Giulio
Douhet e il Milite Ignoto
Anima e cuore di
soldato italiano spirito colto geniale lungimirante fin dai primi tentativi
dell’aviazione intravide l’ineluttabile avvento delle armate del cielo e per la
patria una ne invocòstrenuamente con gli scritti e con la parola sprezzando
ogni personale interesse. Di ogni ideale umano e patriottico fervidamente
pervaso primo in Italia e fuori il culto del milite ignoto propose. Doveva
triste destino del genio chiudere la vita perché le sue idee fossero attuate e
fosse proclamato maestro.
MCMXXX La
vedova orgogliosa[1]
Ricorre il centenario del Milite Ignoto in
un anno particolarmente critico per la Nazione, ancora prostrata dagli effetti
della pandemia. Per evitare che, in tale contesto, la ricorrenza possa venire annoverata fra le
celebrazioni storico – militari distanti dalle istanze contemporanee, risulterà
opportuno risalire alle idee che condussero al culto del Milite Ignoto per
indagarne l’attualità.
I contributi divulgativi
intorno al centenario comparsi già dai primi mesi del 2021 si sono concentrati
principalmente sugli elementi toccanti che seppero a suo tempo calamitare
l’attenzione dell’intero Paese: la figura della madre di un soldato disperso,
signora Maria Maddalena Bergamas, a cui fu affidato l’immane compito morale di
indicare quale spoglia avesse dovuto rappresentare il valore ed il sacrificio
di cui si rese capace il Soldato italiano, il viaggio che compì la Salma,
onorata al suo passaggio dal saluto commosso dei cittadini presenti persino
lungo l’intero percorso del treno e, non ultima, l’imponente e sentita
cerimonia che decretò formalmente l’accoglienza del Soldato nel cuore della
Patria. Sono ricordi che permangono vibranti nelle coscienze e le immagini del tempo
raccontano efficacemente il clima di quei momenti dolorosi, rendendo possibile,
anche a distanza di tanti anni, una partecipazione sul piano emotivo. Le
dinamiche proprie del contesto attuale, assuefatto alla vista del dolore
scomposto e assai poco incline alla riflessione, rischiano però di impoverire la valenza
dell’avvenimento, archiviandolo il
giorno seguente la celebrazione.
Per giungere al
significato essenziale e perenne di questa ricorrenza, non si può
prescindere dallo studio della
personalità e delle idee di colui al quale si deve il ricordo del Sodato
Italiano dall’identità illimitata.
L’ideatore dell’iniziativa
fu il Maggior Generale Giulio Douhet (Caserta, 30 maggio 1869 – Roma, 15
febbraio 1930) che detenne il comando del Battaglione Aviatori. La sua fu una
figura decisamente eccentrica per i
canoni dell’epoca: l’esaltazione sincera ed intransigente del culto del dovere,
unita ad una vis polemica di rara efficacia, ne fece una figura invisa a molti
per la convinzione unilaterale con
cui sostenne le proprie vedute. Il Generale Eugenio De Rossi, primo ad essere
decorato della Medaglia al Valore (personalmente dal Re) della Grande Guerra
italiana[2], nelle sue memorie
sintetizzava in una massima il segreto alla base di ogni riuscita: «Sapere,
saper fare, saper vivere»[3]. Si può affermare, senza
possibilità di essere smentiti, che Douhet ignorasse (volutamente) l’arte del saper vivere.
Spinto
da una naturale tendenza – che impropriamente venne classificata ipercritica –
ho sempre interrogato ansiosamente i fatti che si andavano svolgendo intorno
a me per trarne le necessarie conseguenze e, trattele, non ho mai avuto timore
di enunciarle, fossi pur solo contro tutti.[4]
Alle sue vedute
prospettiche (e profetiche), pressoché incommensurabili con la realtà circostante, si deve l’impulso
fondante che portò allo sviluppo dell’aviazione militare dei primordi. Pur cosciente delle ripercussioni che
l’assetto adottato avrebbe inevitabilmente avuto sugli sviluppi della sua
carriera, si votò irreversibilmente a
perorare una causa che agli occhi dei suoi contemporanei risultava
incomprensibile: ciò che più connotò
il suo agire fu infatti la lungimiranza con cui seppe intuire la reale portata
dell’aviazione di guerra in un momento in cui i velivoli erano ancora
considerati da gran parte della società civile (e del mondo militare) una
bizzarra attività sportiva, prediletta da qualche originale[5].
Se lei andasse a dire
ad uno qualunque dei capi di stato o degli eserciti in lotta: «Io ho un cannone
capace di mandare un proiettile di 500 chilogrammi a 50 chilometri di
distanza, occorre però una ferrovia per trasportarlo, piazzuole di cemento
armato per piazzarlo, 400 uomini per servirlo, 6 ingegneri per curarlo, 6 geodeti
per puntarlo, ed ogni colpo costa 500.000 lire», lei troverebbe tutti i capi di
esercito o di stato folli del suo cannone, perché a tutti sorgerebbe il
pensiero che con esso potrebbero raggiungere obbiettivi posti a 50 chilometri
dalla fronte nemica. Ma se invece di dire: «Io ho un cannone», lei dicesse «Io
ho un aeroplano che porta un proiettile di 500 chilogrammi non a 50, ma a 100,
200, 300 chilometri di distanza, che si trasporta da sé velocissimamente dove
si vuole, che necessita di 4 uomini di equipaggio, che costa 100 mila lire in
tutto» le brave persone dianzi nominate le sorriderebbero in faccia con aria
compassionevole.[6]
La validità del suo
pensiero, capace di precorrere i tempi, solo in seguito gli venne riconosciuta in
patria (anche per i rapporti relativamente tranquilli instaurati con il
Fascismo). A livello internazionale, il riconoscimento su larga scala della
portata delle sue intuizioni fu postumo.
Il suo assetto ragionevolmente impaziente (in costante attrito con i tempi propri
dell’iter gerarchico) si convertì nell’impulso che portò ad innovazioni
particolarmente efficaci sul piano bellico[7]. Ancora oggi, però, la
memoria di Douhet è rievocata in merito alle aspre critiche rivolte all’operato
del Comando Supremo circa il governo degli uomini[8] soprattutto in relazione
al terremoto politico che a tale
denuncia seguì. Douhet pagò le conseguenze della condivisione politica del suo
dissenso con la detenzione che gli venne fatta scontare con particolare
puntiglio.
Proprio dalle sue
osservazioni sulla lontananza siderale fra le condizioni di vita delle truppe e
la forma mentis degli Ufficiali (non
propensa a conferire la priorità al rapporto fra costi umani e risultati) trae
origine il nucleo morale che condurrà al riconoscimento del valore del Milite
Ignoto.
Il sacrificio della vita
di tanti, offerto o subìto, colmò lo scarto profondo che separava una visione
obsoleta della guerra dalle reali esigenze della stessa, imperniate
sull’impiego di tecnologie ancora non compiutamente assimilate. Non fu il solo
Douhet a dimostrare il coraggio necessario ad affrontare questo tema, irto di
insidie sul piano delle ripercussioni sulla carriera. Persino il Generale
Capello, concettualmente incline all’offensiva (che riteneva capace di vincere
interiormente il concetto di ingenita inferiorità provata nei riguardi del
nemico), ancora comandante il VI Corpo d’Armata, denunziò lo stato inumano in
cui si trovavano i Soldati, chiedendo la sospensione dell’offensiva in
programma, anche a costo del proprio siluramento[9].
La vista di tale tristo spettacolo,
capace di toccare le coscienze di figure militari avvezze alle asperità della
guerra, pone in luce l’incomprensione da parte di alcuni Alti Comandi delle
peculiarità del Soldato italiano, presente in linea senza il supporto (ed il conforto)
della preparazione psicologica e professionale del militare di carriera ma
disponibile, se sostenuto adeguatamente, ad offrire la propria vita senza
ripensamenti.
Non solo mancano di
ogni preparazione remota, di carattere morale ai sacrifici che la guerra
impone, ma anzi hanno ricevuto, attraverso una falsa propaganda facilona di
pacifismo internazionale, una educazione antimilitarista. Eppure, ad onta di
tutto questo, al primo appello della patria hanno lasciata la loro professione
e sono venuti alla guerra. E alla guerra combattono il ‘nemico’ e muoiono per
vincerlo, senza forse avere in molti casi una idea o almeno senza avere mai
saputo prima che cosa è un nemico della patria.[10]
Il giovane Regno d’Italia
era ancora lontano dal concetto di nazione
armata che poggiava le proprie basi su un idem sentire: il linguaggio stesso dei soldati non costituiva
elemento di coesione (il tasso di alfabetizzazione era bassissimo e la stessa
comprensione dei comandi non era affatto scontata). Inoltre, il vorticoso
mutamento dei Comandi non permetteva quella continuità capace di nutrirsi della
conoscenza reciproca fra Superiori e Sottoposti. Il Soldato, nella mentalità
del tempo, era considerato alla stregua di un elemento impersonale dello strumento, retaggio del concetto di
‘macchina’ cartesiana[11], e la disillusione che
egli provava di fronte al sacrificio vano dei commilitoni veniva interpretata
in maniera negativa, senza dar luogo
alle opportune riflessioni finalizzate, se non altro, ad ottenere una
partecipazione più attiva e convinta da parte delle truppe.
Alla vista di tale
realtà, il conflitto interiore maturato in Douhet si condensò in intenzione di
abbandonare il mondo militare. Le sue riflessioni appaiono impersonali e l’uso
della prima persona singolare viene bandito:
L’una personalità non
turba l’altra, che anzi il capo di Stato maggiore [della 5ª divisione], non
avendo alcuna pretesa di fare come si dice carriera, né alcuna ambizione
personale, agisce unicamente nell’interesse del servizio, indifferente nel modo
più assoluto ai propri personali interessi, che non possono venire turbati, ed
il mio io interno, soddisfatto dal dovere compiuto, può facilmente astrarsi e
considerare dall’alto e lucidamente le cose che vanno svolgendosi intorno a
lui. E le può considerare con indifferenza, non perché esse non lo turbino
profondamente, perché talvolta il suo cuore piange lagrime di sangue nel constatare
come questa povera patria, di cui oggi ognuno sventola il bandierone, sia così
bistrattata, ma perché si trova nella assoluta impossibilità di influire in un
modo qualsiasi; e deve quindi fare di necessità virtù.[12]
Ed ai poveri contadini
e montanari tratti dai loro casolari io dovrei chiedere il sacrificio della
vita in nome di una più grande Italia, sapendo quello che so, e se occorre,
farne fucilare qualcuno, se non addirittura far decimare qualche reparto,
qualora un attimo di titubanza invada le loro anime ignare, le loro coscienze
infantili, le loro menti oscure. Sembrerebbe una situazione da pochade, se non si trattasse di una
tragedia.[13]
Da tale inconspevolezza
nasce l’essenza del Milite Ignoto: privo delle conoscenze necessarie, magari
ancora attaccato al ricordo delle sue terre lontane, il Soldato percepisce di
costituire parte di un disegno cosmico ineluttabile dalle dimensioni a lui sconosciute
e sacrifica ad esso la propria vita, inconsapevolmente partecipe della grave
dinamica storica.
Ed è proprio per questo
che ancora tale Sacrificio conserva intatto tutto il suo valore, capace di
rappresentare ogni Italiano che, a fronte delle difficoltà, anche obtorto collo, fa ‘del proprio meglio’, sospinto dall’inestirpabile idea di un futuro
migliore. La valenza del Milite Ignoto raggiunge così ogni anfratto della
società civile.
I Comandanti avvezzi a
vivere a stretto contatto con le truppe non risparmiarono le parole di lode nei
riguardi dei propri soldati (è il caso del Generale Caviglia, di cui è nota la
sobrietà) intuendone le potenzialità e saggiandone il coraggio. La visione
della centralità della figura del fante, dopo la prova di valore che si palesò
nella battaglia d’arresto sul Piave, iniziò poi a maturare nella coscienza
collettiva. Coloro che riducevano il comando militare a pratiche burocratiche
con risvolti di insensata spietatezza, dopo il culmine di criticità costituito
dalla XII Battaglia, dovettero ricredersi e constatare che lo strumento risponde in ragione delle
motivazioni che il comando è in grado di instillare.
Al termine del conflitto,
dopo i giorni della vittoria che inebriarono il Paese, gli equilibri interni
(anche all’Esercito) erano ben lontani dall’essere raggiunti. Douhet,
formalmente pacificato[14] dalla crescente importanza conquistata dall’Arma Aerea, si era
ritirato in disparte rassegnando alla vigilia della Battaglia del Solstizio le proprie dimissioni (accettate immediatamente
dal Commissario generale Chiesa)[15], senza per questo
minimamente rinunciare a sostenere le propie cause. In un contesto dove si
poteva riscontrare la tendenza ad attribuire la vittoria ai propri meriti, il
diaframma fra lui e le alte gerarchie non si era affatto assottigliato. Il suo
distacco da quel tipo di ambiente aveva origini
in tempi precedenti:
Caro amico, di una cosa
sola mi pento nella mia vita, e me ne pento amaramente, e cioè di essere un
galantuomo e di avere avuto fede che gli altri mi rassomigliassero. Se, quando
fui in aviazione, invece di pensare all’aviazione e di sognare di forgiare
un’arma forte per il mio paese, io avessi lasciato correre le cose per la loro
china, avessi accarezzato industriali e fornitori, avessi fatto un poco di
politica sporca, non avrei certamente avuto la seccatura delle inchieste, sarei
rimasto amico di tutti, sarei a capo della nostra aviazione, ed avrei
arrotondato il mio peculio e la cerchia dei miei amici. Ed avrei fatto anche
l’interesse del paese perché almeno sarei stato meno cretino degli altri ed
avrei agito più razionalmente. Ma, che vuole, mio padre mi ha dato
un’educazione piena di pregiudizi; per conto mio le giuro che, se avessi un
figlio, ne farei un farabutto tale che non mancherebbe certo di fare una
splendida carriera.[16]
La possibilità di una
cesura fra un prima e un dopo la conclusione della guerra non
sfiorò neppure lontanamente il suo pensiero, inteso ad allontanare con forza il
concetto velato di ‘amnistia’, capace di livellare le responsabilità e di
impedire una riflessione adeguata alla portata dei fatti.
L’Italia ha il diritto
di conoscere esattamente lo svolgimento dell’immane tragedia. Non vi è più alcuna
scusa. Il nemico è vinto. La pace è conclusa o sta per concludersi. L’Italia ha
il diritto di sapere in che modo fu speso il suo sangue e il suo denaro […].
La vittoria non sana tutto. Noi vogliamo sapere se per avventura non è stato
pagato cento ciò che poteva costare dieci o uno. Noi vogliamo ridare il giusto
valore agli uomini e alle cose. Perciò vogliamo la verità, tutta la verità e
nient’altro che la verità sulla nostra guerra. Se tale verità porterà a galla
colpe ed errori, se abbatterà falsi idoli o spezzerà piedistalli di pietra mal
connessi, poco importa. Non per questo la guerra nostra rifulgerà di minor
splendore. Anzi. Anzi di maggior splendore rifulgerà la gloria del nostro
grande popolo perché verrà dimostrato che seppe riportare una doppia vittoria:
contro il nemico e contro l’incapacità e le colpe di chi lo conduceva.[17]
Ad alta voce, sulle
colonne de «Il Dovere» da lui fondato agli inizi del 1919, Douhet proseguiva il
discorso già intrapreso, rivolgendosi ad una platea ampia, attraversata dalle
tensioni che interessarono gli ex combattenti nel dopo guerra. Non esitò da
queste pagine a ridimensionare la figura del Generale Giardino, spostando il
focus sugli Eroi i cui nomi sarebbero stati destinati a rimanere sconosciuti:
Al Grappa non ci furono
concezioni strategiche né alti voli di superba tattica. Ci furono dei saldi
petti di Italiani che costituirono l’incrollabile barriera. Furono gli umili e
gli ignoti che fermarono e respinsero il nemico. E l’Italia questi umili
ricorda e venera, e non ama che vengano sfruttati che già lo furono abbastanza.
Il paese è stanco di
tutte le glorie fittizie che vede sorgere attorno come funghi. Esso ha vinto, non ostante.[18]
Il pensiero di
trasportare solennemente a Roma la salma di un anonimo soldato per darne
sepoltura al Pantheon venne espresso da Douhet nell’articolo Al suo soldato, l’Italia, sempre su «Il
Dovere»[19]. Le argomentazioni
sottese alla proposta non furono nascoste da alcuna forma di eufemismo:
Il vero vincitore della
guerra fu il soldato, figlio del popolo italiano. Egli seppe vincere non solo
il nemico, ma sopperire a tutte le manchevolezze dei suoi condottieri politici
e militari. Egli fu il solo che si dimostrò veramente grande e la cui grandezza
rimase indiscutibile, sempre.[20]
Nonostante si possa
interpretare l’iniziativa di celebrare il Milite Ignoto come una rivincita efficacissima da parte di Douhet su quella gerarchia indifferente alle sorti
degli uomini e sorda di fronte alle sue intuizioni, la lettura dei suoi Diari e
l’integrità con cui mantenne fede ai propri principi permettono di propendere
verso una sincerità d’intenti, seppur non del tutto pacifica.
Il contesto, per una
volta, gli si dimostrò favorevole e la proposta, capace di aggregare intorno a
sé un numero notevole di sostenitori, confluì in un iter formale. Al Soldato,
Figlio d’Italia, non fu data però sepoltura al Pantheon accanto al Padre della
Patria Vittorio Emanuele II: il sacello venne adagiato sull’Altare monumentale la
cui imponenza lo avrebbe sovrastato, reificandone il profilo morale in elemento
architettonico. Questa variazione, sostanziale e simbolica al contempo,
amareggiò il Proponente che esplicitò il suo dissenso attraverso una lettera
idealmente scritta dallo stesso Soldato in cui denunziava in tale cambiamento
l’ultimo tentativo di appropriarsi del suo sacrificio: «le pietre che ricoprono
le tombe più che a riparare i morti servono da gradini ai vivi, e quella che
ricopirà la mia è troppo un bel gradino»[21].
Nemmeno ad un anno di
distanza dalla solenne celebrazione del
4 novembre 1921, ebbe luogo la Marcia su Roma e i ricordi della Grande Guerra,
alterati nella loro essenza (il caso degli Arditi risulta esemplare), vennero
assimilati dal Fascismo il quale non esitò a trasformarli in alimento per un
mito artificiale dalle cui spire
l’Italia si sarebbe liberata solo con grandi sofferenze.
Il tempo presente non è tempo di miti, bensì di verità storica,
capace di preservare intatto il valore dell’esperienza umana.
Maria Luisa
Suprani Querzoli
[1] L’epitaffio compare sulla tomba di
Giulio Douhet (Roma, Cimitero del Verano).
[2] Cfr. DE ROSSI E., La vita di un Ufficiale italiano sino alla
guerra, Milano: Mondadori, 1927, p. 285.
[3] Ivi, p. 52.
[4] DOUHET G., La difesa nazionale, Torino: Anonima
libraria italiana, 1923, p. 10.
[5] «Qui a Reims volare è la cosa più
normale di questo mondo ed ho avuto per questo un senso di sollievo poiché in
Italia si considerano gli aviatori ancora come dei pazzi o almeno dei
temerari» (lettera di Francesco Baracca al padre, Reims, 5 maggio 1912, Museo
del Risorgimento di Milano, raccolte storiche: cartella n. 36, n. reg. gen.
31941, n. reg. AG 1994).
[6] Brano tratto
dalla lettera di Douhet all’on. De Felice datata 5 agosto 1916 (DOUHET G., Diario critico di guerra 1915 – 1916, II vol. Torino: Paravia, 1921,
pp. 348 – 349).
[7]
Il riferimento è all’impulso dato (prima che giungesse l’autorizzazione)
alla costruzione del Trimotore Caproni Ca. 31.
[8] Cfr. LEHMANN E., La guerra dell’aria – Giulio Douhet stratega impolitico, Bologna:
Il Mulino, 2013, p. 74.
[9] Cfr. CAPELLO L., Note di Guerra, vol. I, Milano: Fratelli Treves, 1920, pp. 188 – 191.
[10] GEMELLI A., Il nostro soldato. Saggi di psicologia
militare, Milano: Treves, 1917, p. 27.
[11] Le indagini di Agostino Gemelli
risultano esplicative a riguardo, indagando scientificamente le ripercussioni
dell’ambiente bellico sulla coscienza individuale.
[12] DOUHET G., Diario critico di guerra (1915 – 1916), I vol. Torino: Paravia, 1921,
p. 149.
[13] Brano tratto
dalla lettera di Douhet all’on. De Felice del 5 agosto 1916 in DOUHET G., Diario critico di guerra (1915 – 1916), vol. II, cit., p. 349.
[14]Una volta
istituito il Comando superiore di aeronautica, l’allora direttore centrale di
aviazione Douhet «fu chiamato a definire un programma dai contenuti molto più
tradizionali di concerto con il Maggior Generale Luigi Bongiovanni […]» (DI
MARTINO B., L’aviazione italiana nella
grande guerra, Milano: Mursia, 2011, p. 291).
[15] Cfr. LEHMANN E., La guerra dell’aria, cit., p. 102.
[16] DOUHET. G., Diario critico di guerra (1915 – 1916), vol. II, cit., p. 346.
[17] DOUHET. G., La commissione d’inchiesta su Caporetto,
«Il Dovere», 27 aprile 1919, p. 2.
[18] DOUHET G., Il
Generale Giardino, «Il Dovere», 12 –
13 maggio 1920, p. 1.
[19] DOUHET G., Al suo
soldato, l’Italia, «Il Dovere», 15 - 16 luglio 1920, p. 1.
[20] Ibidem.
[21] DOUHET G ., Per le onoranze al soldato ignoto. Una lettera del Soldato Ignoto, «Il
Dovere», 4 agosto 1921, p. 2.
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