine del procuratore della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro, su presunti accordi esistenti fra trafficanti e Ong nel Mar Mediterraneo e la successiva commissione d’inchiesta parlamentare, hanno portato alla luce non solo un fenomeno che per numero di imbarcazioni civili impiegate non ha precedenti ma anche una problematica ben più complessa: le diverse normative internazionali relative al soccorso in mare mal si adeguano all’esigenza di fare fronte alle numerose richieste di soccorso relative ai flussi migratori via mare compiuti utilizzando imbarcazioni non sicure; e, inoltre, esse nulla statuiscono nel caso in cui imbarcazioni civili formano, di fatto, un corridoio umanitario in acque internazionali.

Il confine tra lecito e illecito
In primis l’attività posta in essere da tali imbarcazioni è lecita e perfettamente conforme al diritto internazionale laddove si tratti di soccorsi portati a imbarcazioni in stato di pericolo (distress) e, preferibilmente, sotto il coordinamento costante del centro di coordinamento SaR (Search and Rescue) competente. Nel caso in cui, invece, non vi sia una vera e propria situazione di pericolo o essa venga simulata da soccorritori e trafficanti, vi è la possibilità che tale condotta vada a configurare il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Le Ong si muovono all’interno di una normativa internazionale che genericamente impone ad ogni comandante di nave di prestare soccorso a imbarcazioni che ne facciano richiesta o che siano in pericolo. Normativa che nulla dispone, nello specifico, relativamente a una ipotetica attività di soccorso umanitario compiuta mediante imbarcazioni civili equipaggiate esclusivamente a tale compito.

Si consideri anche chel’intenzione originariadel legislatore internazionale, che diede vita alla Convenzione SaR del 1979,era quella di distribuire le competenze e le responsabilità al fine di fronteggiare al meglio episodi sporadici di soccorso (esempio, la tragedia del Titanic) e non flussi migratori come quelli che ormai da anni interessano il Mediterraneo tutto.

I progetti Una Vis e ShadeMed
Per far fronte a tali esigenze e per meglio chiarire il confuso scenario che caratterizza l’area di mare che separa l’Italia, e quindi l’Europa, dall’Africa, una prima soluzione potrebbe essere rappresentata dalla conclusione di accordi fra gli attori istituzionali che operano nell’area e le organizzazioni non governative che posseggono imbarcazioni da utilizzare ai fini del soccorso umanitario in mare. Tali accordi potrebbero disciplinare specificamente i rapporti fra autorità e Ong, eliminando i potenziali dubbi sulla liceità di tali operazioni.

In questa direzione sembrano muoversi due progetti: Una Vis e ShadeMed (sorti rispettivamente in seno alla Guardia Costiera italiana e all’operazione militare europea EuNavforMed). Entrambi rappresentano infatti una fase embrionale di dialogo fra attori istituzionali e civili, fra cui figurano varie ONG, che operano nel Mediterraneo.

Un ruolo per l’Organizzazione Internazionale Marittima 
Un’azione più incisiva nei confronti delle carenze di disciplina evidenziate potrebbe essere quella d’agire su di un piano giuridico internazionale adendo l’Organizzazione Internazionale Marittima (Imo), al fine di ottenere delle Rules And Guidelines che disciplinino la specifica ipotesi dell’intervento in mare a scopo umanitario e diano una dimensione normativa chiara al fenomeno dell’impegno delle Ong con proprie imbarcazioni in operazioni di tale natura.

Non solo i rappresentanti degli Stati interessati potrebbero sollecitare un tale intervento, ma anche le stesse Ong. Infatti, l’Organizzazione Internazionale Marittima è compresa fra le varie Agenzie specializzate dell’Onu che hanno seguito il modello dell’Ecosoc nel disciplinare le relazioni con le organizzazioni non governative.

Nello specifico, la concessione dello statuto consultivo presso tale Agenzia è regolata dalle “Rules and Guidelines for Consultative Status df Non-Governmental International Organizations with the International Maritime Organization”. Va evidenziato però come esclusivamente le Ong a cui è riconosciuta una reputazione internazionale nel proprio campo di attività abbiano la possibilità di essere ammesse all’interno dell’Imo con tale statuto; e, dunque, solo esse possono accedere ai lavori dell’Organizzazione (tali Ong sono dette “internazionali”).

Il possibile tramite dell’Imrf
A ben vederevi è già una organizzazione non governativa internazionale con status consultivo presso l’Imo all’interno della quale sono rappresentate quasi tutte leOng presenti con proprie imbarcazioni nel Mar Mediterraneo: la International Maritime Rescue Federation (Imrf).L’auspicio è che le restanti Ong non rappresentate entrino a far parte dell’Imrf.

In questo modo la suddetta Ong internazionale potrebbe farsi ancora più portavoce di quella parte di società civile impegnata a far fronte, insieme alle autorità, a una crisi che ha assunto dimensioni più che allarmanti.

In conclusione, che si tratti di un intervento regionale, determinato dalla conclusione di accordi di collaborazione fra i vari attori istituzionali e non, o che si tratti di un’attività svolta su di un piano internazionale e indirizzata alla definizione di una normativa di settore, in grado di colmare le lacune già citate, è ormai chiaro come muoversi in una direzione volta alla collaborazione e alla definizione dei ruoli fra i vari attori interessati sia l’unica alternativa possibile e finalizzata al miglioramento di una situazione tragica, all’interno della quale non ci si può permettere di agire in ordine sparso.

Onofrio Spinetti laureato in giurisprudenza all’Università degli Studi di Bari con una tesi in diritto internazionale dal titolo “Le ONG e il soccorso in mare”.

Ricerca Parametrale n.550. Notizie del 22 giugno 2017

Ue, G20 e Africa, euroscettici d'Italia
Newsletter n° 550 , 22 giugno 2017

Migrazioni, sicurezza, e difesa sono al centro del Consiglio europeo
 di oggi e domani a Bruxelles: i capi di Stato e di governo dell'Ue 
discuteranno di diritto d'asilo e valuteranno il primo rapporto
 sull'attuazione della Strategia Globale a un anno dalla sua 
pubblicazione. Il coraggio di andare avanti nonostante la Brexit -
 il cui negoziato è stato formalmente avviato lunedì scorso 
- sta pagando. Sul fronte immigrazione - in vista del G20
 di Amburgo del mese prossimo - Angela Merkel pensa
 di coinvolgere anche i Paesi africani. E proprio sulla
 gestione dei flussi migratori si gioca la reputazione
 dell'Unione: per gli italiani, secondo uno studio di 
Chatham House, è in cima ai fallimenti dell'Ue.
 Come invertire la rotta?






martedì 20 giugno 2017

Ricerca Parametrale n. 548. Notizie del 16 giugno 2017

Euroscetticismo, caso Regeni, Catalogna, armi nucleari
Newsletter n° 548 , 16 giugno 2017

L'Unione europea galvanizzata dalla prospettiva di vittoria alle legislative 
di Emmanuel Macron e dal rinsaldato asse fra Parigi e
 Berlino si prepara all'avvio dei negoziati sulla Brexit,
confermato per lunedì prossimo, senza alterazione rispetto
 al calendario originario (nonostante la maggioranza sfumata 
a Westminster e il clima da resa dei conti fra i conservatori).
 L'Ue arriva all'appuntamento forte della tenuta rispetto 
ai nazionalismi euroscettici, tanto nelle urne quanto nelle
 rilevazioni d'Eurobarometro. Ma la situazione all'esterno e 
all'interno dell'Unione non è ovunque serena: se da una 
parte le elezioni anticipate in Kosovo pongono nuovi ostacoli 
sulla via della distensione con la Serbia, dall'altra montano
 nuove tensioni fra Madrid e Barcellona, dopo l'annunciata
 convocazione di un referendum per l'indipendenza della
 Catalogna. Mentre il mondo si interroga sulle ricadute nel 
Golfo dell'isolamento del Qatar e l'Onu torna a discutere 
della messa al bando delle armi nucleari, l'assenza da
 più di un anno di un ambasciatore italiano al Cairo, 
legata al sequestro e all'uccisione di Giulio Regeni, 
continua a fare discutere: ricerca della giustizia o
 interessi economici, che cosa prevarrà?



Spagna
Catalogna: nuovo referendum per l’indipendenza
Elisabetta Holsztejn Tarczewski
14/06/2017
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In uno scenario di ricercata solennità, il presidente della Generalitat catalana Carles Puigdemont ha annunciato che convocherà per il prossimo 1° ottobre un “referendum di autodeterminazione” con la domanda: “Vuoi che la Catalogna sia uno Stato indipendente in forma di Repubblica?”.

“Il referendum è illegale e non si svolgerà”, ha subito risposto il governo centrale di Madrid, assicurando che saranno adottate tutte le misure necessarie per impedirlo. Ne è seguito uno scambio di accuse reciproco sulla mancanza di volontà di dialogo, sullo sfondo di una preoccupante incertezza su quello che effettivamente accadrà nei prossimi mesi.

Come si è arrivati a questo punto
Se è vero che la Catalogna - 15% della popolazione e quasi un quinto del Pil nazionale spagnolo - storicamente ha sempre avuto una propria specificità e una propria identità linguistico-culturale, il punto di flesso a partire dal quale si è innescato un rafforzamento del sentimento indipendentista (prima fisiologicamente stimabile attorno al 15-20%) si colloca nel 2010, quando una sentenza del Tribunale Costituzionale, su ricorso del Partito popolare, mutilò di ampie parti lo Statuto di autonomia catalano approvato nel 2006 con referendum regionale.

Con l’arrivo al potere dei Popolari nel 2011, la situazione si è sempre più esacerbata. Da una parte, la posizione di totale chiusura del governo guidato da Mariano Rajoy verso le esigenze di maggior autonomia ha alimentato una sensazione di crescente vittimismo nella società catalana, esasperato dall’acuirsi di una crisi economica nella quale Barcellona si sarebbe vista costretta a eccessivi trasferimenti di solidarietà verso le altre Comunità autonome.

Dall’altra, l’esecutivo catalano ha avuto gioco facile ad individuare nel governo centrale la causa di tutti i mali (“Madrid ci deruba”) e ha avviato un’azione di propaganda nazionalistica via via più capillare, servendosi ampiamente dei mezzi di comunicazione e del sistema educativo locale. La chiave economico-sociale, accanto a quella politico-culturale, rimane dunque fondamentale per una corretta lettura della questione catalana.

Il sostegno all’indipendenza raggiunse il suo massimo - sfiorando il 50% - nel 2013, quando l’allora presidente della Generalitat Artur Mas annunciò per la fine del 2014 un referendum che poi, di fronte all’opposizione di Madrid, fu costretto a trasformare in una “consultazione partecipativa volontaria”: il 9 novembre 2014 votò solamente un terzo dei catalani, che tuttavia per l’80,76% si espresse a favore dell’indipendenza.

Nelle successive elezioni regionali del settembre 2015, i partiti pro-indipendenza ottennero il 47,8% dei voti (pari però a 72 seggi su 135). L’appoggio all’autodeterminazione, dunque, non ha mai scavalcato la fatidica soglia del 50%, ma ciò non ha impedito alla Generalitat di avviare quello che a Barcellona chiamano “processo di disconnessione dallo Stato spagnolo”, ovvero la graduale costituzione di autonome strutture amministrative, a cominciare da una propria Agenzia tributaria e da una rete estera (sono già una decina le “ambasciate” catalane), nel sinora frustrato tentativo di raccogliere appoggi internazionali.

A Madrid manca una strategia politica 
Da una parte, dunque, la Generalitat- ormai fusa in un unicum con le forze indipendentiste - continua a “vendere” il sogno demagogico di una secessione indolore come rimedio a tutti i problemi economici e sociali, anche per distogliere l’attenzione dagli scandali di corruzione che stanno travolgendo il partito di Puigdemont.

Dall’altra, l’esecutivo centrale non ha saputo e non ha voluto, forse per calcolo elettorale, avanzare alcuna soluzione politica, trincerandosi piuttosto dietro una batteria di ricorsi giudiziari - amministrativi e costituzionali - contro ogni iniziativa delle autorità catalane, fino ad arrivare alla recente condanna all’interdizione dai pubblici uffici per l’ex presidente Mas. Un atteggiamento in buona parte controproducente, che ha creato “martiri”, contribuendo a fomentare l’indipendentismo.

Solo il secondo governo Rajoy - entrato in carica nel novembre 2016 - ha tentato di avviare un canale di dialogo con la Generalitat su temi quali investimenti infrastrutturali, finanziamento regionale, educazione. Troppo tardi e con troppo poca convinzione. La strategia di Madrid rimane fondamentalmente attendista, affiancata da un puntuale contrasto per le vie legali, nella speranza che il progetto indipendentista imploda per le sue stesse contraddizioni e rivalità interne, aiutato in ciò dalla ripresa dell’economia nazionale.

Sul tema catalano, Rajoy può del resto contare sull’appoggio non solo dell’alleato Ciudadanos, ma anche dei socialisti, principale partito di opposizione. Entrambe le forze rinfacciano tuttavia a Rajoy la sua inerzia e l’incapacità di offrire soluzioni politiche, con particolare riferimento ad una possibile riforma costituzionale che i socialisti vorrebbero in senso federale.

Rischio di escalation e possibili vie d’uscita
L’annuncio del referendum da parte di Barcellona è dunque solo l’ultimo di una serie di gesti provocatori del governo catalano, in un continuo gioco al rialzo che lascia intravedere il rischio (se non il deliberato disegno) di uno scontro istituzionale senza precedenti con Madrid, con possibili mobilitazioni di piazza, i cui potenziali sviluppi nessuno si azzarda a delineare.

Non è chiaro fino a che punto il governo Rajoy sarà pronto a spingersi, nel caso in cui la Generalitat chiami effettivamente i catalani alle urne ed approvi la già predisposta “legge di disconnessione”, né se attiverà il sinora mai utilizzato articolo 155 della Costituzione spagnola, che permette al governo di surrogarsi nei poteri di una Comunità autonoma per garantire l’“adempimento forzoso” della legge.

Per il momento, Madrid ha saggiamente optato per la moderazione, confermando che impugnerà l’eventuale convocazione del referendum, ma invitando al dialogo dentro i limiti della legalità. Secondo il governo centrale, lo scenario più probabile (o comunque più auspicabile) è quello che, di fronte all’impossibilità di svolgere il referendum, si convochino infine elezioni regionali anticipate.

Ciò smorzerebbe forse temporaneamente le tensioni, ma non risolverebbe in ogni caso il problema di fondo, destinato a ripresentarsi con le sue fasi di picco cicliche. Un problema che rappresenta, insieme al superamento del bipartitismo, uno dei sintomi più evidenti di “esaurimento” dell’architettura democratica uscita dalla transizione post-franchista e del suo modello territoriale. Un modello ormai superato, poco chiaro nella ripartizione delle competenze e non sufficiente per rispondere alle domande di “specialità” da parte di alcune realtà regionali.

Appare dunque necessaria una strategia proattiva, che punti a recuperare quel 20-30% di catalani convertitisi negli ultimi anni all’indipendentismo, molti dei quali tra gli elettori più giovani. Occorre approfittare della “fatigue” che la società catalana sta avvertendo rispetto ad un processo indipendentista ormai annunciato da anni, ma che sembra intrappolato in un copione che si ripete senza apparente via d’uscita.

Occorre, appunto, offrire questa via d’uscita, elaborando un nuovo progetto di convivenza del Paese, che ascolti le rivendicazioni economiche catalane e consenta forme più profonde di autogoverno, pur nel rispetto del principio di solidarietà intra-regionale, e mettendo, ove necessario, mano alla Costituzione in linea con le specificità e la pluralità della realtà spagnola.

Elisabetta HolsztejnTarczewski è diplomatica. Le opinioni sono espresse a titolo personale e non sono riconducibili al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.

lunedì 19 giugno 2017

Ricerca Parametrale n. 547 Notizie del 13 Giugno 2017

Elezioni in Francia e Gran Bretagna, Qatar, Italia-Egitto
Newsletter n° 547 , 13 giugno 2017

Successo a valanga per Emmanuel Macron: la sua République
 En Marche - al debutto nelle urne francesi - finisce in testa
 anche nel primo turno delle legislative, con il 32,3%, staccando
 i Républicains - arrivati secondi - di 11 punti. In vista dei
 ballottaggi di domenica prossima, il presidente Macron 
può gongolare, prevedendo una maggioranza che supererebbe 
ampiamente i 400 seggi all'Assemblea nazionale. Per un leader 
che si assicura un solido sostegno parlamentare, un'altra vacilla,
 vittima della voglia di voto anticipato e delle sue conseguenze 
politiche. In che modo la debolezza di Theresa May influenzerà il 
negoziato della Brexit (che inizia lunedì prossimo) e la costruzione
 di una difesa Ue senza Londra? Nel frattempo, continua la crisi nel 
Golfo: una lista con i nomi di 59 personalità e 12 organizzazioni legate
 al Qatar e ritenute "sponsor del terrorismo" è stata pubblicata, mentre
 Riad lancia agli attori regionali un chiaro monito, mettendo Doha nell'angolo.
 Quali sono le ripercussioni sull'Italia e l'Ue? E il nostro Paese 
manderà l'ambasciatore al Cairo, dove un rappresentante italiano manca da
 più di un anno, in risposta alla crisi apertasi con l'Egitto.


Caso Regeni
Italia-Egitto: tempo di mandare l’ambasciatore
Ugo Tramballi
12/06/2017
 più piccolopiù grande
È dall’aprile 2016 - più di un anno - che l’Italia non ha un ambasciatore al Cairo: da quando i giudici egiziani incaricati di seguire le indagini e risolvere il caso della morte di Giulio Regeni erano venuti a Roma. Noi pensavamo portassero almeno qualche scampolo di verità; loro di venire solo a fare una breve ma ostentata vacanza romana.

L’ambasciatore Maurizio Massari fu richiamato in patria e poco più tardi mandato a Bruxelles, alla rappresentanza permanente presso l’Ue. Qualche tempo dopo, la Farnesina nominò il suo sostituto: Giampaolo Cantini. Che non è mai partito per il Cairo.

A Garden City, il quartiere sul Nilo dove sorge la nostra ambasciata - un luogo impossibile da proteggere -, il personale svolge da 14 mesi il minimo necessario: niente missioni governative o imprenditoriali da organizzare o sostenere, scarsi contatti con le autorità egiziane e forzatamente non di alto livello.

Al fianco di Roma nessuno, o quasi 
Pressioni e mobilitazioni non sono servite per avere dal governo egiziano una modica quantità di giustizia: una giustizia plausibile, formale, che individui i nomi di qualche responsabile da arrestare. Sapendo bene che dopo qualche tempo sarebbe silenziosamente scarcerato.

Niente. Nemmeno la mediazione di Papa Francesco in visita dal presidente Abdel Fattah al Sisi ha prodotto qualche risultato. Neanche la diplomazia parallela di Eni, che due anni fa aveva scoperto il giacimento di Zhor: 850 miliardi di metri cubi di gas.

Al contrario, il presidente egiziano è stato fra i primi a essere ricevuto alla Casa Bianca. Nel successivo incontro a Riad con tutti i capi di Stato e di governo sunniti, Donald Trump ha pubblicamente elogiato il collega egiziano. Occorre molta fantasia per pensare che ci sia in Europa, in Occidente e nel resto del mondo qualcuno che ci spalleggi nella richiesta di verità per l’arresto, il lento massacro e la morte di Giulio Regeni. Al contrario, con la scusa del terrorismo - una minaccia reale -, al Sisi ha intensificato la repressione, lo stato di polizia, gli arresti, le torture, la sparizione di centinaia di giovani che non avevano nulla a che vedere con l’Isis.

Come spiega riguardo all’Egitto “Civil Society Under Assault”, un report del Carnegie appena pubblicato e dedicato alle repressioni in tre Paesi (gli altri due sono Russia ed Etiopia), il regime di al Sisi “hasused sweeping antiterrorism and antiprotest measures to institutionalize previously extra judicial practices. Egyptians authorities have targeted human rights groups. In parallel the regime has escalated the use of enforced disappearances and detection of activists, dissident and suspected Brotherhood supporters”.

Verità per Giulio e boicottaggio
E dunque? I genitori di Giulio e il vasto movimento di opinione che li sostiene sono comprensibilmente determinati: niente ambasciatore al Cairo senza verità.

Un diplomatico europeo che conosce bene l’Egitto è convinto che “la fine del boicottaggio italiano sarebbe la fine di ogni speranza di conoscere la verità: il regime prenderebbe il ritorno del vostro ambasciatore come la rinuncia ufficiale a proseguire il caso”. Il problema è che per il governo del Cairo il caso è già chiuso: non c’è un solo elemento che faccia sperare il contrario.

Intanto ci sono gli italiani che vivono in Egitto. Ci sono decine di studenti e di giovani ricercatori come Giulio che lavorano nelle università. C’è un interscambio commerciale da 5 miliardi di euro che ora langue. Ci sono decine di aziende che hanno investito e aperto imprese in tempi non sospetti, che danno lavoro a 40mila egiziani e garantiscono un fatturato di altri 5 miliardi di euro: Eni, Edison, Pirelli, Alex Bank.

“Nei nostri confronti non c’è ostilità. Peggio: quasi indifferenza”, mi diceva qualche tempo fa Marcello Sala, presidente del Business Council italo-egiziano ed ex Alex Bank. “Avete deciso di non venire?, ci dicono. No problem: ci sono i francesi e i tedeschi, i cinesi e i russi. Il paradosso è che noi siamo in guerra con l’Egitto. Ma l’Egitto non lo è con noi. È da qui che viene la domanda al governo italiano: e adesso? Vogliamo solo sapere se quel paese non è più una priorità per l’Italia e programmare altrove gli investimenti”.

Per questo, per i giovani che continuano ad andare in Egitto nonostante il governo italiano si sforzi di fermarli, per continuare ad avere una voce autorevole che ricordi ogni giorno Giulio Regeni e chieda verità. Per tutto questo, non servirebbe togliere Giampaolo Cantini dall’inutile parcheggio alla Farnesina e mandarlo sulla prima linea del Cairo?

Ugo Tramballi è editorialista del Sole 24 Ore.

Ricerca Parametrale n. 546. Notizie del 13 giugno 2017

G7 e Ambiente
L’Ue dichiara guerra allo spreco alimentare
Daniele Fattibene
10/06/2017
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Uno dei fenomeni più drammatici a cui la nostra società sembra essersi tristemente abituata è l’ormai inaccettabile squilibrata distribuzione del cibo a livello globale, con milioni di individui che non hanno accesso a cibo sano e nutriente a dispetto di altri che invece possono permettersi il lusso di gettarlo, generando sprechi e perdite alimentari (il cosiddetto Food Losses and Waste).

Secondo la Fao, più di un miliardo di tonnellate di cibo sono sprecate ogni anno, per cause diverse, nei Paesi sviluppati (cattive abitudini dei consumatori unite all’assenza di coordinamento tra i vari attori della filiera alimentare) e in quelli in via di sviluppo (infrastrutture carenti e altre debolezze strutturali di tipo finanziario e manageriale).

Il tema ha suscitato una grande reazione non solo di istituzioni nazionali e internazionali, ma anche della società civile. Non è un caso che esso sia stato inserito nella “Carta di Bologna per l’ambiente”, firmata l’8 giugno durante uno dei tanti eventi collaterali alla ministeriale del G7 sull’Ambiente dell’11 e 12 giugno.

Fao: 2,6 miliardi di costi globali
Per la Fao i costi globali di sprechi e perdite alimentari ammonterebbero a circa 2,6 mila miliardi di euro. Oltre alle perdite economiche, ci sono enormi costi ambientali e sociali tra cui le emissioni di CO2 nell’atmosfera, lo sfruttamento delle risorse idriche e agricole, oltre che una seria minaccia per la biodiversità.

I Paesi membri dell’Unione europea generano ogni anno circa 90 milioni di tonnellate di sprechi e perdite alimentari (circa 173 kg pro capite), per un valore totale superiore ai 140 miliardi di euro, pari all’intero bilancio dell’Ue.

Anche per arginare questo fenomeno, la Commissione europea nel 2015 ha lanciato un pacchetto (fatto di un actionplan e quattro proposte di direttiva) sulla cosiddetta “economia circolare”, attualmente al vaglio del Parlamento e del Consiglio. L’obiettivo è di allineare le politiche europee agli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu, creando un modello di consumo e di produzione realmente sostenibile.

L’economia circolare dell’Ue
La proposta di direttiva della Commissione sui rifiuti (di cui lo spreco alimentare fa parte) prevede tra le altre misure: la creazione di una metodologia comune entro il 2017 volta a misurare il fenomeno ed effettuare comparazioni tra i diversi Stati membri; la definizione di una chiara gerarchia del cibo che metta al primo posto il consumo umano rispetto alla sua conversione in mangime per animali o alla produzione di prodotti non edibili (biocarburanti, ecc.); la riduzione dello spreco nel settore primario, nella distribuzione, nella ristorazione e a livello domestico.

Per facilitare il raggiungimento di questo risultato è stata costituita una piattaforma europea multi-settoriale con l’obiettivo di condividere buone pratiche e affrontare gli aspetti più critici del tema, dalla definizione di spreco alla individuazione di linee guida per agevolare le donazioni di surplus di cibo a enti caritatevoli. La proposta della Commissione è stata emendata e poi approvata dal Parlamento riunito in seduta plenaria, inserendo obiettivi più stringenti per gli Stati membri come il dimezzamento di sprechi e perdite alimentari entro il 2030.

Le critiche degli attori del terzo settore
La proposta della Commissione ha suscitato inevitabilmente delle critiche da parte di vari attori. Non sarà facile raggiungere un accordo su una definizione condivisa di spreco e perdite alimentari e sulla metodologia di calcolo. Gli attori del terzo settore per esempio vorrebbero che oltre a misurare la quantità di cibo sprecato o perso nel corso della filiera si calcolasse anche la quantità di cibo recuperato. La misurazione dovrebbe coinvolgere inoltre gli sprechi e le perdite generate nel settore primario, dove spesso i produttori sono costretti a produrre fino al 30 per cento in più per rispettare i loro contratti.

Sul fronte della donazione del cibo ci sono poi problemi importanti relativi al rispetto dei princìpi igienico-sanitari del cibo donato, soprattutto nel caso di cibi freschi per i quali bisogna garantire la tutela della catena del freddo e che richiedono strutture di cui le associazioni di volontari non necessariamente dispongono.

Infine le linee guida europee devono a tutti i costi evitare che si arrivi a creare due categorie di individui: una che ha accesso a cibo sano e nutriente e una che può essere nutrita solo con le donazioni di surplus di cibo. L’obiettivo finale deve essere quello di rendere il sistema di produzione del cibo sempre più sostenibile, facendo sì che gli sprechi e le perdite alimentari cessino di costituire un elemento quasi intrinseco al sistema di produzione alimentare.

Francia e Italia in campo contro lo spreco alimentare
Nel frattempo Francia e Italia hanno già compiuto i passi più significativi a livello normativo nella lotta allo spreco alimentare. Entrambi hanno infatti emanato leggi molto importanti anche se gli approcci utilizzati differiscono in modo significativo.

La Francia ha adottato una legge piuttosto punitiva, volta ad eliminare la piaga del surplus di cibo invenduto e letteralmente distrutto praticata da alcuni grandi supermercati. È stato quindi istituitol’obbligo per i supermercati dalla superficie di almeno 400 metri quadri di donare il surplus di cibo a enti caritatevoli, con multe fino a 3.750 euro per i trasgressori.

In Italia invece, la recente legge Gadda ha visto il coinvolgimento di numerosi attori, con l’obiettivo di semplificare le procedure per la donazione del surplus di cibo, attraverso incentivi fiscali (come la riduzione della Tari) per chi dona cibo ad enti caritatevoli, ma anche intervenendo sul tema delle etichette (si pensi alla differenza spesso poco chiara al consumatore tra “scade il” e “consumarsi preferibilmente entro”) e costituendo un tavolo di confronto a livello di ministero dell’Ambiente per coordinare i vari attori coinvolti.

Verso la creazione di un DG Food?
La proposta della Commissione che sarà approvata nei prossimi mesi rappresenterà un grande passo in avanti nella lotta globale contro spreco e perdite alimentari, anche se diversi sono i temi su cui bisognerà lavorare in futuro per raggiungere risultati ancora più tangibili. Tra questi non solo la necessità di includere maggiormente il settore agricolo riducendo a monte la sovrapproduzione di cibo e tutelando allo stesso tempo i produttori; servirà anche una maggiore attenzione verso il settore digitale che sta dando già importanti risultati in materia di donazione del cibo; occorre poi una maggiore educazione dei consumatori per diffondere stilidi alimentazione più consapevoli e sostenibili.

L’obiettivo più ambizioso è però quello di produrre un cambio istituzionale a livello europeo, che porti alla creazione di un vero e proprio DG Food che dia vita ad una nuova politica Ue di sicurezza alimentare che si basi sul nesso tra cibo, acqua, energia e cambiamento climatico e consenta di restituire al cibo il valore che merita.

Daniele Fattibene lavora nel programma Sicurezza e Difesa dello IAI (@danifatti).

domenica 18 giugno 2017

Ricerca parametrale n. 545. Notizie del 6 giugno 2017

Legislative, primo turno
Francia: un solo scenario, Macron pigliatutto
Jean-Pierre Darnis
09/06/2017
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"L’elezione del presidente della Repubblica sta divorando le politiche". Cosi l’ex primo ministro Jean-Pierre Raffarin commentava recentemente la dinamiche delle legislative in Francia. La République En Marche, il partito creato dal neo presidente Emmanuel Macron, si sta affermando in molti collegi elettorali.

In poche settimane, il partito ha avviato la selezione dei candidati su basi curriculare, presentando una serie di facce nuove sul territorio. I partiti tradizionali, LesRépublicains a destra e il partito socialista a sinistra, sembrano ormai debolissime controfigure.

La destra i e socialisti ridotti a figuranti
La dinamica dell’elezione presidenziale aveva già mandato in soffitta il partito socialista, con un’emorragia di dirigenti traslata verso il candidato centrista. La nomina di Edouard Philippe a capo del governo, con l’insieme dei dicasteri economici affidati a politici di destra, ha rappresentato la seconda fase dell’operazione di conquista politica, quella dell’Opa su gran parte della destra.

Anche la decisione di riaprire le discussioni sulla riforma del mercato del lavoro ha dato un altro colpo ai Republicains, visto che questo tema era da decenni parte del Dna della destra. Destabilizzati dalle presenze significative al governo, i politici di destra rimangono poi senza voce tanto il programma lanciato dalla presidenza riprende idee che non possono criticare.

Un mese di presidenza ineccepibile
Bisogna costatare che il primo mese di presidenza Macron è stato ineccepibile. Il presidente si è subito distinto per un utilizzo della carica consono alla sua sacralità. Nonostante si serva puntualmente delle occasioni fornite dall’agenda presidenziale per apparire e parlare in pubblico, Macron presta molta attenzione a rimanere sull’altare presidenziale e a non ripetere gli errori commessi in passato sia da Hollande che da Sarkozy, i quali apparivano troppo dozzinali sia in termini morali che di frequentazioni vip.

Piccoli dettagli, come la decisione di festeggiare la sua vittoria di fronte alla piramide del Louvre, hanno delineato la ricercatezza nell'attenzione all’immagine. Macron si è recato nella base militare di Gao in Mali per esprimere il suo sostegno alle truppe, in puro stile presidenziale americano; ha colto il pretesto della visita ai cantieri navali di Saint Nazaire per chiedere una revisione dell’accordo con Fincantieri e apparire come il paladino della difesa dell’interesse industriale francese.

Ovvio che questa mossa abbia suscitato parecchio risentimento in Italia, perché ha riaperto una partita che sembrava già chiusa, ma Macron prosegue sulla sua strada elettorale dove ogni operazione è propedeutica alla conquista di ulteriori consensi.

Altro esempio, la decisione presa da Donald Trump di uscire dagli accordi di Parigi sull’ambiente ha suscitato un’importante reazione negativa mondiale. Macron ha colto la palla al volo con il tweet “Make Our Planet Great Again” diventato virale. Infine, il presidente non ha trascurato di essere presente alle finali della Coppa di Francia di calcio e del campionato di rugby, coltivando l’immagine di un presidente giovane e amante degli sport popolari.

Un Paese che si compatta intorno alla presidenza
Di fronte a questo impeccabile percorso, il Paese si sta compattando intorno alla presidenza della Repubblica. La vittoria elettorale è stata un incredibile colpo politico, ma quest’operazione ha cambiato il panorama. Le ragioni del disagio che aveva nutrito l’estrema destra e l’estrema sinistra sono ancora presenti. Ma la maggioranza dei Francesi appare stanca delle opposizioni osservate nella lunga campagna elettorale, durata almeno un anno includendo le primarie e caratterizzata da colpi di scena, opposizioni violente e minacce di destabilizzazione con programmi che mettevano a rischio la stabilità europea.

L’elettorato vuole voltare pagina. Emmanuel Macron ha vinto le presidenziali in modo brillante e esiste ormai un sentimento diffuso volto a sostenerlo dotandolo di mezzi politici atti a governare. Per questo motivo si è imposto lo scenario di una larga vittoria del partito “La République En Marche” alle politiche.

Subito dopo l’elezione di Emmanuel Macron molti analizzavano la situazione guardando alle passato e affermando l’impossibilità che un esercito di candidati sconosciuti potesse affermarsi nelle urne fino al punto di ottenere la maggioranza assoluta. Si ragionava anche sulle possibilità di maggioranze allargate ai socialisti o ai “républicains” nell’ambito di coalizioni oppure di maggioranze di scopo per votare alcune leggi.

Questi scenari sembrano ormai archiviati, tant’è grande la solidificazione del consenso intorno al presidente che dovrebbe sfociare nella maggioranza assoluta all’Assembla superando, anche di gran lunga, il traguardo dei 288 eletti. Anche se la legge elettorale maggioritaria francese crea un forte collegamento fra l’eletto e il suo territorio, non essendo previste liste nazionali, la slavina macronista è tale che molti francesi si accingono a votare il “partito del presidente” e ad eleggere un’intera classe di candidati pressoché sconosciuti.

Questa operazione rinforzerà il mandato del presidente che dovrà d’altro canto consegnare risultati. Il rinnovo inedito della classe parlamentare francese creerà delle complicazioni, senza dubbio, il che rafforzerà ulteriormente il potere della Presidenza della Repubblica sia come centro decisionale ma anche come expertise tecnica, essendo supportato da tecnici al governo.

È dai tempi del Gollismo trionfante, alla fine degli anni 1950, che la Francia non appariva cosi politicamente compatta, una Francia che potrà quindi lanciare una sfida ai partner europei, chiamati a rispondere alle spinte riformiste parigine.

Jean Pierre Darnis è Direttore Programma Sicurezza e Difesa IAI.


Lo chiamano le troisième tour: più che un appuntamento elettorale a sé, un vero e proprio terzo turno delle elezioni presidenziali. In effetti il voto per il rinnovo dell’Assemblea nazionale non solo è strettamente legato a quello per l’elezione del presidente, ma è, solitamente, nient’altro che la conferma del risultato della precedente consultazione.

In un sistema bipolare com’è - o meglio com’era, fino alla vittoria il 7 maggio di Emmanuel Macron - quello francese, gli elettori tendono a risintonizzarsi sulle stesse frequenze politiche del mese prima e la maggioranza dei seggi finisce per essere occupata da deputati allineati con il presidente. Ora che il bipolarismo è saltato, le cose non sono più così scontate.

L’incognita è soprattutto legata alla velocità con cui si è realizzata la svolta centrista dell’elettorato francese. Macron è sì riuscito a mettere ai margini la destra e la sinistra storiche, ma con un partito che è ancora allo stadio di debuttante: La République en marche - con cui si presenta alle legislative - è il figlio, con appena un mese di vita, di un movimento che ha da poco compiuto un anno. Senza contare che la meteora Macron si è accesa così velocemente anche grazie alla spinta anti-LePen che ha caratterizzato gli ultimi mesi della campagna elettorale.

Il rischio, qualora non confluissero sufficienti voti su La République en marche, è la cosiddetta coabitazione, come si definisce la situazione in cui maggioranza parlamentare e capo di Stato in carica appartengono a schieramenti opposti.

Si verificò sotto la presidenza di François Mitterand nel 1986 e nel 1993, e con quella di Jacques Chirac nel 1997; oppure, un’inedita, per la Francia, coalizione.Stando ai sondaggi, però, Macron dovrebbe seguire piuttosto il modello De Gaulle: le intenzioni di voto suggeriscono che il presidente otterrà una maggioranza simile a quella del padre della Quinta Repubblica nel 1968.

Presidenziali “mignon”
Come per l’elezione del presidente, il voto per il rinnovo dell’Assemblea Nazionale si distribuisce su due turni, il primo l’11 giugno, il secondo il 18. I seggi da occupare sono 577, così come i collegi uninominali in cui è diviso il territorio francese. Se nessun candidato raggiunge il 50%, la sfida si sposta al secondo turno, tra i due o più candidati che hanno ottenuto almeno il 12,5% degli aventi diritto al voto.

La possibilità di uno scontro a tre o a quattro è l’unica grande differenza tra legislative e presidenziali. Ed esattamente come per l’elezione del presidente, può succedere che al ballottaggio gli elettori che hanno visto sconfitto il proprio candidato decidano di utilizzare il loro voto più che per favorire la loro seconda scelta per sfavorire la terza.

Per questo l’estrema destra di Marine Le Pen, che oggi rappresenta almeno il 25% dell’elettorato, difficilmente potrà ottenere una percentuale equivalente di seggi alle legislative: è più probabile che gli altri partiti e rispettivi elettori si coalizzino, come per il ballottaggio con Macron, contro il Front National. Come nel 2012, quando il 13% di voti conquistati dal partito alle legislative non riuscì a tradursi in più di due seggi.

Per avere la maggioranza, Macron dovrebbe vedere vincere il proprio partito in almeno 289 collegi. Un capo di Stato che non sia sostenuto dall’Assemblea nazionale, in Francia, conserva il potere di decidere la politica estera e di difesa, ma non quello - da negoziare con gli altri partiti - di definire l’agenda di politica interna.

La République en marche e l’alleanza con MoDem
Un’ex torera professionista, un pilota intervenuto in Siria, un eccentrico studioso della matematica: sono solo alcuni tra i profili più caratteristici dei 526 candidati presentata da Emmanuel Macron. La vera originalità sta però nel fatto che si tratta - come nel 77% dei nomi scelti dal presidente - di personaggi estranei alla politica, o che non esercitano alcun incarico pubblico.

L’età media dei candidati è poi di 46 anni - contro i 60 dei deputati uscenti - a testimoniare che sull’idea di rinnovare il panorama politico francese Macron fa sul serio. È con questa squadra che il presidente spera di portare avanti la sua politica europeista e il suo programma di riforma del lavoro, sul quale - ha annunciato - ha già in mente di procedere per decreti, con l’obiettivo di superare entro la fine dell’estate un sistema che ad oggi “non crea occupazione né attrae investitori”.

Alleato de La République en marche, dopo qualche iniziale difficoltà, è il Movimento Democratico di François Bayrou, che ha ottenuto di presentare un centinaio di candidati nella stessa lista. Le circoscrizioni lasciate senza candidato non sono casuali: l’alleanza presidenziale non concorrerà dove sono schierate personalità già favorevoli a una collaborazione in Assemblea.

Marine Le Pen, “Voglio essere sola”
Consapevole di non avere il favore di altri partiti, il Front National corre da solo e schiera ben 571 candidati, quasi uno per ogni circoscrizione. Tra questi c’è la stessa Marine Le Pen: riluttante in un primo momento, la leader euroscettica si è infine decisa a concorrere per il seggio di Nord Pas di Calais, regione che le ha consegnato il 58% delle preferenze al secondo turno delle presidenziali. In generale, anche il Front National presenta una lista di giovani - età media 47 anni -,l’80% dei quali, tuttavia, già detentori di un incarico politico a livello locale.

C’era, inizialmente, una prospettiva di alleanza con il partito sovranista Debout la France, guidato da Nicolas Dupont-Aignan, ma l’accordo è stato presto sospeso. Quanto al programma, per il Fn la riforma del lavoro non sembra essere una priorità - almeno non quanto l’uscita dall’Unione europea e dall’Euro - e la proposta di Macron di realizzarla attraverso decreti sarebbe invece un tentativo di “colpo di Stato” al servizio delle grandi aziende.

La Destra in agitazione: Repubblicani e Udi
481 candidati, più i 146 dell’Unione dei Democratici e degli Indipendentisti, non bastano a rassicurare i Repubblicani, messi all’angolo dal ciclone Macron alle presidenziali e ora di fronte a un bivio: rivendicare l’identità di destra o scendere a patti con il presidente, che nel frattempo li ha attratti a sé nominando Édouard Philippe primo ministro e affidando a Bruno Le Maire e Gérald Darmanin i dicasteri dell’Economia e dei Conti pubblici. François Baroin, a capo della campagna repubblicana per le legislative, pende senz’altro per la prima ipotesi ed è anzi determinato a imporre a Macron una coabitazione con la “sua” destra.

Leggermente ritoccato il programma originario dell’ex candidato presidenziale, François Fillon. Resta la proposta di eliminare le 35 ore di lavoro settimanali e di riformare la tassa sul patrimonio, ma cambiano le posizioni su alcuni temi: tagli alla spesa pubblica più graduali, minore apertura verso i matrimoni gay, priorità alla creazione di“una vera Unione politica europea”.

La sinistra ambiziosa di Mélenchon
Per i sondaggi è ormai l’unica sinistra, sempre più avanti rispetto al Partito Socialista. Del resto è proprio l’obiettivo del leader della France Insoumise, Jean-Luc Mélenchon: diventare il punto di riferimento della sinistra a spese del vecchio, storico, partito, cui ha già sottratto un’ampia fetta di elettorato nella corsa all’Eliseo.

Anche la sua Francia ribelle fa il pieno di circoscrizioni, con una lista dicandidati giovani - ce n’eè uno di 19 anni -, per il 60% provenienti dalla società civile. Dovevano farne parte anche alcuni nomi del Partito Comunista, ma i rapporti tra le due sinistre sono andati deteriorandosi nel corso della campagna elettorale, fino al disfacimento dell’accordo.

Invariato il programma politico: garantire un salario minimo che favorisca i meno abbienti, abbassare l’età pensionabile, introdurre nuove misure a tutela dell’ambiente, rinegoziare i Trattati con l’Unione europea.Lo stesso Mélenchon è candidato a Bouches-du-Rhône, in Provenza, dove ha già riscosso un discreto successo alle presidenziali: neanche a dirlo, un vecchio bastione socialista.

Socialisti in crisi, ancora
Spinto sempre più al largo dall’estrema sinistra, la sua priorità ora è essenzialmente quella di sopravvivere. Il Partito socialista, in coda nei sondaggi, ha presentato oltre 400 candidature, lasciando le restanti circoscrizioni ai suoi alleati - i Verdi, l’Unione dei Democratici ed Ecologisti e il Partito Radicale di sinistra.

L’attuale programma politico abbandona alcune delle proposte dell’ex candidato presidenziale Benoît Hamon - come l’uscita dal nucleare - e si oppone, come già altri programmi avversari, all’idea del presidente Macron di riformare le regole del lavoro attraverso una serie di decreti.

Isabella Ciotti è giornalista.

Ricerca Parametrale n. 544, Notizie del 1 giugno 2017

Francia, Bce, Corea del Nord, G7 e Trump
Newsletter n° 544 , 1 giugno 2017

I sondaggi sorridono a Emmanuel Macron, quando mancano
 10 giorni al voto per il rinnovo dell'Assemblea nazionale:
 i francesi vogliono dare al presidente un mandato pieno
 e si preparano a premiare la sua République En Marche
 nelle urne delle legislative (primo turno l'11 giugno). 
L'Ue, che studia gli spazi d'azione lasciati liberi dal
paventato disimpegno globale degli Stati Uniti di Donald
 Trump, conferma intanto - per bocca del presidente della
 Bce Mario Draghi - la necessità di mantenere ancora aperti
 i rubinetti del Quantitative Easing, nonostante i timidi 
segni di ripresa delle prospettive economiche dell'eurozona.
 A Oriente, invece, la Corea del Nord non arretra di un
 passo le sue provocazioni, fra lanci missilistici e sprezzanti
 messaggi all'indirizzo di Washington e Seul: le sanzioni
 internazionali sono ancora uno strumento valido?

erso le politiche
Francia: elezioni, più web che tv
Alessandro Miglioli
01/06/2017
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Che la competizione politica sia sempre più incentrata sul campo di battaglia di internet e delle nuove tecnologie è il più grande segreto di Pulcinella del nostro tempo.

Il contesto politico internazionale di questi mesi è caratterizzato da una densa serie di tornate elettorali. Gli Stati Uniti, la Francia, il Regno Unito e la Germania, (quattro fra le sei maggiori economie mondiali) saranno tutti passati per le urne in poco più di dieci mesi. A questi va poi aggiunta l’evenienza ancora possibile di elezioni politiche anticipate in Italia.

La prossimità temporale di questi appuntamenti democratici ha ulteriormente accentuato un fenomeno di interconnessione dei discorsi politici: quest’anno più che mai abbiamo assistito ad un interesse reciproco degli elettori per le scelte delle loro controparti straniere. Questo fenomeno ha certamente fra le sue concause l’interdipendenza economica che è emblema del nostro tempo, ma i fenomeni economici, mi si perdoni la tautologia, hanno ragioni di natura economica.

L’influenza dei social sul voto
Quello che sarebbe interessante osservare è il modo in cui l’interconnessione sociale dovuta ai social network e ad internet più in generale sta influenzando questa serie di tornate elettorali. Concentriamoci, a titolo d’esempio, sulle recenti elezioni francesi. In questi giorni il dibattito politico nella terra digitale d’Oltralpe ha attraversato un periodo di relativa calma, non a causa di una distensione dei rapporti fra le forze politiche, quanto piuttosto per il fatto che ci si trova all’interno di un occhio del ciclone elettorale, con le elezioni presidenziali appena concluse, e quelle legislative dell’11 e 18 giugno già dietro l’angolo.

L’importanza che il cyber-discorso politico ha raggiunto è esemplificata da un dato su tutti, il tempo di parola concesso dai media tradizionali, quali radio e televisione. Secondo le rilevazioni del Csa (Conseil Supérieur de l’Audiovisuel) i due candidati che hanno ricevuto il maggior numero di ore di attenzione da parte dei media tradizionali non sono riusciti ad approdare al secondo turno.

Hamon, il candidato socialista, ha ricevuto solo un quarto dei voti di Macron, pur avendo avuto il 10% di tempo in più del giovane centrista. Fillon, il candidato dei repubblicani, si è classificato appena una manciata di voti al di sopra di Mélenchon, pur avendo potuto parlare quasi il doppio alla radio e in tv.

I due candidati vincitori del primo round delle elezioni presidenziali, e che adesso si preparano alle legislative in veste, rispettivamente, di presidente - Emmanuel Macron - e di leader del principale partito d’opposizione - Marine Le Pen -, sono invece stati costretti a basare la loro strategia su un più pervasivo utilizzo dei social media, venendo ampiamente ricompensati da questa scelta parzialmente obbligata.

Macron e Le Pen alla prova dei social
Il primo e più ovvio dato sulla loro capacità di persuasione su internet è il numero “mi piace” alle pagine, che sono effettivamente le due pagine con più iscritti nel panorama politico francese. Al di là di questo dato, che non deve essere certo preso come verità ultima (Facebook non può e non deve sostituirsi alle agenzie di polling), è ancora più interessante osservare come i due candidati si pongano su posizioni opposte sul cleavage interconnessione-isolamento, invece che sulla più classica dicotomia destra-sinistra.

È su questo nuovo asse che si basa sempre più la politica: i risultati di eventi politici come l’elezione di Trump e la vittoria della Brexit ne sono efficaci testimonianze. Ed è su questo tema che si coagulano in maniera sempre più chiara due coalizioni di pensiero su base internazionale, aiutate dalle possibilità di comunicazione garantite da internet.

Queste nuove posizioni politiche, una chiaramente internazionale, e l’altra, paradossale alleanza internazionale dei nazionalismi, sono nate e cresciute grazie ed in risposta all’interconnessione. La facilità con cui ci si può rispecchiare e sentirsi partecipe delle posizioni politiche di uno straniero è effettivamente senza precedenti nella storia umana.

Questa nuova capacità di immedesimazione politica internazionale che pervade l’occidente ha però un contraltare nel fenomeno denominato dal Wall Street Journal ‘Blue Feed, Red Feed’, dai colori dei due principali partiti politici americani.

L’effetto Blue Feed, Red Feed
Questo fenomeno ha origine nel funzionamento stesso degli algoritmi dei social network, ma prima ancora che da una ragione tecnologica, nasce da una ragione psicologica. In base alle preferenze espresse precedentemente, il social network propone all’utente la visualizzazione di contenuti simili a quelli già visualizzati ed apprezzati. Dunque un sostenitore della Le Pen, per fare un esempio, finirà per trovare sulla sua bacheca immagini, video ed articoli in linea con le posizioni del Front National. Viceversa per i sostenitori di Macron o di qualsiasi altro gruppo politico.

Questo meccanismo sta portando sempre di più a una fossilizzazione delle posizioni politiche dei cittadini europei, che trovandosi continuamente rinforzati nelle loro opinioni da pareri affini finiscono per non poter vedere in nessun modo i punti di forza di idee concorrenti.

Le due tendenze di cui abbiamo parlato, agendo contemporaneamente, rendono internet il luogo ideale per consolidare consensi fra coloro che hanno posizioni affini, ma al tempo stesso le azioni di convincimento sugli elettori di posizioni avversarie, ed anche solo la possibilità di uno scambio civile di opinioni, si fanno ogni giorno più difficili.

Il nuovo cleavage internazionalismo-isolamento è dunque entrato nella scena politica per restarci, probabilmente per molti anni, perché è iscritto nella struttura stessa del nuovo campo di battaglia politico.

Alessandro Miglioli è laureato all'Università di Bologna in sviluppo e cooperazione internazionale.
 



Trump e l’Europa
G7 e Nato, un drammatico ‘wake up call’
Ferdinando Nelli Feroci
30/05/2017
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Che non ci fosse una speciale sintonia tra il nuovo presidente americano e l’Europa era cosa nota. La distanza di posizioni e sensibilità era emersa con chiarezza fin dalla campagna elettorale di Trump candidato, e poi a seguito delle prime decisioni di Trump presidente.

Ruolo degli Usa nel mondo, le varie declinazioni del principio “America first”, la sfiducia nella Nato, il rapporto con la Russia, il disimpegno rispetto al ruolo delle istituzioni multilaterali, la diffidenza se non addirittura l’ostilità nei confronti dell’Unione europea, le posizioni espresse in materia di migrazioni, di commercio internazionale, di clima e energia, erano emersi fin dall’inizio come altrettanti fattori di divergenza tra il nuovo presidente Usa e gli europei.

In Europa si era poi sperato che il sistema dei “checks and balances” previsto dalla Costituzione americana, la pratica di governo, un’auspicata presa di coscienza delle complessità del quadro internazionale, e il ruolo di alcuni collaboratori più esperti di affari internazionali, avrebbero contribuito a ridimensionare un programma di governo probabilmente coerente con le aspettative degli elettori di Trump, ma francamente destabilizzante rispetto a un partenariato transatlantico che si era finora basato su valori e obiettivi condivisi.

La prima missione internazionale del nuovo presidente
Poi è arrivata la prima missione internazionale del presidente americano,per la quale vi erano grandi aspettative in Europa e nel Mondo. Così abbiamo potuto registrare che a Riad Trump ha ribaltato l’agenda del suo predecessore e ha puntato sull’obiettivo di un asse preferenziale con l’Arabia Saudita e con i Governi del mondo arabo sunnita per una grande alleanza contro il terrorismo di matrice islamica e in funzione di contenimento dell’Iran.

E abbiamo potuto constatare che a Gerusalemme Trump ha confermato il rapporto strategico con Israele; e ha manifestato solo un generico interesse per l’obiettivo della pace fra israeliani e palestinesi (ma senza assumere impegni per un coinvolgimento diretto degli Usa nel negoziato e senza menzionare la precondizione dei due Stati).

Ma è stato a Bruxelles e poi a Taormina che Trump ha lanciato il messaggio più chiaro ai suoi partner e alleati europei. Al Vertice Nato Trump ha evitato accuratamente ogni riferimento all’impegno americano in materia di difesa collettiva (il noto Articolo V del Trattato, che costituisce il fondamento e la motivazione originaria dell’Alleanza atlantica); ha ottenuto (senza troppe difficoltà, ma anche con poche implicazioni operative) un coinvolgimento della Nato nel contrasto del terrorismo; ma ha soprattutto messo in mora gli alleati europei, sollecitando assai bruscamente una loro accresciuta partecipazione alle spese dell’Alleanza e un aumento dei bilanci della difesa.

Taormina, uno dei Vertici più difficili di sempre
E poi a Taormina, in quello che è stato definito come uno dei Vertici G7 più difficili di sempre, si è potuta ancor meglio misurare la distanza che separa il presidente americano dagli europei (per una volta uniti e solidali, con l’eccezione della May in piena campagna elettorale e con una agenda politica tutta concentrata sulla Brexit).

A Taormina abbiamo non solo registrato la percepibile insofferenza di Trump per i rituali di un vertice multilaterale, e abbiamo potuto assistere alle varie scortesie istituzionali regolarmente sottolineate dalla stampa internazionale (tra cui la decisione clamorosa di evitare la consueta conferenza stampa a conclusione dei lavori del Vertice per andare a pronunciare un discorso di fronte alla truppe americane di stanza a Sigonella).

Ma soprattutto a Taormina si è avuta la netta impressione, malgrado il generoso tentativo del comunicato finale del Vertice di mascherare le differenze in un linguaggio diplomatico e apparentemente consensuale, che Trump abbia voluto cogliere l’occasione del primo incontro collegiale con i leader dell’Occidente per riaffermare le proprie posizioni di principio, contestare i meriti della concertazione e cooperazione in un quadro multilaterale e marcare le differenze,soprattutto rispetto agli europei, in particolare su gestione dei flussi migratori, commercio internazionale e contrasto del cambiamento climatico.

In sintesi a Taormina si è assistito ad un drammatico “wake up call” per gli europei, che d’ora in poi saranno consapevoli di dover affrontare senza il sostegno americano molti dossier di prioritario interesse: dalla difesa alle migrazioni, dal cambiamento climatico al commercio internazionale.

Ed è questo il senso delle dure parole, pronunciate, all’indomani di Taormina, dalla cancelliera tedesca Merkel, che per prima ha avuto il coraggio di prendere pubblicamente atto della nuova situazione (“sono finiti i tempi in cui potevamo fare affidamento sugli altri”) e ha chiamato gli europei “a prendere il loro destino nelle loro mani”, mostrando di avere colto il senso di quanto emerso al G7 e di trarne le necessarie conseguenze.

Una straordinaria finestra d’opportunità
Nell’ottica di una ripresa di iniziativa politica da parte dell’Europa e degli europei, la Merkel ci ha però anchevoluto ricordare che la Brexit prima e ora Trump possono offrirci una straordinaria finestra di opportunità per una rilancio del progetto europeo.

Sviluppi e nuovi impegni nel campo della sicurezza e di una dimensione europea di difesa, completamento della governance dell’Euro, un nuovo governo dell’economia, e politiche migratorie più efficaci e solidali, dovrebbero essere i settori su cui andare rapidamente a testare la volontà e la determinazione degli europei di “riprendere in mano il loro destino”.

E tutto questo beninteso non nella prospettiva di una contrapposizione frontale con gli Usa di Trump, di cui l’Europa comunque non potrà fare a meno. Ma in un’ottica di maggiore autonomia e di maggiore responsabilità dell’Europa e degli europei rispetto al tradizionale alleato e partner.

Certo si dovrà essere consapevoli che se non si riuscirà a procedere a 27 si dovrà essere pronti ad avviare iniziative a partecipazione variabile, sulla base del metodo delle integrazioni differenziate. E si dovrà ugualmente essere consapevoli che per procedere su questa strada la volontà politica costituirà una condizione necessaria ma non sufficiente; ma che sarà necessario anche soddisfare vari requisiti e precondizioni.

Francia e Germania sembrano pronte a raccogliere la sfida. C’è da sperare che anche l’Italia saprà fare la sua parte, non limitandosi a seguire iniziative di altri, ma partecipando da protagonista con idee e proposte. Un obiettivo che presupporrebbe peraltro un minimo di stabilità del quadro politico.

Ferdinando Nelli Feroci è presidente dello IAI.

Ricerca Parametrale n. 543. Notizie del 31 maggio 2017

Trump e l'Europa, il bilancio dei Vertici Nato e G7
Newsletter n° 543 , 31 maggio  2017

Prima gli Alleati a Bruxelles, poi i Grandi a Taormina hanno potuto
 prendere le misure della nuova politica estera di Donald Trump,
 al suo debutto all'estero e in una cornice multilaterale (per cui ha
 subito mostrato insofferenza). Un presidente fuori dagli schemi 
che ha battuto cassa, sollecitando un maggiore concorso dei 
Paesi membri alle spese della Nato, senza mai far riferimento 
all'impegno americano in materia di difesa collettiva. Una grave
 omissione strategica e politica. Ma Trump si cura solo del
 contrasto al terrorismo in ottica di protezione dei cittadini 
americani e non va per il sottile nella scelta dei compagni 
di strada. Gli interessi economici e commerciali, al grido di 
battaglia "America First!", tracciano il solco, poi, con i 
partner europei. Angela Merkel lo ha intuito al termine del 
G7 siciliano: "Sono finiti i tempi in cui potevamo fare affidamento
 sugli altri". Sono gli europei a dovere prendere il loro destino fra
 le mani: fra Trump a Washington e Londra alla prese con 
la Brexit, per l'Ue si apre una straordinaria finestra d'opportunità. 
Saprà sfruttarla? 

Le analisi del presidente dello IAI Ferdinando Nelli Feroci e del 
direttore di AffarInternazionali Stefano Silvestri.

Trump e l’Europa
G7 e Nato, un drammatico ‘wake up call’
Ferdinando Nelli Feroci
30/05/2017
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Che non ci fosse una speciale sintonia tra il nuovo presidente americano e l’Europa era cosa nota. La distanza di posizioni e sensibilità era emersa con chiarezza fin dalla campagna elettorale di Trump candidato, e poi a seguito delle prime decisioni di Trump presidente.

Ruolo degli Usa nel mondo, le varie declinazioni del principio “America first”, la sfiducia nella Nato, il rapporto con la Russia, il disimpegno rispetto al ruolo delle istituzioni multilaterali, la diffidenza se non addirittura l’ostilità nei confronti dell’Unione europea, le posizioni espresse in materia di migrazioni, di commercio internazionale, di clima e energia, erano emersi fin dall’inizio come altrettanti fattori di divergenza tra il nuovo presidente Usa e gli europei.

In Europa si era poi sperato che il sistema dei “checks and balances” previsto dalla Costituzione americana, la pratica di governo, un’auspicata presa di coscienza delle complessità del quadro internazionale, e il ruolo di alcuni collaboratori più esperti di affari internazionali, avrebbero contribuito a ridimensionare un programma di governo probabilmente coerente con le aspettative degli elettori di Trump, ma francamente destabilizzante rispetto a un partenariato transatlantico che si era finora basato su valori e obiettivi condivisi.

La prima missione internazionale del nuovo presidente
Poi è arrivata la prima missione internazionale del presidente americano,per la quale vi erano grandi aspettative in Europa e nel Mondo. Così abbiamo potuto registrare che a Riad Trump ha ribaltato l’agenda del suo predecessore e ha puntato sull’obiettivo di un asse preferenziale con l’Arabia Saudita e con i Governi del mondo arabo sunnita per una grande alleanza contro il terrorismo di matrice islamica e in funzione di contenimento dell’Iran.

E abbiamo potuto constatare che a Gerusalemme Trump ha confermato il rapporto strategico con Israele; e ha manifestato solo un generico interesse per l’obiettivo della pace fra israeliani e palestinesi (ma senza assumere impegni per un coinvolgimento diretto degli Usa nel negoziato e senza menzionare la precondizione dei due Stati).

Ma è stato a Bruxelles e poi a Taormina che Trump ha lanciato il messaggio più chiaro ai suoi partner e alleati europei. Al Vertice Nato Trump ha evitato accuratamente ogni riferimento all’impegno americano in materia di difesa collettiva (il noto Articolo V del Trattato, che costituisce il fondamento e la motivazione originaria dell’Alleanza atlantica); ha ottenuto (senza troppe difficoltà, ma anche con poche implicazioni operative) un coinvolgimento della Nato nel contrasto del terrorismo; ma ha soprattutto messo in mora gli alleati europei, sollecitando assai bruscamente una loro accresciuta partecipazione alle spese dell’Alleanza e un aumento dei bilanci della difesa.

Taormina, uno dei Vertici più difficili di sempre
E poi a Taormina, in quello che è stato definito come uno dei Vertici G7 più difficili di sempre, si è potuta ancor meglio misurare la distanza che separa il presidente americano dagli europei (per una volta uniti e solidali, con l’eccezione della May in piena campagna elettorale e con una agenda politica tutta concentrata sulla Brexit).

A Taormina abbiamo non solo registrato la percepibile insofferenza di Trump per i rituali di un vertice multilaterale, e abbiamo potuto assistere alle varie scortesie istituzionali regolarmente sottolineate dalla stampa internazionale (tra cui la decisione clamorosa di evitare la consueta conferenza stampa a conclusione dei lavori del Vertice per andare a pronunciare un discorso di fronte alla truppe americane di stanza a Sigonella).

Ma soprattutto a Taormina si è avuta la netta impressione, malgrado il generoso tentativo del comunicato finale del Vertice di mascherare le differenze in un linguaggio diplomatico e apparentemente consensuale, che Trump abbia voluto cogliere l’occasione del primo incontro collegiale con i leader dell’Occidente per riaffermare le proprie posizioni di principio, contestare i meriti della concertazione e cooperazione in un quadro multilaterale e marcare le differenze,soprattutto rispetto agli europei, in particolare su gestione dei flussi migratori, commercio internazionale e contrasto del cambiamento climatico.

In sintesi a Taormina si è assistito ad un drammatico “wake up call” per gli europei, che d’ora in poi saranno consapevoli di dover affrontare senza il sostegno americano molti dossier di prioritario interesse: dalla difesa alle migrazioni, dal cambiamento climatico al commercio internazionale.

Ed è questo il senso delle dure parole, pronunciate, all’indomani di Taormina, dalla cancelliera tedesca Merkel, che per prima ha avuto il coraggio di prendere pubblicamente atto della nuova situazione (“sono finiti i tempi in cui potevamo fare affidamento sugli altri”) e ha chiamato gli europei “a prendere il loro destino nelle loro mani”, mostrando di avere colto il senso di quanto emerso al G7 e di trarne le necessarie conseguenze.

Una straordinaria finestra d’opportunità
Nell’ottica di una ripresa di iniziativa politica da parte dell’Europa e degli europei, la Merkel ci ha però anchevoluto ricordare che la Brexit prima e ora Trump possono offrirci una straordinaria finestra di opportunità per una rilancio del progetto europeo.

Sviluppi e nuovi impegni nel campo della sicurezza e di una dimensione europea di difesa, completamento della governance dell’Euro, un nuovo governo dell’economia, e politiche migratorie più efficaci e solidali, dovrebbero essere i settori su cui andare rapidamente a testare la volontà e la determinazione degli europei di “riprendere in mano il loro destino”.

E tutto questo beninteso non nella prospettiva di una contrapposizione frontale con gli Usa di Trump, di cui l’Europa comunque non potrà fare a meno. Ma in un’ottica di maggiore autonomia e di maggiore responsabilità dell’Europa e degli europei rispetto al tradizionale alleato e partner.

Certo si dovrà essere consapevoli che se non si riuscirà a procedere a 27 si dovrà essere pronti ad avviare iniziative a partecipazione variabile, sulla base del metodo delle integrazioni differenziate. E si dovrà ugualmente essere consapevoli che per procedere su questa strada la volontà politica costituirà una condizione necessaria ma non sufficiente; ma che sarà necessario anche soddisfare vari requisiti e precondizioni.

Francia e Germania sembrano pronte a raccogliere la sfida. C’è da sperare che anche l’Italia saprà fare la sua parte, non limitandosi a seguire iniziative di altri, ma partecipando da protagonista con idee e proposte. Un obiettivo che presupporrebbe peraltro un minimo di stabilità del quadro politico.

Ferdinando Nelli Feroci è presidente dello IAI.

Trump e la Nato
Usa ed Europa, la forza o il valzer
Stefano Silvestri
30/05/2017
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Il presidente Donald Trump in altri tempi sarebbe stato definito un isolazionista. Non crede nelle alleanze e negli alleati e non pensa che gli Stati Uniti debbano preoccuparsi di governare il nuovo disordine della globalizzazione, ma piuttosto che essi debbano concentrarsi sulla difesa dei loro interessi immediati, soprattutto quelli di natura economica e commerciale.

Sulla sicurezza, visioni limitate
Anche sulla sicurezza ha una visione ristretta e parziale: si tratta di difendere le frontiere, non solo dalle minacce militari, ma anche dall'immigrazione clandestina e dalla concorrenza "sleale". Inoltre è necessario eliminare chi minaccia di uccidere cittadini americani, cioè oggi in primo luogo i terroristi.

A questo scopo non è il caso di fare gli schizzinosi: chiunque possa aiutare gli americani è accettabile, quali che siano le sue caratteristiche, dai principi sauditi ai governi europei. Gli americani guarderanno solo ai risultati della lotta al terrorismo. Tutto il resto non li riguarda.

L'articolo 5 grande assente
Molto si è detto sulla scelta di Trump, nel suo intervento al Vertice atlantico di Bruxelles, di non citare l'impegno contenuto nell'articolo 5 del Trattato di Washington, per cui qualsiasi attacco militare contro un alleato è considerato un attacco contro tutti: lo invocammo una volta sola, dopo l'attacco terroristico dell'11 Settembre 2001, ma è il fondamento della Nato, l'organizzazione militare transatlantica.

L'omissione è grave, non tanto in pratica (finché ci saranno militari americani nei vari Paesi europei alleati qualsiasi attacco contro di essi coinvolgerà direttamente anche gli Usa) quanto politicamente e strategicamente. Il problema maggiore non è che il presidente Trump non voglia impegnarsi a difendere gli europei, ma che, così facendo, egli faccia pensare di non ritenere i suoi alleati importanti per la difesa e la sicurezza degli Stati Uniti. Se così fosse, le fondamenta politiche e strategiche dell'Alleanza crollerebbero. Si tratta di un gigantesco errore.

Conseguenze di un grave errore
È anche un falso. Senza gli europei, ad esempio, gli americani non potrebbero controllare le rotte dei sottomarini atomici russi né lo spazio aereo euro-atlantico. Senza gli europei la prosperità economica americana andrebbe in crisi.

Certo, senza gli americani gli europei sarebbero in condizioni anche peggiori, ma mentre essi lo sanno e lo dicono, il presidente Trump sembra ignorare l'altra faccia della medaglia. Questo è molto pericoloso perché può portare a gravi errori e sottovalutazioni, ad esempio nel trattare con la Russia o con la Cina o nell'affrontare l'instabilità politica in Medio Oriente e in Africa.

Ciò può anche spingere qualche avversario più opportunista a prendere rischi maggiori, violando frontiere e linee di contenimento divenute all'improvviso più confuse e fragili. Questo tipo di errori, in passato, ha spesso portato alla guerra.

Le difficili alternative europee
Una seconda conseguenza riguarda gli alleati. Essi sono naturalmente obbligati a reagire, ma hanno di fronte a loro due grandi categorie di scelte: quelle incentrate sulla forza e quelle orientate al valzer.

Le prime, più lineari e sicure, richiedono il concreto e rapido rafforzamento dell'autonomia militare e diplomatica europea, non contro gli Usa, ma indipendentemente da essi. Sembra questa essere la linea verso cui si orientano Angela Merkel ed Emanuel Macron. Ma sono scelte che richiederanno un forte e continuativo impegno politico e finanziario, nonché un rafforzamento delle politiche comuni europee. Tutte cose non facilissime.

Il secondo tipo di scelte segue, invece, la linea di minore resistenza, nella direzione, ben nota alla storia italiana, di quel detto popolare secondo il quale "viva la Francia, viva la Spagna, purché si magna". Esse sacrificano l'indipendenza e l'autonomia dei nostri Paesi alla ricerca di nuovi protettori, tatticamente intercambiabili.

È una politica estremamente difficile da perseguire, molto instabile e probabilmente, alla lunga, anche rovinosa economicamente. È infine molto difficile che l'unità europea possa sopravvivere ad un simile tatticismo esasperato in cui ogni Paese sarebbe di fatto isolato. Tuttavia questo tipo di scelte potrebbero divenire una necessità ineluttabile se non si riuscisse a seguire la strada della forza.

E gli americani in tutto questo?
Se questi sono gli scenari suggeriti da questa prima uscita internazionale del presidente Trump, gli Stati Uniti, oltre ad essere più soli potrebbero anche essere meno sicuri. In un mondo con un attore europeo più forte ed autonomo la loro sicurezza non soffrirebbe minimamente, anzi potrebbe migliorare, ma la loro autorità e leadership diminuirebbero e così anche la loro capacità di modellare a proprio vantaggio le regole del mercato globale.

Nel caso invece di una grave crisi europea, l'instabilità internazionale crescerebbe, il contributo europeo alla ricchezza americana diminuirebbe, gli avversari degli Stati Uniti diverrebbero più forti.

Non sappiamo ancora se il presidente Trump vorrà (o riuscirà) a condurre al termine la sua rivoluzione isolazionista, o se cambierà idea, né quali siano le sue preferenze circa le scelte che debbono affrontare gli europei. Sappiamo solo che il gioco è cambiato e che dobbiamo prenderne atto.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI.