Emmanuel Macron e Marine Le Pen si affronteranno
domani in diretta tv nell'unico dibattito televisivo che
precede il secondo turno delle presidenziali francesi,
previsto per domenica. Sarà uno scontro fra due opposte
idee di Francia e visioni di mondo, quello fra l'europeista
e la nazionalista, i due candidati arrivati al ballottaggio
senza il supporto dei partiti tradizionali della Quinta
Repubblica: una condizione di 'outsider' con cui chiunque
vincerà dovrà fare i conti, una volta conquistato l'Eliseo,
alla ricerca di una credibile maggioranza in Parlamento.
Tornerà la coabitazione, come sotto Mitterand e Chirac?
Donald Trump, che non fa mistero di tifare per la Le
Pen, ha intanto festeggiato i primi cento giorni di presidenza
snobbando la tradizionale cena dei giornalisti accreditati
alla Casa Bianca e andando a fare un comizio in Pennsylvania.
La guerra senza quartiere contro la stampa -
accusata di riportare 'fake news' sull'operato
dell'amministrazione - continua, mentre il
presidente apre forsennatamente nuovi dossier
per distogliere l'attenzione dalle iniziative politiche
che nel frattempo si arenano.
Luna di Miele Trump: Cento Giorni, il tarlo della stampa Giampiero Gramaglia 01/05/2017
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I media e i giornalisti, negli Stati Uniti e pure altrove, non sono sempre fulmini di guerra a scoprire e denunciare le menzogne del potere: nel clima ultra-patriottico post 11 settembre 2001, ci misero due anni buoni a convincersi e scrivere che le armi di distruzione di massa con cui George W. Bush giustificava l’invasione dell’Iraq nel 2003 erano una balla e, per di più, una balla costruita ‘ad hoc’.
Nel frattempo, Bush era stato rieletto anche perché una campagna di stampa ben orchestrata, specie sui ‘new media’, aveva convinto una parte dell’opinione pubblica che un ex combattente del Vietnam (John Kerry), che era stato pure ferito, anche se solo leggermente, e aveva poi denunciato l’errore del conflitto, era meno rispettatile di un imboscato che in Vietnam non c’era mai stato grazie all’influenza del padre.
E pure quando rapidi e incisivi, come per il Watergate (1972/’73), media e giornalisti non sono riuscito lo stesso a impedire la rielezione del presidente fellone, in quel caso Richard Nixon, innescando, tuttavia, il processo che portò alle dimissioni a un passo dall’impeachment.
Politica e informazione: stesso disprezzo Inoltre, nel XXI secolo i media e i giornalisti, almeno quelli tradizionali - la stampa scritta, la radio, la tv -, hanno smesso d’essere rilevanti nelle scelte politiche. Donald Trump, l’anno scorso, aveva contro praticamente tutta la stampa qualificata, anche quella conservatrice, ma è comunque diventato presidente degli Stati Uniti, cogliendo il comune sentire d’una fetta di elettori consistente che accomuna nello stesso disprezzo la politica e l’informazione.
E, a cento giorni dal suo insediamento alla Casa Bianca, l’effetto continua. I media smascherano ogni giornole menzogne spesso trasparenti del presidente, ne denunciano i dati sbagliati, ne segnalano le contraddizioni palesi, ma i fan di Trump restano convinti che un magnate di 70 anni, con un passato d’affari spesso fallimentari e di elusione fiscale, una banderuola opportunistica che cambia idea a ogni piè sospinto e abbandona le cose a metà quando finirle è difficile, sia l’interprete e il riscattatore del loro ‘sogno americano’.
Al che, uno può pure pensare che siano affari loro, come la Brexit per i britannici, nella solita serie di grande successo ‘chi è causa del suo mal pianga se stesso’, quando ci sarà da piangere.
Purché la banda delle ‘fake news’, della ‘post-truth’ e degli ‘alternative facts’, non mandi in malora tutto il pianeta, con la storia che il riscaldamento globale non ha nulla a che vedere con il carbone e le altre energie fossili; o con le minacce di guerra nucleare come se fosse uno spettacolo pirotecnico.
Anche se l’ultima versione del presidente Trump è che il dittatore Kim è bravo figliolo che sta curando l’eredità del nonno e del padre (un profilo in cui il magnate, che non s’è ‘fatto da sé’, ma è un ‘figlio di papà’, un po’ si riconosce, persino nella bizzarria dell’acconciatura): se il leader nordcoreano vuole sparare qualche missile sono affari suoi, purché non li spari in testa agli americani e ai loro alleati.
Un comizio per disertare la cena con i giornalisti Per Trump, che non ama le critiche, quello dei media e dei giornalisti è un nervo scoperto: “falsa” e “disonesta”, tale è la stampa per il presidente, che, come aveva annunciato fin dai primi giorni, diserta l’annuale cena dei corrispondenti dalla Casa Bianca, preferendo i cori da stadio dei suoi fan a un comizio in Pennsylvania.
Ovazioni e l’incitamento patriottico ‘Usa! Usa!’ quando lui assicura che farà il muro al confine con il Messico, che terrà fuori dagli Stati Uniti i terroristi islamici e che, con l’aiuto del cinese Xi, ormai divenuto il suo miglior amico, ridurrà alla ragione Kim. Alla lista dei leader che gli piacciono, depennato - temporaneamente? - Vladimir Putin e messo ‘in attesa’ il coreano - “Non so se è pazzo, ma è sveglio” -, Trump ha appena aggiunto il filippino Rodrigo Duterte, che fa la sua bella figura accanto a Erdogan e al-Sisi (nell’attesa di aggiungere al presepino Marine Le Pen).
Invece, media e giornalisti "sono una disgrazia, sono parte del problema", specialmente New York Times e Cnn; "Non potrei essere più felice di essere qui, oltre 100 miglia lontano da Washington - ha detto il presidente, parlando quasi un’ora ad Harrysburg. La politica della capitale e i media sono a cena insieme, ma il presidente non c’è: ha preferito passare la serata con persone molto migliori… La loro agenda non è la nostra agenda".
‘Fake news’ e libertà di stampa Jeff Mason, presidente dell'associazione dei corrispondenti della Casa Bianca, rispedisce le accuse al mittente: "Siamo qui come sempre per celebrare la libertà di stampa e il buon giornalismo, non per celebrare la presidenza", dice aprendo l’evento annuale. "Come si può vedere - la frecciata è ironica, davanti a una sala gremitissima di bella gente -, la serata è lo stesso ‘tutto esaurito’".
L’idea di fondo è una sola: i media non sono ‘fake news’; i giornalisti non sono il nemico del popolo. Anzi, “un attacco a noi è un attacco a tutti gli americani”. A testimoniare che c’è in gioco la libertà di stampa e d’espressione, si scomodano due icone dei media e della democrazia: Bob Woodward e Carl Bernstein, i mitici cronisti del Washington Post che fecero scoppiare lo scandalo del Watergate (i loro alias in ‘Tutti gli uomini del presidente’ furono Robert Redford e Dustin Hoffman).
Woodward sforna un libro l’anno di consigli al presidente, quale che esso sia, e si vede spesso in tv o altrove. Bernstein è schivo, vive appartato. Ma sul podio ci sono entrambi: "Caro presidente - dicono -, i media non sono ‘fake news’”; e invitano i giovani colleghi "a seguire i soldi e le bugie". Una pista valida in tutti i tempi e in tutti i luoghi, ma che pare tracciata per portare a Trump.
Woodward e Bernstein sono sicuri: “La verità alla fine emerge. Ci vuole del tempo, ma viene fuori”. Purché non ce ne voglia troppo, questa volta, ché un missile fa in fretta a scappare di mano, se uno è impulsivo; e l’inquinamento dell’atmosfera può divenire irreversibile, se uno bada più agli interessi degli amici e ai propri che al bene comune.
Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.
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