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martedì 30 maggio 2017

Ricerca Parametrale n. 541. Notizie del 26 maggio 2017

Vertice Nato, Trump in Medio Oriente, Spagna, Taiwan
Newsletter n° 541 , 26 maggio  2017

Donald Trump arriva oggi al suo primo G7, nella cornice di
 Taormina - la presidenza di turno è italiana -, dopo un tour
 de force fra Medio Oriente e Europa. Il terrorismo, complice
 anche l'attentato a Manchester, l'ha fatta da padrone nelle
 varie tappe del presidente che ha ieri partecipato a Bruxelles 
al Vertice della Nato, dove l'Alleanza ha meglio definito il
 suo ruolo di fronte alla minaccia fondamentalista. Le parole
 di Trump al summit arabo-islamico-americano di Riad hanno
 però veicolato un messaggio brusco e rivelato una strategia
 debole: combattere il terrore rafforzando l'autoritarismo non
 funzionerà. In Spagna, Pedro Sánchez ha riconquistato
 la leadership del Psoe, il Partito socialista che promette
 un'opposizione senza sconti all'esecutivo di minoranza 
di Mariano Rajoy; e a Madrid torna l'incubo instabilità. 
Anche Taiwan fa i conti con scenari grigi, a un anno
 dall'inizio della presidenza anti-Pechino di Tsai Ing-wen. 


Vertice di Bruxelles
Nato tra Trump e lotta al terrorismo
Alessandro Marrone
23/05/2017
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Un’Europa colpita di nuovo dai terroristi si prepara a ricevere un presidente degli Stati Uniti che ha fatto della lotta al terrorismo l’unica idea certa della propria politica di difesa. Nonostante questa potenziale convergenza di interessi, restano però divergenze tra le posizioni di Washington e degli alleati europei alla vigilia del mini-vertice Nato di Bruxelles.

Trump e la lotta al terrorismo
Donald Trump, dalla campagna elettorale alla sua recente visita in Arabia Saudita, ha fatto della lotta al terrorismo internazionale di matrice islamica la bandiera della sua politica di sicurezza e difesa. A questo obiettivo ha sacrificato sia l’idea di promuovere la democrazia, cara al suo predecessore repubblicano George W. Bush, sia l’attenzione al tema dei diritti umani mantenuta da Barack Obama nonostante la ferrea realpolitik praticata in Medio Oriente dal presidente democratico.

Il presidente repubblicano ha affermato chiaramente che gli Stati Uniti non si impegneranno per la stabilizzazione della Libia, o di altri Stati falliti nel mondo arabo, perché la caccia ai terroristi va fatta tramite operazioni di intelligence, di forze speciali, o anche militari, ma che non richiedano l’impiego massiccio di truppe sul terreno e soprattutto evitino ambiziosi compiti di state building.

Un approccio che però in alcuni casi non funziona, tanto che i vertici militari americani hanno recentemente chiesto alla Casa Bianca di aumentare il contingente in Afghanistan di circa 3-5.000 uomini, per contrastare il rafforzamento della guerriglia talebana ed evitare così di perdere quanto faticosamente costruito in 15 anni di impegno Usa e Nato nel Paese.

Il nesso tra sicurezza interna ed esterna
Proprio la Nato è alle prese con la definizione del suo ruolo di fronte alla minaccia terroristica e in generale alle crisi e instabilità nel vicinato meridionale dell’Europa. Sul contrasto al terrorismo in senso stretto, l’Alleanza atlantica può dare un contributo minimo, perché si tratta di un’azione di prevenzione e repressione condotta principalmente dalle forze di polizia e/o di intelligence. Poiché è fondamentale la condivisione di dati a livello europeo e transatlantico, la Nato potrebbe contribuire aiutando i Paesi membri a condividere le informazioni di intelligence e fornire quelle raccolte dagli assetti dell’Alleanza.

La Nato e in generale la politica di difesa ha però un ruolo importante, complementare a quello di poliziotti e agenti segreti, se si comprende il nesso tra sicurezza interna ed esterna. La straordinaria crescita del terrorismo islamico in Europa negli ultimi quattro anni è legata alle dinamiche in Medio Oriente e Nord Africa, allo scontro tra sunniti e sciiti, alle guerre in Siria e Iraq, agli Stati falliti in Libia e Yemen. La politica di difesa, e ovviamente la politica estera, può dare un contributo a stabilizzare il vicinato dell’Europa e quindi a togliere acqua al mulino del terrorismo islamico.

Tra incomprensioni, simboli e piccoli passi
Il problema per la Nato - e non solo - è che l’Amministrazione Trump non ha finora colto il nesso tra sicurezza interna ed esterna, tra stabilizzazione del Nord Africa e Medio Oriente da un lato e contrasto al terrorismo dall’altro. L’analisi semplicistica e in parte sbagliata del presidente repubblicano, che attribuisce tutte le colpe del terrorismo islamico all’Iran, rinsaldando l’asse con l’Arabia Saudita e le monarchie sunnite del Golfo, difficilmente contribuisce a una stabilizzazione complessiva della regione. La mancanza di proposte concrete da parte americana, almeno fino alle ultime ministeriali Nato, su come articolare un contributo dell’Alleanza alla lotta terrorismo, mostra che c’è poca sostanza dietro gli slogan.

Infine, il martellamento di Trump sulla spesa del 2% del Pil nella difesa si sta rivelando diplomaticamente un boomerang, perché le opinioni pubbliche europeecosì dimenticano che l’impegno a raggiungere la soglia era stato preso da tutti gli alleati alla presenza di Obama nel Vertice della Nato di Cardiff del 2014 e associano piuttosto la richiesta a un presidente americano tutt’altro che amato in Europa, mettendola così in cattiva luce.

In questo contesto, l’Amministrazione repubblicana ha chiesto alla Nato di aderire ufficialmente alla coalizione internazionale che combatte lo Stato islamico, ed il Vertice di Bruxelles darà probabilmente via libera al riguardo. Si tratta di un gesto poco più che simbolico, perché tutti gli Stati membri già partecipano individualmente alla coalizione, ma che potrebbe avere risvolti positivi se porterà ad una maggiore condivisione e articolazione della strategia complessiva contro lo Stato Islamico.

Più nel concreto, la Nato probabilmente deciderà di aumentare il personale militare dispiegato in Iraq per addestrare le forze locali che combattono lo Stato Islamico, eun maggiore impiego degli aerei da ricognizione Awacs a sostegno della campagna area in corso in Siria contro i miliziani di Daesh.

Piccoli passi che avvengono nel campo minato dei rapporti transatlantici nell’era Trump, mentre l’inaugurazione presso il quartier generale Nato di un monumento alle vittime dell’11 settembre 2011 dovrebbe ricordare che l’Alleanza esiste per aiutare gli Stati membri ad affrontare le minacce alla sicurezza dei propri cittadini.

Alessandro Marrone, Responsabile di Ricerca Programma Sicurezza e Difesa; Twitter @Alessandro__Ma.


giovedì 25 maggio 2017

Ricerca parametrale n. 540. Notizie del 25 maggio 2917

Speciale G7 di Taormina
Newsletter n° 540 , 25 maggio 2017

I Grandi si ritrovano a Taormina, domani e sabato, 
per il G7 presieduto dall'Italia. Un Vertice ancora 
senza la Russia di Putin, convitato di pietra per la 
quarta volta consecutiva, ma con tanti debuttanti: 
Donald Trump, Emmanuel Macron, Theresa May 
e il padrone di casa Paolo Gentiloni sono al loro 
primo G7. Angela Merkel, invece, veste i panni 
della decana (mentre le legislative di settembre 
non la impensieriscono troppo): una posizione di 
vantaggio che la Germania sfrutterà al tavolo 

dell'incontro? E l'Ue, che tira un sospiro di sollievo 
dopo l'elezione di Macron in Francia, saprà mantenere
 una posizione unica per arginare Trump (che arriva 
in Sicilia al termine della sua prima missione all'estero) 
e Brexit? L'appuntamento di Taormina è stato preceduto
 e sarà seguito da riunioni tematiche ministeriali. Fra 
i dossier su cui la presidenza italiana pone l'accento
 c'è il contrasto al terrorismo, a pochi giorni
 dall'attentato che ha fatto 22 vittime e una sessantina 
di feriti a Manchester, insieme a immigrazione, stabilità 
in Medio Oriente e Nordafrica, ma anche ambiente e parità di genere.
Tutto quello che c'è da sapere alla vigilia del 
G7 negli articoli del nostro Speciale

Presidenza italiana
G7: la tappa di Lucca dei Grandi in Italia
Daniela Giordano, Francesca Voce
14/04/2017
 più piccolopiù grande
Dopo Firenze e Roma, i riflettori del mondo si sono da poco spenti su Lucca, in attesa di riaccendersi sulla nuova tappa del G7 sotto la presidenza italiana, Bari, per la Ministeriale Finanze.

L’incontro più atteso di questa carovana diplomatica e mediatica è il Vertice di Taormina che si terrà nella cittadina siciliana a fine maggio, il 26 e 27. Gli incontri annuali del Gruppo dei Sette sono da sempre fonti di riflessione, punti di partenza per nuove politiche, momenti di confronto e talora di decisione. Questo G7 cade in un momento in cui, più che altre volte, si paga il prezzo della mancanza di vero dialogo tra le maggiori potenze.

Tra la Cultura - bene - e l’Energia – male
Proprio su questo tema si è basata la prima riunione dei ministri della Cultura nell’ambito del G7, intitolata ‘La cultura come strumento di dialogo tra i popoli’, che si è conclusa con la firma della Dichiarazione di Firenze.

Azzeccata la scelta logistica e tematica di questo primo incontro, dato il ruolo preminente dell’Italia nell’ambito della tutela dei patrimoni artistici e culturali a livello internazionale. Posizione di rilievo confermata dall’appoggio dato alla cosiddetta ‘diplomazia culturale’ e, in particolare, dalla creazione dei ‘caschi blu della cultura’.

Questa iniziativa è, infatti, uno degli elementi cardini della politica estera italiana e uno dei punti saldi dell’agenda del ministro Dario Franceschini, presidente di turno dell’incontro. Oltre ai rappresentanti dei Sette Grandi, hanno preso parte ai lavori delle sessioni tecniche anche organizzazioni intergovernative e non-governative collegate al settore.

Meno positivo l’andamento della ministeriale Energia di Roma che, risentendo dei ripensamenti interni all’Amministrazione Trump, non ha prodotto un documento finale condiviso. Gli Stati Uniti, rappresentati dal segretario all’Energia Rick Perry, hanno infatti precisato che, a causa delle revisioni in corso da parte della nuova presidenza, chiariranno solo nei prossimi giorni la loro posizione ufficiale sui temi energetici, bloccando di fatto la stesura di un testo congiunto.

Si è fatta notare l’assenza della Russia, importante attore energetico internazionale, ma soprattutto fornitore chiave di Germania, Italia, Francia e Giappone, nonché pezzo fondamentale sul fronte ucraino, non solo politico, ma anche energetico - c’è unanimità fra i Sette sullo sviluppo di un piano energetico autonomo ucraino.

Alcune organizzazioni come RES4 Africa, Enel Foundation, e Africa-EU Energy Partnership (AEEP) hanno organizzato un side-event dedicato al rafforzamento energetico del Continente africano attraverso l’innovazione e soluzioni green-tech, denominato Africa 2030. Per ricordare che il surriscaldamento globale non aspetta le lente dinamiche delle convenienze politiche, Greenpeace ha donato ai rappresentanti dei Sette un enorme termometro, a memento degli accordi di Parigi sul clima rimessi in discussione dall’Amministrazione Trump.

Il tema dell’energia non s’è certamente esaurito con l’incontro di Roma: le prossime occasioni di dibattito saranno Bologna e Torino, sedi delle tre ministeriali su Ambiente, Industria e Scienza.

Gli Esteri con lo sguardo strabico tra la Siria e la Corea
Sicuramente è risultato più movimentato, per tematiche e partecipazioni, l’incontro di Lucca tra i ministri degli Esteri. La Farnesina, nel quadro del summit straordinario sulla Siria, ha coinvolto nella partecipazione ai lavori anche le delegazioni di Turchia, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Qatar. Con l’Iran, ci sono stati contatti telefonici.

I lavori sono stati preceduti da una visita a Sant’Anna di Stazzema, luogo simbolo della Seconda Guerra Mondiale, dove il segretario di Stato Usa Rex Tillerson, ha spiegato l’attacco di venerdì 7 contro il governo di Damasco come un atto punitivo nei confronti di chiunque commetta crimini contro innocenti.

La Siria è stata, come era facile prevedere, il principale focus del dibattito della ministeriale: un consenso è stato raggiunto sull’esigenza di evitare una soluzione militare, a favore di una negoziale.

Il ricordo del disastro libico, rievocato dal ministro italiano Angelino Alfano, fa apparire impraticabile la proposta del ministro franceseJean-Marc Ayrault di rovesciare il regime di Assad. Nuovamente, il dibattito è stato condizionato dall’assenza della Federazione russa, il cui peso nello scenario siriano non può certo essere ignorato.

È stata rigettata la proposta britannica, appoggiata in sede bilaterale dagli Stati Uniti, di aumentare le sanzioni contro Mosca: il ministro tedesco Sigmar Gabriel considera un importante segnale positivo il fatto che la Russia abbia chiesto un’indagine internazionale indipendente in Siria, mentre Alfano, nella prospettiva delle visite in successione al presidente Putin del presidente Mattarella e del premier Gentiloni, definisce un errore isolare il Cremlino, condividendo la posizione dell’Alto Rappresentante dell’Unione europea Federica Mogherini.

Tra gli altri temi in agenda, la Nord Corea, l’Iraq, la Libia, il Sahel, il Corno d’Africa e lo Yemen, in rilievo la situazione ucraina, rispetto alla quale i Grandi ribadiscono la condanna all’adesione della Crimea da parte di Mosca e affermano che la crisi può essere risolta soltanto per vie diplomatiche. Viene risollevata inoltre la necessità di raggiungere la pace e di porre fine al conflitto israelo-palestinese, che da troppo tempo ormai affligge il Medio Oriente.

La strada per Taormina è ormai tracciata e sembra già chiaro quali temi potranno essere riproposti in sede di Vertice, sebbene l’incontro barese sulla finanza potrebbe aggiungerne uno ulteriore: il libero mercato e la minaccia protezionista. Sempre a prescindere dalla imprevedibilità di molti degli attuali attori sulla scena mondiale.

Daniela Giordano e Francesca Voce sono due studentesse della laurea magistrale congiunta in International Security Studies presso la Scuola Superiore Sant'Anna e l'Università degli Studi di Trento.

martedì 23 maggio 2017

Ricerca Parametrale n.539. Notizie del 23 maggio 2017

Arabia Saudita, Vertice Nato, G7, Nord Corea
Newsletter n° 539 , 23 maggio 2017

Donald Trump ha iniziato la sua prima missione all'estero
 in Arabia Saudita, dove ha partecipato a un vertice senza
 precedenti tra Usa e Paesi arabi e musulmani: più di 50 i
 leader presenti a Riad; toni forti contro il terrorismo e l'Iran, 
messo all'angolo a poche ore dalla riconferma plebiscitaria
 di Hassan Rohani alla guida della teocrazia sciita. 
Il presidente americano sarà oggi in Palestina, prima 
di partire alla volta di Bruxelles (passando per Roma e 
il Vaticano). Nella capitale belga, Trump sarà impegnato 
con il primo Vertice Nato del suo mandato,
 dopo esser passato dalle accuse di obsolescenza 
dell'organizzazione alle insistenti richieste agli alleati
 di aumentare il budget per la difesa. Si raggiungerà
 il compromesso sul 2%? Il G7 di Taormina, che 
comincia venerdì, parlerà di economia, commercio, 
clima e anche di Corea del Nord e minaccia nucleare,
 nonostante la Russia, attore di peso nella regione,
 sia per la quarta volta consecutiva il convitato di
 pietra al summit dei Grandi.

Presidenza italiana
G7: l’appello di Roma, pensate alle donne
Costanza Hermanin
20/05/2017
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In vista di un G7 che vedrà una scarsissima partecipazione femminile, è partita da Roma la richiesta ai leader delle principali economie mondiali di mettere al centro della discussione di Taormina, e di quelle che seguiranno, anche la parità di genere.

Le organizzazioni promotrici dell’incontro romano di aprile - Aspen Institute, Valore D e WE-Women Empower the world, insieme alla presidenza italiana del G7 - hanno battezzato l’iniziativa “W7”. Questo acronimo potrebbe nel tempo consolidarsi per richiamare a intervalli regolari i leader alla consapevolezza che la riduzione delle disuguaglianze di genere nel mondo è uno strumento fondamentale per promuovere una crescita durevole e inclusiva.

La platea di rappresentanti istituzionali e non del W7 - presieduta da Marta Dassù, Sandra Mori ed Emma Bonino - ha discusso temi che vanno al cuore delle questioni di parità: l’empowerment economico e la chiusura del gender gap in relazione alla crescita, le ineguaglianze e il futuro della democrazia, il rapporto tra donne, salute e scienza, la violenza di genere e - tema nuovo ma oltremodo rilevante nel contesto attuale - la dimensione femminile del fenomeno migratorio.

L’obiettivo principale dell’iniziativa è richiamare l’attenzione sulla necessità di pensare alle politiche per il futuro “starting from girls”, ossia lavorando specialmente per l’inclusione, la promozione e il coinvolgimento nel mondo del lavoro e nel dibattito democratico delle 600 milioni di ragazze che vivono nel sud del mondo.

Lavorare di più ma guadagnare di meno
Secondo UN Women, ad oggi tre quarti degli uomini ultra-quindicenni sono attivi nel mondo del lavoro rispetto a una percentuale del 50% di donne della stessa fascia d’età. Tra coloro che sono impiegati, le donne rappresentano due terzi di quanti contribuiscono a imprese familiari senza essere retribuite. Di conseguenza, queste donne non hanno accesso alle pensioni di anzianità nella stessa misura degli uomini.

E le differenze si notano anche nel reddito. Globalmente, quello femminile è inferiore del 26% rispetto a quello maschile. Eppure le donne, sommando attività dentro e fuori causa, lavorano in media più degli uomini nell’arco della propria vita.

Molto rimane ancora da fare per centrare gli obiettivi della Piattaforma d’azione associata alla Beijing Declaration, scaturita dalla storica conferenza sulle donne promossa nel 1995 dalle Nazioni Unite, nonché ai vari obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dell’Onu che riguardano la parità e l’inclusione delle donne.

Le proposte del W7
Partendo dal presupposto che l’uguaglianza di genere non è una questione femminile ma un interesse globale, il W7 mira a coinvolgere donne e uomini del settore pubblico e privato. Ciascuno deve lavorare nei propri ambiti di competenza, ma farlo in rete, insomma prendendo più sul serio la teoria del gender mainstreaming che andava tanto di moda fino a qualche tempo fa, ma cui pochi hanno mai dato un’attuazione concreta - tanto da preferire di non dedicargli più alcun riferimento.

Innovativa la formulazione delle proposte fatte dal W7: in materia di gender pay gap, per esempio, si è rivolto sia ai governi per l’adozione di misure legislative adeguate nonché di role models femminili per l’insegnamento scientifico nei curricula scolastici, sia al settore privato, chiedendo l’impegno dei datori a superare la forchetta della disuguaglianza nel corso della prossima generazione.

Per quanto riguarda le politiche sociali, accanto all’introduzione - cruciale - dei congedi di paternità (possibilmente retribuiti e obbligatori, ndr) si è anche parlato di misurare il contributo economico del lavoro di cura in termini di Pil per rielaborare in chiave gender-sensitive i sistemi di sicurezza sociale. Una proposta provocatoria, ma non inverosimile, dato che il metodo di calcolo del Pil è già in corso di revisione per includere anche i dati delle economie sommerse.

Infine le migrazioni, dove il ruolo delle donne è spesso negletto, in quanto si pensa che il migrante per antonomasia sia il giovane uomo alla ricerca di fortuna. La crisi siriana, con le immagini delle famiglie che attraversavano l’Europa, o i parti in alto mare, di cui spesso si sente parlare in Italia, testimoniano invece una storia diversa.

E se nelle migrazioni forzate, piuttosto che in quelle economiche, la presenza maschile è sempre predominante, il dato ci deve far riflettere sulla minore possibilità delle donne di scappare dal pericolo migrando, dunque sulla loro maggiore vulnerabilità ai conflitti.

La raccomandazione del W7 connette la necessità di avere dati migliori sul profilo femminile dei flussi migratori con l’agenda Women Peace and Security delle Nazioni Unite, su cui si concentra il ramo italiano di Women in International Security Italia (WIIS, organizzazione partner del W7). Importante, dunque, che la dimensione migratoria trovi un suo spazio nei piani nazionali di attuazione della Risoluzione 1325/2000 su “Donne, pace e sicurezza” del Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Buoni propositi e dura realtà
Tutti questi temi saranno al centro della riunione ministeriale che concluderà, il 25 novembre, la presidenza italiana del G7, e che avrà al centro proprio la questione della parità di genere. In aggiunta, il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha dato il suo sostegno alla proposta di presentare a Taormina l’istituzione di un gruppo di monitoraggio delle azioni del G7 sulle questioni di genere.

Tra il dire e il fare c’è però di mezzo Donald Trump, che già sul fronte migrazioni, su cui Roma aveva disposto un fine lavoro di tessitura internazionale, sta rendendo difficile la vita dei negoziatori italiani. È verosimile che un impegno concreto sulla parità rientri in una dichiarazione firmata anche dagli Stati Uniti? Più probabile che ciò avvenga a livello di ministeriale, se almeno lì ci si potrà arrivare, piuttosto che al summit di Taormina.

Costanza Hermanin è Special adviser del sottosegretario italiano alla Giustizia e insegna a Sciences Po e al Collegio d’Europa. È tra le fondatrici di Women in International Security Italia (WIIS) Italia. (Twitter: @CostHermanin).


Ricerca Parametrale n.538. Notizie del 19 maggio 2017

Presidenziali Iran, G7, nuova Via della Seta, Difesa Ue
Newsletter n° 538 , 19 maggio 2017

L'Iran va oggi alle urne per scegliere il nuovo presidente. 
Conservatori uniti dietro Ebrahim Raisi, ma il presidente 
uscente Hassan Rohani corre da favorito, con dalla sua 
un'economia in crescita e un'inflazione in picchiata. 
Sempre oggi, Donald Trump comincia la sua prima 
missione all'estero in Arabia Saudita, lo storico rivale 
di Teheran nella regione: il tour continuerà fra Medio 
Oriente ed Europa e si concluderà a Taormina, dove
 il presidente americano parteciperà al G7. Dopo 
l'incontro fra il neopresidente francese Emmanuel 
Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel, 
il Vertice siciliano offrirà a Parigi e Berlino una
 prima occasione per coordinare le loro posizioni: 
che ruolo avrà l'Italia in questa rinnovata sintonia? 
Fra le strategie per il rilancio dell'Ue, anche
 l'accelerazione verso una difesa comune (di cui si parlerà
 oggi a Torino a un evento IAI con il ministro Roberta 
Pinotti). A Pechino intanto, si è svolto il Forum della 
Belt and Road Initiative, dove capi di Stato e di governo e
 leader di organizzazioni internazionali hanno preso parte a
 quello che è stato definito il lancio del Piano Marshall 
cinese: la costruzione di una nuova Via della Seta in cui
 l'Italia spera di essere protagonista.



Ue in marcia. E l’Italia?
Difesa europea: verso un sistema-Paese
Alessandro Ungaro
18/05/2017
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Quante volte si è parlato in Italia della necessità di “fare sistema”? Tante, forse troppe, spesso in maniera disarticolata e astratta. E cosa vuol dire “fare sistema” in un mercato internazionale della difesa sempre più competitivo, complesso e in continuo mutamento sul fronte politico e dell’evoluzione tecnologica?

Una pratica sempre più diffusa è quella degli accordi governo-governo (G2G), i quali rappresentano uno strumento strategico di politica internazionale, consentendo anche di sostenere la propria industria nazionale della difesa. Crescente è inoltre il numero dei Paesi terzi che prediligono un approccio G2G alla fornitura di equipaggiamenti militari, sia come strumento di garanzia al momento della stipula dei contratti sia come tramite per stringere nuove collaborazioni militari e industriali.

L’esempio britannico e francese
Londra e Parigi praticano già da tempo un supporto all’export di equipaggiamenti militari particolarmente efficace e strutturato. La politica britannica, per esempio, viene definita e realizzata in modo sistemico attraverso l’azione della Defence Growth Partnership (Dgp) e della Defence and Security Organization (Dso). Il ruolo e la rilevanza del lavoro congiunto tra Dgp e Dso sono destinati a crescere nei prossimi anni per rafforzare la posizione internazionale del Regno Unito alla luce dei possibili impatti economici e politici della Brexit.

In modo analogo, la politica francese si caratterizza da sempre per un forte sostegno governativo all’esportazione di prodotti militari, facendo leva su un’organizzazione articolata sia a livello politico-strategico sia a livello “periferico”.

L’ambiguità italiana…
L’Italia, come accade troppo spesso, vive una situazione di mezzo, per certi versi ambigua. La normativa del 2015 - con la quale si introduce l’attività G2G - è certamente di un’assoluta novità ma ha delle debolezze intrinseche: esclude, infatti, espressamente ogni coinvolgimento dello Stato italiano, e in particolare della Difesa, nelle trattative commerciali, limitando la sua attività a quella di supporto tecnico-amministrativo.

Sempre più spesso però viene chiesto alla Difesa di ricoprire il ruolo di rappresentante del Paese e di garante dell’accordo, per assicurare la corretta attuazione dei contratti. C’è innanzitutto di un problema di immagine e credibilità dell’Italia come sistema-paese perché l’impostazione corrente espone lo Stato sul piano dell’immagine giuridica-legale senza tuttavia fornire la capacità, gli strumenti e la responsabilità di controllare il buon esito del contratto.

Non a caso, la Commissione Difesa del Senato sta discutendo sull’eventualità di rivedere la normativa G2G per renderla più simile a quelli che altri paesi concorrenti. Ciò avrebbe ricadute non solo per la politica di sicurezza e difesa dell’Italia ma altresì sul rafforzamento competitivo del comparto tecnologico-industriale.

…e come superarla 
A questo proposito, un recente studio IAI per il Parlamento cerca di fornire alcune proposte concrete per superare l’attuale ambiguità e conferire così maggiori competenze e responsabilità alla Difesa nell’ambito degli accordi G2G. Innanzitutto, la decisione circa l’esportazione di un determinato prodotto nell’ambito di un accordo governo-governo dovrebbe essere presa a livello politico, attraverso un organismo di natura sistemica, una sorta di Consiglio dei ministri ristretto che includa i dicasteri interessati.

Il lavoro tecnico potrebbe essere svolto da un tavolo tecnico interministeriale, sulla falsariga della cabina di regia per l’aerospazio o di quello per il coordinamento delle attività in ambito Edap (European Defence Action Plan). In quest’ottica si potrebbe anche affrontare in termini più generali la politica del supporto all’esportazione di equipaggiamenti militari italiani nel caso si identifichi uno specifico interesse nazionale.

Si potrebbe, quindi, riattivare e aggiornare l’iniziativa Gliced, il gruppo di lavoro interministeriale per il coordinamento delle esportazioni di materiali per la difesa istituito all’inizio dello scorso decennio presso la Presidenza del Consiglio e mai decollato.

Cambio di passo tra Difesa e industria
A livello più operativo, si potrebbe pensare di rivedere la funzione e il ruolo della società Difesa Servizi. Quest’ultima, a fronte di un cambiamento della sua legge istitutiva, potrebbe rispondere in maniera adeguata alle caratteristiche intrinseche degli accordi governo-governo. Si tratta, peraltro, di una società per azioni di cui il Ministero della Difesa è socio unico: esegue già attività di vendita di beni e servizi civili e potrebbe acquisire i necessari profili professionali su base temporanea senza appesantire la sua struttura.

Al centro di un’eventuale nuova impostazione della politica italiana in materia rimane però un punto fondamentale, ovvero un cambio di passo nelle relazioni tra Difesa e industria. Già il Libro bianco del 2015 definisce tale direzione, sottolineando come le esportazioni rappresentino “importanti risorse spendibili nei rapporti intergovernativi tesi alla cooperazione militare.

Su di esse, si possono sviluppare politiche di partenariato e di trasferimento di tecnologie, privilegiando gli accordi «Governo a Governo»”. Un potenziale coinvolgimento dello Stato deve quindi necessariamente essere gestito attraverso uno stretto rapporto con la controparte industriale interessata all’accordo affinché sia in grado di monitorare l’intera attività del programma e possa tempestivamente intervenire nel caso si presentino criticità.

Alessandro R. Ungaro è ricercatore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI, twitter @AleRUnga.



venerdì 19 maggio 2017

Ricerca Parametrale n. 537 Notizie del 16 maggio 2017

Corea nucleare, Trump in viaggio, Libia, Austria
Newsletter n° 537 , 16 maggio 2017

La Corea del Nord conferma il lancio con successo di un missile balistico
 di medio raggio, che non distende certo gli animi nella
 penisola asiatica, nonostante la dichiarata volontà
 da parte del nuovo presidente di Seul di riavviare il
 dialogo e la cooperazione economica con Pyongyang.
 lI Consiglio di sicurezza dell'Onu condanna all'unanimità 
il nuovo lancio e minaccia nuove sanzioni, mentre il premier
 italiano Gentiloni, presidente di turno del G7 che si
 svolgerà il 26 e 27 maggio prossimi a Taormina,
 assicura che del dossier si occuperà anche il 
Vertice dei Grandi. Tanti i debuttanti in Sicilia, fra
 cui anche Donald Trump, che concluderà con il 
G7 la sua prima serie di missioni all'estero, che
 prenderà il via in Arabia Saudita. Poi, Ue, Nato e 
G7: quante sorprese riserverà un presidente imprevedibile 
fin dall'agenda di viaggio? Al Vertice dei Grandi si parlerà 
anche di stabilità nel Mediterraneo, mentre la Libia tenta
 un'intesa - l'ennesima -, stavolta sponsorizzata dagli alleati 
di Tobruk: troppo sbilanciata su Haftar perché Serraj possa 

cedere? L'Ue non fa intanto in tempo a esultare per il successo
 di Macron in Francia che un nuovo appuntamento elettorale
 minaccia di farla stare di nuovo col fiato sospeso: in Austria, 
infatti, un cedimento della grande coalizione rischia di portare 
alle urne anticipate, in mesi già ricchi di appuntamenti elettorali 
combattuti fra nazionalisti ed europeisti (i quali ultimi a Vienna 
l'hanno spuntata di recente per un pelo).


1994/2017
Corea: un ritorno alla ‘Sunshine Policy’
Carlo Trezza
14/05/2017
 più piccolopiù grande
Si è registrato nelle ultime settimane un ulteriore inasprimento della crisi nucleare coreana. All'ennesima imponente parata nella quale hanno sfilato a Pyongyang uomini e mezzi di un Paese armato fino ai denti, è seguito un provocatorio bombardamento dimostrativo da parte delle artiglierie nordcoreane schierate lungo la zona smilitarizzata.

È stato poi il turno dell'America a mostrare i muscoli con l'invio di "un'armada molto potente", guidata dalla portaerei Carl Vinson, ma soprattutto con l'accelerazione dello schieramento nella Corea del Sud del sistema di difesa antimissiltica Thaad (Terminal High Altitudine Area Defense). Il presidente Trump ha anche evocato la prospettiva di un "major, major conflict".

Il livello della conflittualità raggiunto non si discosta da quello che, nel 1994, condusse la Penisola sull'orlo del baratro allorché si scoprì che il Nord stava per acquisire una capacità di produrre il plutonio. Il presidente Clinton inviò allora l'ex presidente Carter a trattare direttamente con il leader Kim Il-sung e la crisi fu disinnescata.

Leader che si mettono nell’angolo
Purtroppo gli attuali dirigenti delle due parti non hanno un'analoga statura ed esperienza. Il giovane Kim Jong-un è al potere solo per meriti dinastici ed assomiglia solo fisicamente al carismatico nonno che, scomparso più di venti anni fa, ricopre tuttora la carica virtuale di capo dello Stato.

Per parte sua, il presidente Trump non sembra avere trovato una linea di equilibrio tra l'intransigenza militare e diplomatica da un lato e la ricerca del dialogo dall'altra ("sarei onorato di incontrare Kim qualora ve ne fossero le condizioni"). Washington conta ora molto sui buoni uffici di Pechino, ma non si tratta di un'operazione a costo zero.

A parte le declamazioni, non sono emersi sinora, né da una parte né dall'altra, nuovi concreti spunti diplomatici che possano condurre a una soluzione della crisi. Il regime di Pyongyang rimane trincerato nella ricerca della propria sopravvivenza, che esso fonda sempre più sul proprio status nucleare considerato irrinunciabile. Gli Stati Uniti mirano al contrario allo smantellamento del nascente arsenale del Nord quale precondizione per rilanciare il negoziato. Ambedue le posizioni sono poco credibili come punti di partenza.

La novità da Seul è un ritorno al passato
In questo quadro di stasi negoziale e di escalation militare si inserisce ora il "novum", nella Corea del Sud, della recente vittoria alle presidenziali del leader del Partito democratico progressista Moon Jae-in. Il suo successo segna il ritorno al potere dello schieramento moderato che si ispira alla ‘Sunshine Policy’ il cui fondatore fu, venti anni orsono, il presidente Kim Dae-jung.

Il nuovo leader è uomo di vasta esperienza politica, con un passato di attivo sostenitore dei diritti umani ed è erede della linea di riavvicinamento con il Nord nella prospettiva di una riunificazione quale perseguita appunto dalla ‘Sunshine Policy’.

Nel presente stato di alta tensione il suo margine di manovra è molto ristretto. Moon deve infatti conciliare l'esigenza di conservare il sostegno del deterrente americano senza confrontarsi con i vicini del Nord e soprattutto senza urtare la Cina, divenuta oggi principale partner economico e crescente potenza egemonica nella regione.

La lezione degli ‘euromissili’
Al centro del contendere si trova attualmente la questione dello schieramento dei sistemi Thaad che gli Stati Uniti si sono affrettati ad installare nel Sud. Lo hanno fatto prima che al potere arrivasse Moon, pur sapendo che il partito di quest'ultimo è stato storicamente molto tiepido verso tale schieramento.

L'imbarazzo di Seul è aumentato con la maldestra contestuale richiesta americana di essere rimborsati per uno schieramento divenuto ora controverso. Sono fortemente contrari al Thaad non solo i nordcoreani, ma anche i cinesi e i russi, che lo considerano un fattore dirompente per l'attuale status quo strategico nella regione.

Lo schieramento Thaad potrebbe, però, paradossalmente, facilitare una nuova opzione negoziale qualora ci si ispirasse a una precedente esperienza europea. Tra gli anni 70 e 80, si pose nel Vecchio Continente una situazione simile con il problema degli ‘euromissili’. Per indurre l'Unione Sovietica a smantellare i nuovi missili nucleari SS20, la Nato rispose installando a sua volta in Europa (Italia compresa) i missili Cruise e Pershing.

Gli atlantici tuttavia accompagnarono tale misura militare con un'opzione negoziale che mirava all'eliminazione, da parte di ambedue gli schieramenti, dei missili installati. Il trattato INF (Intermediate- range Nuclear Forces) fu un successo diplomatico senza precedenti e uno dei fattori che condusse al superamento della guerra fredda.

Il Thaad potenziale ‘merce di scambio’
Un simile scenario potrebbe, "mutatis mutandis", adattarsi al caso coreano. La prospettiva di un ritiro dello schieramento Thaad potrebbe in effetti divenire "merce di scambio" a cui legare la prospettiva d’un effettivo disarmo nucleare nella penisola coreana e quella di un finale accordo di pace.

Russi e cinesi, come anche la nuova amministrazione di Seul dovrebbero esservi in principio favorevoli. Nella misura in cui tale formula conducesse alla soluzione del problema nucleare coreano, anche gli Stati Uniti (che sostengono che lo schieramento Thaad non è rivolto contro Russia e Cina), non dovrebbero esservi contrari. La Corea del Nord, sicuramente conscia del fatto che sarebbe il suo regime a pagare il prezzo più alto nel caso di un confronto militare, dovrebbe anch'essa valutare con attenzione questa opzione.

L'insieme della tematica coreana è stato dibattuto nel corso di un convegno tenutosi l’11 maggio presso l'Università di Bari sotto gli auspici dell'Unione degli Scienziati italiani per il Disarmo (Uspid). Si è dibattuto in particolare del ruolo possibile dell'Unione europea, che pur non essendo un protagonista su questo scacchiere, mantiene con tutte le parti un rapporto costruttivo.

Nel 2000 l' Italia fu il primo Paese membro dell'Unione europea a stabilire, d'intesa con americani e sudcoreani, rapporti diplomatici con la DPRK. Il suo esempio fu seguito dalla grande maggioranza dei partner europei. Le due parti coreane non dimenticano che l’Ue fu allora tra i maggiori sostenitori di un disgelo ricercato da ambedue le parti. Essa dispone dunque di un capitale di credibilità e di esperienza, corroborate dal successo del negoziato sul nucleare iraniano, per dare un suo apporto a una pacificazione definitiva di questa martoriata penisola.

Carlo Trezza, già ambasciatore presso la Repubblica di Corea, è senior adviser dello IAI per il Disarmo e la Non Proliferazione.

sabato 13 maggio 2017

Ricerca Parametrale n. 536. Notizie del 12 maggio 2017

 G7, Macron presidente, Corea del Sud
Newsletter n° 536 , 12 maggio  2017

Emmanuel Macron si insedierà domenica all'Eliseo ma ha già pronto il primo 
viaggio all'estero: sarà nella Germania di Angela Merkel,
 dove il neopresidente punterà al rilancio non solo delle
 relazioni franco-tedesche, ma anche del progetto europeo.
 Che ruolo avrà l'Italia in questo disegno? Nuovo presidente 
e agenda ambiziosa anche in Estremo Oriente: dopo dieci
 anni all'opposizione, i liberaldemocratici tornano al 
governo della Corea del Sud con Moon Jae-in, che 
propone una politica di distensione verso Pyongyang. 
Ma sulla mano tesa a Kim pesa l'incognita Donald 
Trump, che intanto ha incontrato il ministro degli Esteri
 russo Serghej Lavrov, mentre negli Stati Uniti infuria 
il Russia-gate nelle ore successive al licenziamento
 del direttore dell'Fbi James Comey, che sul dossier 
indagava. Che futuro per le relazioni fra Mosca e 
Washington, a pochi giorni da un G7, quello di 
Taormina, che vede ancora una volta in Putin il
 grande assente?



La riforma di Europol
Terrorismo: l’arma dello scambio dei dati
Cristian Barbieri
11/05/2017
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Il dibattito sulla lotta al terrorismo internazionale è purtroppo sempre all’ordine del giorno, sulle agende dei governi nazionali e sui tavoli di lavoro a Bruxelles. I nefasti eventi di Parigi, Nizza, Bruxelles, Berlino e altrove hanno messo in evidenza che le maglie delle polizie nazionali non sono impenetrabili e che una cooperazione rafforzata in materia di sicurezza europea passa anche da uno scambio di informazioni e dati più sistematizzato.

Le reti terroristiche hanno cellule operanti in diversi Stati membri dell’Unione e si avvalgono di punti di contatto poliedrici, che richiedono un’azione più sistematica da parte delle polizie europee. Nell’Unione europea, tra i numerosi mezzi impiegati nella lotta al terrorismo, senza dubbio assurge a un ruolo di primo piano l’agenzia per la cooperazione di polizia europea, Europol.

Un passo importante
Dopo tre anni di negoziati, l’11 maggio dello scorso anno, esattamente un anno fa, il Parlamento europeo ha finalmente raggiunto un accordo per il nuovo regolamento europeo 2016/794 che sostituisce e abroga la decisione 2009/371/GAI del Consiglio dell’Ue che istituiva Europol come entità dell’Unione nel 2009.

Il nuovo regolamento ha dovuto attendere quasi un anno prima di entrare in vigore: solo dallo scorso Primo Maggio, infatti, sono divenute applicabili le nuove disposizioni. Una piccola rivoluzione nella gestione della sicurezza in Europa, passata abbastanza in sordina, soppiantata dalle presidenziali francesi e dagli attriti in Corea del Nord, che vedrà i suoi auspicabili positivi effetti dispiegarsi nel corso dei prossimi mesi.

Già sin dalla natura giuridica dell’atto si possono scorgere i primi fondamentali cambiamenti: non più una decisione del Consiglio, ma un passaggio attraverso il Parlamento europeo che rende la decisione più democratica e soprattutto concordata non solo in maniera intergovernativa ma anche tra le forze politiche dei vari Paesi membri dell’Unione.

I cambiamenti di maggiore impatto
Europol è stata spesso criticata in passato per la mancanza di autonomia dai propri Stati membri e per un ruolo quasi mai di primo piano nel confronto alla criminalità organizzata e al terrorismo, ma piuttosto di secondo piano in supporto alle polizie nazionali. Il nuovo regolamento porta in dote invece quattro importanti cambiamenti, che potrebbero ridimensionare in positivo l’azione e l’efficacia dell’agenzia di cooperazione di polizia europea.

In primis, l’articolo sei del nuovo regolamento prevede la possibilità per Europol di avviare un’indagine motu proprio, proponendo a due o più Stati membri la formazione sotto la propria egida e il proprio coordinamento di task force regionali per determinate materie o settori di indagine. Uno dei maggiori limiti di Europol in passato stava proprio nella mancanza di un’autonomia di azione. Ci voleva la richiesta di supporto da parte di polizie degli Stati membri per l’avvio di indagini congiunte con forze di polizia di due o più Stati.

La seconda novità rilevante per il rafforzamento del ruolo di Europol è la previsione di unità nazionali di contatto di Europol. Tale articolo era già presente nel precedente testo istitutivo di Europol, e alcune unità nazionali erano già costituite in seno alle polizie nazionali, tra cui l’unità nazionale italiana con sede a Roma. La novità presente in questo caso è da ricercare nell’obbligatorietà della formazione di tali unità che godranno anche di un controllo tramite relazioni annuali da parte dello stessa agenzia Europol.

Tale relazione sarà in seguito trasmessa ai Parlamenti nazionali, al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Commissione. Gli Stati membri passano quindi in questo caso specifico da una cooperazione piuttosto volontaria ad una più vincolante, con l’Ue che mostra agli stessi stati membri una chiara volontà di rafforzare la più importante agenzia in materia di sicurezza.

Privacy e sicurezza 
Altra critica soventemente mossa contro l’agenzia europea, spesso dagli stessi operatori di polizia, riguarda la difficoltà di trasmissione di dati sensibili su individui sospetti. La decisione del Consiglio prevedeva infatti un robusto sistema di protezione dei dati personali per tutelare la privacy dei cittadini europei con forti garanzie per il privato cittadino ma evidenti limitazioni nelle operazioni di indagine.

Solo per citare un esempio, il periodo di conservazione dei dati personali all’interno dei database Europol non poteva superare i tre anni, se non rinnovato attraverso una problematica procedura, inficiando quindi notevolmente i dati a disposizione e conseguentemente lo svolgimento di operazioni di lungo periodo.

Il nuovo regolamento facilità lo scambio di informazioni, senza ledere i diritti di privacy, prevedendo un forte controllo da parte di designati ufficiali di protezione dei dati nazionali, in supporto al lavoro del responsabile della protezione dei dati Europol e del Garante europeo della protezione di dati. Il bilanciamento tra sicurezza e privacy si prevede quindi risolvibile attraverso un controllo bidirezionale verso gli indiziati ma anche verso gli stessi controllori.

Infine, quarto e ultimo punto di rilevante cambiamento, sarà la possibilità per gli ufficiali di Europol di ricevere dati da fonti private; una maggiore collaborazione con grandi aziende, come Microsoft, Apple o Facebook , sarà di certo aiuto per lo svolgimento di indagini in ambito cibernetico e nella lotta al terrorismo, anche attraverso operazioni che partiranno da investigazioni via web. Un solido regolamento per un’agenzia che finora ha espresso solo in parte le sue enormi potenzialità in essere.

Cristian Barbieri è Assistente alla Ricerca del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter @Barbiericr).
 



giovedì 11 maggio 2017

Ricerca Parametrale n. 535 Notizie del 9 maggio 2017

Macron presidente, Migranti, Alitalia
Newsletter n° 535 , 9 maggio 2017

Entra al Carrousel du Louvre sulle note dell'Inno alla Gioia: 
riconferma dell'europeismo che ha contraddistinto la 
sua campagna elettorale, ma anche richiamo, secondo
 molti, all'insediamento di Mitterrand nel 1981. Con il
 66,1% dei voti Emmanuel Macron è il nuovo presidente
 francese, l'ottavo - e il più giovane - della Francia
 repubblicana: nella corsa all'Eliseo ha battuto la
 nazionalista Marine Le Pen (ferma al 33,9%), diventando
 l'argine non solo simbolico della resistenza ai populismi 
che pochi mesi fa hanno innescato i fenomeni Brexit e Trump. 
Per il neopresidente comincia adesso la parte più difficile, 
alla ricerca di una maggioranza di governo coerente alle
 legislative di giugno. Il futuro dell'Ue esce rafforzato dal 
voto d'Oltralpe, mentre il presidente della Commissione 
Juncker loda l'Italia ("Sui migranti ha salvato l'onore dell'Europa"). 
Un'Italia che tuttavia non se la passa bene sul fronte 
industriale: per la compagnia di bandiera si prospetta 
una soluzione Swissair? Tempo di elezioni anche a 
sud, nell'Algeria che conferma al potere il partito di 
Bouteflika nonostante l'affluenza a picco, e a
 Oriente, nella Corea del Sud che va oggi al voto anticipato

 dopo l'impeachment della presidente Park, fra i venti di guerra
 provenienti da Pyongyang e l'economia che arranca.



Situazione e prospettive
Alitalia: la ricetta, e il precedente, Swissair
Alfredo Roma
05/05/2017
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In base alla legge Marzano del 2004, il CdA di Alitalia ha avviato la procedura per l’amministrazione straordinaria della compagnia. Il Governo ha nominato tre commissari di alto spessore professionale. Uno di questi, Stefano Paleari docente universitario, conosce il trasporto aereo.

Inoltre, il Governo ha concesso un prestito ponte di 600 milioni di euro (il doppio della cifra inizialmente prevista) autorizzato dalla Commissione europea. Questa mossa conferma che il Governo si è reso conto che non può abbandonare Alitalia perché svolge un servizio pubblico che assicura una parte della continuità territoriale, come previsto dall’articolo 16 della Costituzione.

I commissari si trovano a dover amministrare un’azienda che perde circa due milioni di euro al giorno. Se nulla viene fatto sul piano operativo e strategico, tra 300 giorni il prestito sarà andato in fumo e si dovrà dichiarare il fallimento di Alitalia. Infatti, il problema di Alitalia non è finanziario, ma economico. Si può fare un aumento di capitale di un miliardo, ma se non si opera sulla strategia e sul posizionamento nel mercato le perdite supereranno il miliardo.

Le ragioni del dissesto
È importante conoscere le ragioni per le quali Alitalia si trova in questa situazione. Essenzialmente quattro i motivi:

1. Nel 1992 l’Unione europea ha completamente liberalizzato il trasporto aereo: da allora qualsiasi vettore comunitario può operare una qualsiasi rotta all’interno dell’Ue o all’interno dei suoi Paesi membri (cabotaggio). In seguito alla liberalizzazione, si sono sviluppate le compagnie lowcost: aerei nuovi, tutti uguali per ridurre i costi di manutenzione, i fermi macchina e il magazzino ricambi; nuovi contratti di lavoro per il personale navigante; e servizi di bordo a pagamento.
Già dai primi Anni Novanta si doveva capire che il futuro del corto/medio raggio sarebbe stato delle compagnie lowcost e che, quindi, si doveva sviluppare il lungo raggio, regolato da accordi bilaterali di traffico (Air Service Agreements) di cui per l’Italia era titolare Alitalia, voli per i quali si potevano mantenere tariffe remunerative grazie alla limitata concorrenza. Questo non avvenne, anche perché la nostra compagnia di bandiera non ha mai avuto più di 25 aerei di lungo raggio, quando il gruppo Air France-Klm ne ha 158, British Airways137 e Lufthansa 89.

2. In seguito, a questo errore di strategia si sono aggiunti gli accordi con Air France-KLM e Delta che hanno relegato Alitalia ad alimentare gli hub di Parigi e Amsterdam da dove partivano i voli di lungo raggio operati da quelle compagnie.

3. Nel 2008, con Alitalia in crisi, Banca Intesa si è inventata il progetto Fenice: Alitalia ha comprato Airone e il prezzo è stato pagato a Banca Intesa che è rientrata dalle sue esposizioni verso Carlo Toto proprietario di Airone. Poi, per puri scopi elettorali, si è difesa l’italianità di Alitalia affidandola al gruppo dei cosiddetti ‘patrioti’. Alitalia fu costretta a mettere in cassa integrazione speciale circa 6000 dipendenti e ad assumere il personale di Airone. Quattro miliardi di euro è stato il costo di questa operazione per il contribuente italiano. I manager (nessuno del settore) posti dai ‘patrioti’ a guidare Alitalia hanno continuato a redigere inutili e vaghi piani strategici come l’ultimo presentato due settimane fa.

4. Neppure l’entrata di Etihad è servita a invertire la rotta. Ci si aspettava, infatti, che Etihad mettesse a disposizione di Alitalia molti aerei di lungo raggio per operare su quelle rotte dove ancora non c’è la concorrenza delle lowcost. Ma questo non è avvenuto.

Il no dei dipendenti comprensibile
È dunque comprensibile che l’esito di un referendum tra i dipendenti non potesse che avere una risposta negativa. Si erano visti troppi piani senza esito positivo. Da questa breve storia appare chiaro che il problema di Alitalia non è il personale che, al contrario, rappresenta il maggior asset della compagnia comprendendo un personale navigante altamente qualificato che viene da anni di formazione. Tra l’altro l’incidenza del costo del personale sul fatturato è inferiore a quella delle altre principali compagnie europee.

Il problema è da sempre imputabile a un management che non conosceva e non capiva il trasporto aereo e di una certa interferenza politica nelle assunzioni o nelle rotte.

Le azioni da intraprendere
Vediamo, dunque, quali azioni possono intraprendere i commissari, premettendo che la nazionalizzazione non è comunque possibile per ragioni tecniche.

1. Rivedere i costosi contratti di leasing e rinegoziarli o annullarli.

2. Chiudere i contratti con KLM-Air France e Delta che ancora esistono.

3. Rivedere la flotta di Alitalia redigendo un piano di ristrutturazione che ne riduca i modelli e i costi relativi. Questo piano deve prevedere un progressivo incremento del lungo raggio e il mantenimento del breve e corto più profittevole.

4. È inutile cercare un accordo per far entrare Lufthansa o altra compagnia simile nel capitale Alitalia. Lufthansa finirebbe per utilizzare Alitalia per alimentare i suoi voli di lungo raggio da Francoforte. Senza considerare le elevate penali per uscire da Skyteam ed entrare in Star Alliance.

5. Fare la stessa operazione che fu fatta per Swissair: Alitalia viene liquidata. Alitalia-Cityliner (che tra l’altro ha contratti di lavoro molto meno costosi di Alitalia), controllata da Alitalia, ne rileva tutte le attività aeree. Il resto sarà sottoposto a procedura di fallimento. Banca Intesa e Unicredit rilevano le azioni (100%?) che Alitalia detiene in Alitalia-Cityliner. Alitalia-Cityliner estende le sue attività aeree arrivando a comprendere gran parte di quelle attualmente gestite da Alitalia. Per farlo riceve dalle banche una linea di credito mentre si trovano soci privati che entrano nel capitale di Alitalia-Cityliner con capitale fresco e sufficiente a garantire l’operatività della società, magari anche acquistando le azioni detenute da Banca Intesa e Unicredit. Tra i nuovi soci ci può essere anche una compagnia aerea che possa però sviluppare sinergie di mercato con Alitalia sul lungo raggio. Con questa operazione escono definitivamente i ‘patrioti’ del 2008.

6. Alitalia-Cityliner toglie il nome Cityliner dalla sua ragione sociale e resta solo Alitalia.

Questa sembra essere la sola soluzione possibile per salvare Alitalia. Se questo Paese ha una politica industriale non può permettersi di perdere la compagnia che porta nella sua livrea la bandiera italiana che viaggia in tutto il mondo. Non per niente il Governo francese e quello tedesco mantengono ancora una quota importante nel capitale di Air France e Lufthansa.

Alfredo Roma, già presidente dell’Ente Nazionale Aviazione Civile (Enac) e dell’European Civil Aviation Conference (Ecac).


venerdì 5 maggio 2017

Ricerca parametrale n. 534 Notizie del 5 maggio 2017

Francia Presidenziali, Trump e Medio Oriente, Cina
Newsletter n° 534 , 5 maggio 2017

Illuminismo contro oscurantismo, dice l'uno; tecnocrazia contro popolo,
 ribatte l'altra. Il dibattito televisivo - l'unico prima
 del secondo turno delle presidenziali francesi di
 domenica - fra il centrista Emmanuel Macron
 e la nazionalista Marine Le Pen s'è combattuto
 senza sconti. Una performance 'all'americana' 
che negli Stati Uniti s'è approvvigionata anche di
 pesanti dichiarazioni di sostegno. Dopo la prima
 apparizione pubblica dalla fine del mandato, Barack 
Obama è tornato sulla scena per invitare i francesi 
a scegliere l'amico Macron, mentre non è un mistero
 che il successore Donald Trump faccia il tifo per
 la Le Pen, una cui vittoria (poco probabile, secondo
 i sondaggi) chiuderebbe il ciclo dell'imprevedibilità,
 dopo la Brexit e l'arrivo del tycoon alla Casa Bianca.
 Trump ha nel frattempo ricevuto il presidente 
palestinese Abu Mazen alla Casa Bianca e 
ha deciso di far suo il sentiero tradizionalmente 
battuto da ogni suo predecessore: "Noi
 vogliamo creare la pace tra Israele e Palestina e
 ci riusciremo". Ma la politica mediorientale del 
presidente americano segue una precisa strategia?


Ballottaggio
Francia: Macron e Le Pen, due diverse anime
Isabella Ciotti
05/05/2017
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Se c’è una cosa che accomuna i due candidati alla presidenza della Francia è il loro passato - in modi diversi - fuori dall’ordinario. Da un lato Marine, figlia di uno degli uomini più discussi della nazione, coinvolta a soli otto anni in un attentato alla villa di famiglia, un’identità politica e professionale ricercata con tormento e oggi messa al servizio della Francia più impaurita e primitiva.

Dall’altro Emmanuel, enfant prodige precoce anche nella scelta di sposare la sua professoressa di 24 anni più grande, una formazione e una vita così impeccabili da sembrare finte, un outsider della politica che propone di riformare il Paese riuscendo a non spaventare il sistema.

48 anni lei, 39 lui, Le Pen e Macron si presentano alla soglia dell’Eliseo in qualche modo ancora legati all’immagine della loro giovinezza. E con appresso un bagaglio di definizioni, simbologie (populismo contro europeismo, nazionalismo contro internazionalismo, isolazionismo contro liberismo) e anche cliché,confezionato dai media ma da loro stessi trainato. Tanto che, nell’ultimo dibattito televisivo,sono stati proprio i candidati a riaffibbiarsi l’un l’altro le solite etichette: a Macron quella di “freddo banchiere d’affari”, alla Le Pen quella di “ereditiera di un nome, incarnazione dello spirito di sconfitta”.

Saranno le urne, domenica, a stabilire quanto gli elettori hanno compreso di queste due diverse personalità e visioni. I militanti della sinistra radicale di Jean-Luc Melanchon - o almeno la maggioranza della sua “Francia ribelle” - hanno già espresso in un referendum interno al movimento l’intenzione di astenersi. Quanto all’elettorato nel complesso, i sondaggi sono ancora favorevoli al leader di En Marche e le proteste del Primo Maggio contro il Front National fanno pensare che, questa volta, i numeri rispecchino realmente la voce del popolo.

Marine Le Pen, l’ombra del passato e gli errori del presente
Macron non è ancora nato quando, nel 1976, davanti alla casa di Villa Poirier, dove vive la famiglia Le Pen, viene fatto esplodere un ordigno presumibilmente indirizzato al padre di Marine, Jean Marie. Il Front National al tempo ha appena cinque anni di vita e una forte connotazione razzista e antisemita. Avvocato penale, la Le Pen ha raccontato più volte di come il suo cognome abbia contribuito a isolarla anche in ambito lavorativo. Le cose cambiano nel 1998, quando entra in politica come consigliere regionale a Nord Pas di Calais, e ancor più nel 2002, quando la sconfitta del padre al ballottaggio contro Chirac e tutta la Francia ‘repubblicana’ la convince ad animare una profonda riforma del partito.

Il Front National di Marine Le Pen - presidente dal 2011 al posto del padre - anticipa gli slogan di Trump a favore degli operai e contro la chiusura delle fabbriche; promette di difendere la Francia dai diktat dell’Unione europea e dell’Eurozona; mette in guardia i francesi dal pericolo di un’immigrazione incontrollata. Nel 2015, mentre i leader Ue marciano a Parigi per commemorare le vittime della strage di Charlie Hebdo, la Le Pen - non invitata - organizza un corteo parallelo nella cittadina di Beaucaire, riscuotendo un discreto successo. “Per anni - dirà - abbiamo predetto quello che l’immigrazione di massa e l’islam radicale avrebbero causato”.

Marine è anche “donna e madre”, tiene a precisare nel suo spot elettorale. Carismatica e appassionata, ha uno stile e un temperamento che ricorda le altre donne di ferro del panorama internazionale, Theresa May e la “rivale” Angela Merkel. Non è, certo, una Hillary Clinton: i diritti delle donne e delle madri - con cui avrebbe potuto attirare l’elettorato femminile - non sono stati al centro della sua campagna, se non in un’ottica anti-islam: “Come donna - dice - vivo come una violenza le restrizioni alla libertà che si moltiplicano nel nostro Paese con lo sviluppo del fondamentalismo islamista”.

Quanto alla tutela dell’identità francese, punto forte del suo programma, la Le Pen ha commesso una gaffe proprio nella settimana del voto, riprendendo nel suo discorso per il Primo Maggio intere frasi già pronunciate dal candidato Repubblicano al primo turno Francois Fillon. “Un omaggio fatto di proposito”, hanno detto i suoi, senza però essere convincenti.

Emmanuel Macron,da meteora a stella luminosa
Nel 2016 il regista Pierre Hurel ha seguito per sei mesi il leader di En Marche, traendone un documentario dal titolo significativo: “Macron, la strategia di una meteora”. Quello che fra pochi giorni potrebbe diventare il nuovo presidente della Francia fino a due anni fa era - infatti - sconosciuto ai più. E proprio l’entrata in scena così improvvisa di quest’uomo apparentemente slegato dalla vecchia politica può aver contribuito a destare la curiosità di elettori e candidati avversari.

La politica non è l’unico campo in cui Macron è diventato adulto in fretta: al liceo ha la reputazione di studente brillante e a 16 anni ha già scelto anche la donna della sua vita. BrigetteTrogneux, professoressa di teatro, dopo un lungo quanto insolito corteggiamento, lascia marito e figli per fidanzarsi con l’ex allievo. Un amore, il loro, che ha tinto di rosa le ultime tappe della campagna elettorale e che pare avere fatto guadagnare a Macron ulteriori punti.

Formatosi all’Ena, l’École nationale d'Administration, a trent’anni è membro della Commissione Attali per il rilancio dell’economia, a trentuno banchiere per il gruppo Rothschild. Iscritto al partito socialista dal 2006, è il presidente Hollande a introdurlo alla politica, chiamandolo come suo consigliere economico. Ministro dell’Economia con Manuel Valls, la legge sulle liberalizzazioni che porta il suo nome viene più volte frenata, poi snaturata, in Parlamento. Dimessosi da ministro per correre da presidente, le sue proposte su industria e occupazione le ripresenterà una sera di aprile a un ristretto gruppo di sostenitori riunito ad Amiens: è lì che nasce En Marche, “né a destra, né a sinistra, ma per tutti i francesi”.

Tra le sue proposte più note, un piano di investimenti pubblici da 50 miliardi di euro, l’alleggerimento della pressione fiscale, l’aumento dei rimborsi per spese sanitarie e l’estensione dei sussidi di disoccupazione. E, ovviamente, il rispetto degli impegni con Bruxelles. “Bruxelles siamo noi, l’Europa siamo noi”, sostiene convinto. È anche per questa sua fede nel progetto europeo, oltre che per il suo ottimismo - e per il suo centrismo - che Macron è stato ripetutamente accostato all’ex presidente Valéry Giscard d’Estaing.

Ma l’inesperienza da meteora ha un suo peso: se in molti hanno apprezzato la sua calma e sobrietà, i suoi discorsi sono risultati a tratti freddi e di scarso impatto, specialmente se messi a confronto con quelli dell’agguerrita e trascinante leader dell’estrema destra. Il giorno dopo la sparatoria sui Campi Elisi, le sue dichiarazioni sono state meno incisive dei più aggressivi Fillon e Le Pen, più bravi di lui nella scuola della vecchia politica e della demagogia. D’altra parte questa è la sua prima campagna elettorale, e potrebbe comunque andargli bene al primo colpo.

Isabella Ciotti è giornalista.

mercoledì 3 maggio 2017

Ricerca Parametrale n.533. Notizie del 2 maggio 2017

Presidenziali Francia, 100 giorni di Trump, Ucraina
Newsletter n° 533 , 2 maggio 2017

Emmanuel Macron e Marine Le Pen si affronteranno
 domani in diretta tv nell'unico dibattito televisivo che 
precede il secondo turno delle presidenziali francesi, 
previsto per domenica. Sarà uno scontro fra due opposte
 idee di Francia e visioni di mondo, quello fra l'europeista 
e la nazionalista, i due candidati arrivati al ballottaggio 
senza il supporto dei partiti tradizionali della Quinta
 Repubblica: una condizione di 'outsider' con cui chiunque 
vincerà dovrà fare i conti, una volta conquistato l'Eliseo, 
alla ricerca di una credibile maggioranza in Parlamento. 
Tornerà la coabitazione, come sotto Mitterand e Chirac?
 Donald Trump, che non fa mistero di tifare per la Le
 Pen, ha intanto festeggiato i primi cento giorni di presidenza 
snobbando la tradizionale cena dei giornalisti accreditati
 alla Casa Bianca e andando a fare un comizio in Pennsylvania.
 La guerra senza quartiere contro la stampa - 
accusata di riportare 'fake news' sull'operato
 dell'amministrazione - continua, mentre il 
presidente apre forsennatamente nuovi dossier 
per distogliere l'attenzione dalle iniziative politiche 
che nel frattempo si arenano. 




Luna di Miele
Trump: Cento Giorni, il tarlo della stampa
Giampiero Gramaglia
01/05/2017
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I media e i giornalisti, negli Stati Uniti e pure altrove, non sono sempre fulmini di guerra a scoprire e denunciare le menzogne del potere: nel clima ultra-patriottico post 11 settembre 2001, ci misero due anni buoni a convincersi e scrivere che le armi di distruzione di massa con cui George W. Bush giustificava l’invasione dell’Iraq nel 2003 erano una balla e, per di più, una balla costruita ‘ad hoc’.

Nel frattempo, Bush era stato rieletto anche perché una campagna di stampa ben orchestrata, specie sui ‘new media’, aveva convinto una parte dell’opinione pubblica che un ex combattente del Vietnam (John Kerry), che era stato pure ferito, anche se solo leggermente, e aveva poi denunciato l’errore del conflitto, era meno rispettatile di un imboscato che in Vietnam non c’era mai stato grazie all’influenza del padre.

E pure quando rapidi e incisivi, come per il Watergate (1972/’73), media e giornalisti non sono riuscito lo stesso a impedire la rielezione del presidente fellone, in quel caso Richard Nixon, innescando, tuttavia, il processo che portò alle dimissioni a un passo dall’impeachment.

Politica e informazione: stesso disprezzo
Inoltre, nel XXI secolo i media e i giornalisti, almeno quelli tradizionali - la stampa scritta, la radio, la tv -, hanno smesso d’essere rilevanti nelle scelte politiche. Donald Trump, l’anno scorso, aveva contro praticamente tutta la stampa qualificata, anche quella conservatrice, ma è comunque diventato presidente degli Stati Uniti, cogliendo il comune sentire d’una fetta di elettori consistente che accomuna nello stesso disprezzo la politica e l’informazione.

E, a cento giorni dal suo insediamento alla Casa Bianca, l’effetto continua. I media smascherano ogni giornole menzogne spesso trasparenti del presidente, ne denunciano i dati sbagliati, ne segnalano le contraddizioni palesi, ma i fan di Trump restano convinti che un magnate di 70 anni, con un passato d’affari spesso fallimentari e di elusione fiscale, una banderuola opportunistica che cambia idea a ogni piè sospinto e abbandona le cose a metà quando finirle è difficile, sia l’interprete e il riscattatore del loro ‘sogno americano’.

Al che, uno può pure pensare che siano affari loro, come la Brexit per i britannici, nella solita serie di grande successo ‘chi è causa del suo mal pianga se stesso’, quando ci sarà da piangere.

Purché la banda delle ‘fake news’, della ‘post-truth’ e degli ‘alternative facts’, non mandi in malora tutto il pianeta, con la storia che il riscaldamento globale non ha nulla a che vedere con il carbone e le altre energie fossili; o con le minacce di guerra nucleare come se fosse uno spettacolo pirotecnico.

Anche se l’ultima versione del presidente Trump è che il dittatore Kim è bravo figliolo che sta curando l’eredità del nonno e del padre (un profilo in cui il magnate, che non s’è ‘fatto da sé’, ma è un ‘figlio di papà’, un po’ si riconosce, persino nella bizzarria dell’acconciatura): se il leader nordcoreano vuole sparare qualche missile sono affari suoi, purché non li spari in testa agli americani e ai loro alleati.

Un comizio per disertare la cena con i giornalisti
Per Trump, che non ama le critiche, quello dei media e dei giornalisti è un nervo scoperto: “falsa” e “disonesta”, tale è la stampa per il presidente, che, come aveva annunciato fin dai primi giorni, diserta l’annuale cena dei corrispondenti dalla Casa Bianca, preferendo i cori da stadio dei suoi fan a un comizio in Pennsylvania.

Ovazioni e l’incitamento patriottico ‘Usa! Usa!’ quando lui assicura che farà il muro al confine con il Messico, che terrà fuori dagli Stati Uniti i terroristi islamici e che, con l’aiuto del cinese Xi, ormai divenuto il suo miglior amico, ridurrà alla ragione Kim. Alla lista dei leader che gli piacciono, depennato - temporaneamente? - Vladimir Putin e messo ‘in attesa’ il coreano - “Non so se è pazzo, ma è sveglio” -, Trump ha appena aggiunto il filippino Rodrigo Duterte, che fa la sua bella figura accanto a Erdogan e al-Sisi (nell’attesa di aggiungere al presepino Marine Le Pen).

Invece, media e giornalisti "sono una disgrazia, sono parte del problema", specialmente New York Times e Cnn; "Non potrei essere più felice di essere qui, oltre 100 miglia lontano da Washington - ha detto il presidente, parlando quasi un’ora ad Harrysburg. La politica della capitale e i media sono a cena insieme, ma il presidente non c’è: ha preferito passare la serata con persone molto migliori… La loro agenda non è la nostra agenda".

‘Fake news’ e libertà di stampa
Jeff Mason, presidente dell'associazione dei corrispondenti della Casa Bianca, rispedisce le accuse al mittente: "Siamo qui come sempre per celebrare la libertà di stampa e il buon giornalismo, non per celebrare la presidenza", dice aprendo l’evento annuale. "Come si può vedere - la frecciata è ironica, davanti a una sala gremitissima di bella gente -, la serata è lo stesso ‘tutto esaurito’".

L’idea di fondo è una sola: i media non sono ‘fake news’; i giornalisti non sono il nemico del popolo. Anzi, “un attacco a noi è un attacco a tutti gli americani”. A testimoniare che c’è in gioco la libertà di stampa e d’espressione, si scomodano due icone dei media e della democrazia: Bob Woodward e Carl Bernstein, i mitici cronisti del Washington Post che fecero scoppiare lo scandalo del Watergate (i loro alias in ‘Tutti gli uomini del presidente’ furono Robert Redford e Dustin Hoffman).

Woodward sforna un libro l’anno di consigli al presidente, quale che esso sia, e si vede spesso in tv o altrove. Bernstein è schivo, vive appartato. Ma sul podio ci sono entrambi: "Caro presidente - dicono -, i media non sono ‘fake news’”; e invitano i giovani colleghi "a seguire i soldi e le bugie". Una pista valida in tutti i tempi e in tutti i luoghi, ma che pare tracciata per portare a Trump.

Woodward e Bernstein sono sicuri: “La verità alla fine emerge. Ci vuole del tempo, ma viene fuori”. Purché non ce ne voglia troppo, questa volta, ché un missile fa in fretta a scappare di mano, se uno è impulsivo; e l’inquinamento dell’atmosfera può divenire irreversibile, se uno bada più agli interessi degli amici e ai propri che al bene comune.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.