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domenica 18 giugno 2017

Ricerca Parametrale n. 543. Notizie del 31 maggio 2017

Trump e l'Europa, il bilancio dei Vertici Nato e G7
Newsletter n° 543 , 31 maggio  2017

Prima gli Alleati a Bruxelles, poi i Grandi a Taormina hanno potuto
 prendere le misure della nuova politica estera di Donald Trump,
 al suo debutto all'estero e in una cornice multilaterale (per cui ha
 subito mostrato insofferenza). Un presidente fuori dagli schemi 
che ha battuto cassa, sollecitando un maggiore concorso dei 
Paesi membri alle spese della Nato, senza mai far riferimento 
all'impegno americano in materia di difesa collettiva. Una grave
 omissione strategica e politica. Ma Trump si cura solo del
 contrasto al terrorismo in ottica di protezione dei cittadini 
americani e non va per il sottile nella scelta dei compagni 
di strada. Gli interessi economici e commerciali, al grido di 
battaglia "America First!", tracciano il solco, poi, con i 
partner europei. Angela Merkel lo ha intuito al termine del 
G7 siciliano: "Sono finiti i tempi in cui potevamo fare affidamento
 sugli altri". Sono gli europei a dovere prendere il loro destino fra
 le mani: fra Trump a Washington e Londra alla prese con 
la Brexit, per l'Ue si apre una straordinaria finestra d'opportunità. 
Saprà sfruttarla? 

Le analisi del presidente dello IAI Ferdinando Nelli Feroci e del 
direttore di AffarInternazionali Stefano Silvestri.

Trump e l’Europa
G7 e Nato, un drammatico ‘wake up call’
Ferdinando Nelli Feroci
30/05/2017
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Che non ci fosse una speciale sintonia tra il nuovo presidente americano e l’Europa era cosa nota. La distanza di posizioni e sensibilità era emersa con chiarezza fin dalla campagna elettorale di Trump candidato, e poi a seguito delle prime decisioni di Trump presidente.

Ruolo degli Usa nel mondo, le varie declinazioni del principio “America first”, la sfiducia nella Nato, il rapporto con la Russia, il disimpegno rispetto al ruolo delle istituzioni multilaterali, la diffidenza se non addirittura l’ostilità nei confronti dell’Unione europea, le posizioni espresse in materia di migrazioni, di commercio internazionale, di clima e energia, erano emersi fin dall’inizio come altrettanti fattori di divergenza tra il nuovo presidente Usa e gli europei.

In Europa si era poi sperato che il sistema dei “checks and balances” previsto dalla Costituzione americana, la pratica di governo, un’auspicata presa di coscienza delle complessità del quadro internazionale, e il ruolo di alcuni collaboratori più esperti di affari internazionali, avrebbero contribuito a ridimensionare un programma di governo probabilmente coerente con le aspettative degli elettori di Trump, ma francamente destabilizzante rispetto a un partenariato transatlantico che si era finora basato su valori e obiettivi condivisi.

La prima missione internazionale del nuovo presidente
Poi è arrivata la prima missione internazionale del presidente americano,per la quale vi erano grandi aspettative in Europa e nel Mondo. Così abbiamo potuto registrare che a Riad Trump ha ribaltato l’agenda del suo predecessore e ha puntato sull’obiettivo di un asse preferenziale con l’Arabia Saudita e con i Governi del mondo arabo sunnita per una grande alleanza contro il terrorismo di matrice islamica e in funzione di contenimento dell’Iran.

E abbiamo potuto constatare che a Gerusalemme Trump ha confermato il rapporto strategico con Israele; e ha manifestato solo un generico interesse per l’obiettivo della pace fra israeliani e palestinesi (ma senza assumere impegni per un coinvolgimento diretto degli Usa nel negoziato e senza menzionare la precondizione dei due Stati).

Ma è stato a Bruxelles e poi a Taormina che Trump ha lanciato il messaggio più chiaro ai suoi partner e alleati europei. Al Vertice Nato Trump ha evitato accuratamente ogni riferimento all’impegno americano in materia di difesa collettiva (il noto Articolo V del Trattato, che costituisce il fondamento e la motivazione originaria dell’Alleanza atlantica); ha ottenuto (senza troppe difficoltà, ma anche con poche implicazioni operative) un coinvolgimento della Nato nel contrasto del terrorismo; ma ha soprattutto messo in mora gli alleati europei, sollecitando assai bruscamente una loro accresciuta partecipazione alle spese dell’Alleanza e un aumento dei bilanci della difesa.

Taormina, uno dei Vertici più difficili di sempre
E poi a Taormina, in quello che è stato definito come uno dei Vertici G7 più difficili di sempre, si è potuta ancor meglio misurare la distanza che separa il presidente americano dagli europei (per una volta uniti e solidali, con l’eccezione della May in piena campagna elettorale e con una agenda politica tutta concentrata sulla Brexit).

A Taormina abbiamo non solo registrato la percepibile insofferenza di Trump per i rituali di un vertice multilaterale, e abbiamo potuto assistere alle varie scortesie istituzionali regolarmente sottolineate dalla stampa internazionale (tra cui la decisione clamorosa di evitare la consueta conferenza stampa a conclusione dei lavori del Vertice per andare a pronunciare un discorso di fronte alla truppe americane di stanza a Sigonella).

Ma soprattutto a Taormina si è avuta la netta impressione, malgrado il generoso tentativo del comunicato finale del Vertice di mascherare le differenze in un linguaggio diplomatico e apparentemente consensuale, che Trump abbia voluto cogliere l’occasione del primo incontro collegiale con i leader dell’Occidente per riaffermare le proprie posizioni di principio, contestare i meriti della concertazione e cooperazione in un quadro multilaterale e marcare le differenze,soprattutto rispetto agli europei, in particolare su gestione dei flussi migratori, commercio internazionale e contrasto del cambiamento climatico.

In sintesi a Taormina si è assistito ad un drammatico “wake up call” per gli europei, che d’ora in poi saranno consapevoli di dover affrontare senza il sostegno americano molti dossier di prioritario interesse: dalla difesa alle migrazioni, dal cambiamento climatico al commercio internazionale.

Ed è questo il senso delle dure parole, pronunciate, all’indomani di Taormina, dalla cancelliera tedesca Merkel, che per prima ha avuto il coraggio di prendere pubblicamente atto della nuova situazione (“sono finiti i tempi in cui potevamo fare affidamento sugli altri”) e ha chiamato gli europei “a prendere il loro destino nelle loro mani”, mostrando di avere colto il senso di quanto emerso al G7 e di trarne le necessarie conseguenze.

Una straordinaria finestra d’opportunità
Nell’ottica di una ripresa di iniziativa politica da parte dell’Europa e degli europei, la Merkel ci ha però anchevoluto ricordare che la Brexit prima e ora Trump possono offrirci una straordinaria finestra di opportunità per una rilancio del progetto europeo.

Sviluppi e nuovi impegni nel campo della sicurezza e di una dimensione europea di difesa, completamento della governance dell’Euro, un nuovo governo dell’economia, e politiche migratorie più efficaci e solidali, dovrebbero essere i settori su cui andare rapidamente a testare la volontà e la determinazione degli europei di “riprendere in mano il loro destino”.

E tutto questo beninteso non nella prospettiva di una contrapposizione frontale con gli Usa di Trump, di cui l’Europa comunque non potrà fare a meno. Ma in un’ottica di maggiore autonomia e di maggiore responsabilità dell’Europa e degli europei rispetto al tradizionale alleato e partner.

Certo si dovrà essere consapevoli che se non si riuscirà a procedere a 27 si dovrà essere pronti ad avviare iniziative a partecipazione variabile, sulla base del metodo delle integrazioni differenziate. E si dovrà ugualmente essere consapevoli che per procedere su questa strada la volontà politica costituirà una condizione necessaria ma non sufficiente; ma che sarà necessario anche soddisfare vari requisiti e precondizioni.

Francia e Germania sembrano pronte a raccogliere la sfida. C’è da sperare che anche l’Italia saprà fare la sua parte, non limitandosi a seguire iniziative di altri, ma partecipando da protagonista con idee e proposte. Un obiettivo che presupporrebbe peraltro un minimo di stabilità del quadro politico.

Ferdinando Nelli Feroci è presidente dello IAI.

Trump e la Nato
Usa ed Europa, la forza o il valzer
Stefano Silvestri
30/05/2017
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Il presidente Donald Trump in altri tempi sarebbe stato definito un isolazionista. Non crede nelle alleanze e negli alleati e non pensa che gli Stati Uniti debbano preoccuparsi di governare il nuovo disordine della globalizzazione, ma piuttosto che essi debbano concentrarsi sulla difesa dei loro interessi immediati, soprattutto quelli di natura economica e commerciale.

Sulla sicurezza, visioni limitate
Anche sulla sicurezza ha una visione ristretta e parziale: si tratta di difendere le frontiere, non solo dalle minacce militari, ma anche dall'immigrazione clandestina e dalla concorrenza "sleale". Inoltre è necessario eliminare chi minaccia di uccidere cittadini americani, cioè oggi in primo luogo i terroristi.

A questo scopo non è il caso di fare gli schizzinosi: chiunque possa aiutare gli americani è accettabile, quali che siano le sue caratteristiche, dai principi sauditi ai governi europei. Gli americani guarderanno solo ai risultati della lotta al terrorismo. Tutto il resto non li riguarda.

L'articolo 5 grande assente
Molto si è detto sulla scelta di Trump, nel suo intervento al Vertice atlantico di Bruxelles, di non citare l'impegno contenuto nell'articolo 5 del Trattato di Washington, per cui qualsiasi attacco militare contro un alleato è considerato un attacco contro tutti: lo invocammo una volta sola, dopo l'attacco terroristico dell'11 Settembre 2001, ma è il fondamento della Nato, l'organizzazione militare transatlantica.

L'omissione è grave, non tanto in pratica (finché ci saranno militari americani nei vari Paesi europei alleati qualsiasi attacco contro di essi coinvolgerà direttamente anche gli Usa) quanto politicamente e strategicamente. Il problema maggiore non è che il presidente Trump non voglia impegnarsi a difendere gli europei, ma che, così facendo, egli faccia pensare di non ritenere i suoi alleati importanti per la difesa e la sicurezza degli Stati Uniti. Se così fosse, le fondamenta politiche e strategiche dell'Alleanza crollerebbero. Si tratta di un gigantesco errore.

Conseguenze di un grave errore
È anche un falso. Senza gli europei, ad esempio, gli americani non potrebbero controllare le rotte dei sottomarini atomici russi né lo spazio aereo euro-atlantico. Senza gli europei la prosperità economica americana andrebbe in crisi.

Certo, senza gli americani gli europei sarebbero in condizioni anche peggiori, ma mentre essi lo sanno e lo dicono, il presidente Trump sembra ignorare l'altra faccia della medaglia. Questo è molto pericoloso perché può portare a gravi errori e sottovalutazioni, ad esempio nel trattare con la Russia o con la Cina o nell'affrontare l'instabilità politica in Medio Oriente e in Africa.

Ciò può anche spingere qualche avversario più opportunista a prendere rischi maggiori, violando frontiere e linee di contenimento divenute all'improvviso più confuse e fragili. Questo tipo di errori, in passato, ha spesso portato alla guerra.

Le difficili alternative europee
Una seconda conseguenza riguarda gli alleati. Essi sono naturalmente obbligati a reagire, ma hanno di fronte a loro due grandi categorie di scelte: quelle incentrate sulla forza e quelle orientate al valzer.

Le prime, più lineari e sicure, richiedono il concreto e rapido rafforzamento dell'autonomia militare e diplomatica europea, non contro gli Usa, ma indipendentemente da essi. Sembra questa essere la linea verso cui si orientano Angela Merkel ed Emanuel Macron. Ma sono scelte che richiederanno un forte e continuativo impegno politico e finanziario, nonché un rafforzamento delle politiche comuni europee. Tutte cose non facilissime.

Il secondo tipo di scelte segue, invece, la linea di minore resistenza, nella direzione, ben nota alla storia italiana, di quel detto popolare secondo il quale "viva la Francia, viva la Spagna, purché si magna". Esse sacrificano l'indipendenza e l'autonomia dei nostri Paesi alla ricerca di nuovi protettori, tatticamente intercambiabili.

È una politica estremamente difficile da perseguire, molto instabile e probabilmente, alla lunga, anche rovinosa economicamente. È infine molto difficile che l'unità europea possa sopravvivere ad un simile tatticismo esasperato in cui ogni Paese sarebbe di fatto isolato. Tuttavia questo tipo di scelte potrebbero divenire una necessità ineluttabile se non si riuscisse a seguire la strada della forza.

E gli americani in tutto questo?
Se questi sono gli scenari suggeriti da questa prima uscita internazionale del presidente Trump, gli Stati Uniti, oltre ad essere più soli potrebbero anche essere meno sicuri. In un mondo con un attore europeo più forte ed autonomo la loro sicurezza non soffrirebbe minimamente, anzi potrebbe migliorare, ma la loro autorità e leadership diminuirebbero e così anche la loro capacità di modellare a proprio vantaggio le regole del mercato globale.

Nel caso invece di una grave crisi europea, l'instabilità internazionale crescerebbe, il contributo europeo alla ricchezza americana diminuirebbe, gli avversari degli Stati Uniti diverrebbero più forti.

Non sappiamo ancora se il presidente Trump vorrà (o riuscirà) a condurre al termine la sua rivoluzione isolazionista, o se cambierà idea, né quali siano le sue preferenze circa le scelte che debbono affrontare gli europei. Sappiamo solo che il gioco è cambiato e che dobbiamo prenderne atto.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI.

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