L'integrazione europea dei Balcani occidentali sembra essere evanescente e si muove tra le celestiali promesse politiche e la realtà terrena. È evidente a tutti che esista un consenso comune secondo il quale l'unico progetto fattibile per raggiungere una vera stabilità e una certa prosperità nei Balcani sia l'integrazione di questi paesi con l'Unione europea, Ue.
Sebbene siano stati fatti molti passi in avanti, il completamento del "Progetto europeo" in questa regione viene minacciato costantemente da grandi sfide.
L'Europa è immersa completamente nei suoi problemi ed è impegnata nell’affrontare le crisi economiche e politiche, sconvolta ancora dalla “Brexit”, cercando di far fronte alla questione migratoria.
Nonostante il caos attuale, i paesi dei Balcani occidentali non hanno ancora perso il loro interesse per l'Ue: infatti, pazienti si mettono in fila per diventare membri di questa famiglia. D'altro canto, nonostante un certo livello di "enlargment fatigue" tra diversi membri, l'Ue sta cercando di mantere viva la politica di allargamento.
“Europeizzare” una regione divisa da differenze sostanziali tra i Paesi che vi fanno appello - come le economie in stato di sviluppo, le istituzioni deboli e la società civile poco rappresentata - non è facile. Il raggiungimento di tale obiettivo si qualificherebbe come una grande prova di affidabilità e capacità per l’Ue.
Enlargment fatigue La politica di ampliamento, una priorità fondamentale dell'Ue dall’inizio degli anni novanta dopo la caduta del muro di Berlino, è stata ampiamente riconosciuta come il più potente strumento della politica estera dell’Ue. Iniziata come un gruppo di sei Paesi, è ora sede di una popolazione di oltre 500 milioni. Otto paesi sono ancora in attesa di entrare a fare parte di quest’associazione, mentre uno dei Paesi più importanti dell'Ue stessa, il Regno Unito, ha deciso di chiedere il divorzio.
Nonostante le numerose critiche, il successo della politica d’allargamento è innegabile. Mentre si è tentato di giustificare i sette turni di allargamento con motivazioni tra le più varie, in primis geografiche, ma anche politiche ed economiche, la ragione principale è rimasta la stessa: la sicurezza europea. Eppure allo stato attuale delle cose quest’ultima sembra essere data per scontata.
Dodici anni dopo l’"unificazione storica" d'Europa nel maggio del 2004 con dieci nuovi membri, la prospettiva sull'allargamento sembra cambiata. Lo scetticismo popolare è aumentato, raggiungendo il 53% dei cittadini dell'Ue che oggi si oppongono a gran voce contro qualunque ulteriore ampliamento della coalizione.
Molti sostengono che la "fatica di allargamento" ha avuto origine nel 2007 dopo l'adesione di due nuovi paesi, Bulgaria e Romania, momento nel quale l'Ue avrebbe raggiunto la sua "capacità d’assorbimento". Di contro, il processo di espansione ha iniziato ad affievolirsi con il fallimento del progetto costituzionale dell'Unione, seguito dal “no” espresso attraverso i referendum in Olanda e in Francia.
Gli ultimi allargamenti, 2004 e 2007, hanno ulteriormente aumentato la diversità all’interno della Ue. Come un maremoto sono sopraggiunte la crisi economica, quella dei migranti e infine la Brexit.
Il sogno europeo continua I Paesi dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia-Herzegovina, Macedonia, Serbia, Montenegro e Kosovo), tutti in fila per aderire all’Unione, non sono certo privi di problematiche. Nonostante il progresso raggiunto negli ultimi anni, questa regione soffre ancora il brutto sapore degli eventi spiacevoli degli anni novanta, quando la divisione nazionalista ed etnica ha sostituito le ideologie comuniste del passato.
Il livello della democrazia, lo stato dell'economia di mercato, la situazione politica e lo stato del diritto rimangono preoccupanti. Diversi dubbi sono stati sollevati per il fatto stesso che la democrazia in questi Paesi si sia evoluta più che altro in una guerra di potere tra i politici, creando un divario, forse insanabile, tra le élite e i cittadini.
Le nuove istituzioni della libera economia di mercato sono state compromesse dall’alto livello dell'economia informale e dall'ampliamento delle disparità economiche e sociali. La criminalità organizzata e la corruzione rimangono pesanti sfide da affrontare.
La povertà e l’alto tasso di dissoccupazione rimangono tra le questioni più cogenti per la popolazione. Anche se il reddito pro-capite è quasi raddoppiato negli ultimi due decenni, il livello medio regionale rimane basso: solo il 36% del reddito dei Paesi Ue. L’integrazione nell’Ue è considerata come lo strumento migliore per avvicinarsi economicamente agli altri Paesi occidentali.
La Croazia e poi? Le dichiarazioni scoraggianti su un prossimo allargamento dell'Ue verso i Balcani occidentali non mancano. Eppure, il sostegno europeo alla regione non è venuto meno. Infatti, nel 2014 la cancelliera Angela Merkel ha rinnovato la “Prospettiva europea” della Regione, con l'obiettivo di rafforzare la partnership con la Ue nell’intento generale di dare avvio a varie riforme.
Negli ultimi tempi la cosidetta "fatica d’allargamento" sta diventando parte integrante dei discorsi politici degli esponenti dei governi dei Balcani occidentali, utilizzata come una via di fuga per il mancato progresso, non facendo tuttavia cenno al fatto che ciò è dovuto principalmente alle mancate riforme e alle difficoltà strutturali dei candidati attuali incapaci di soddisfare i criteri di adesione. Il successo sarà determinato dall’impegno reale degli attori polici domestici. L’adesione della Croazia nel 2013 rimane un esempio positivo.
Nondimeno, l'invio di messaggi poco stimolanti da parte dell’Ue ai Balcani creerebbe una conseguenza non voluta, ovvero “l’affaticamento dalle riforme”. Ciò potrebbe favorire il regresso della Regione, politico e democratico, creando instabilità non solo nei Balcani, ma in tutta l’Europa. I cittadini potrebbero nel tempo perdere la speranza nel “Progetto europeo”. Si tratta, quindi, di una prova concreta di credibilità per tutta l’Unione europea.
Valbona Zeneli è professore di national security studies e direttore di Black Sea Eurasia Program presso il George C. Marshall European Center for Security Studies. Le opinioni espresse sono personali dell’autore e non rappresentano le opinioni del Department of Defense, the George C. Marshall European Center for Security Studies, o dei governi degli Stati Uniti o della Germania.
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