Meno di dodici mesi dopo la storica decisione di lasciare l'Ue,
i britannici torneranno alle urne per le elezioni generali anticipate,
convocate per il prossimo 8 giugno, in anticipo sui termini della
legislatura. Di fronte a opposizioni fragili e divise, con
questa decisione a sorpresa la premier Theresa May
punta a rafforzare la propria leadership sul Paese e sul
partito conservatore, e a ottenere un forte mandato
per negoziare con Bruxelles i termini della Brexit. E mentre,
in pieno clima G7 a presidenza italiana, il premier
Gentiloni va a Washington dal presidente Trump e a
Ottawa, si raccolgono i frutti dei primi incontri
ministeriali dei Grandi. L'energia non ha
prodotto grandi speranza, date le reticenze
degli Stati Uniti sulla lotta al cambiamento
climatico, ma l'Ue ha raggiunto uno storico
accordo per il gasdotto East Med,
che dal Mediterraneo orientale
raggiungerà l'Europa passando anche per l'Italia.
La Svezia, intanto, rinnova il comparto sicurezza
e reintroduce la leva obbligatoria per tutti: c'è il timore
della Russia dietro l'avvicinamento alla Nato?
La May cambia idea GB: voto anticipato causa Brexit David Ellwood 20/04/2017
|
|
|
La domanda se la pongono in tanti: dopo avere ripetutamente detto che mai e poi mai si sarebbe rivolta alle urne per avere una conferma della sua visione politica, perché la premier britannica Theresa May ha improvvisamente cambiato idea, portando il Paese a elezioni anticipate?
Nel dare l’annuncio formale della consultazione generale convocata per il prossimo 8 giugno, la May ha spiegato che era necessario un chiarimento definitivo, non sopportando più di essere ostacolata da varie forze di opposizione, anche dentro il suo stesso partito conservatore.
Molti hanno suggerito che la premier non resisteva più alla tentazione di approfittare della manifesta debolezza politica del partito laburista di Jeremy Corbyn per ottenere una maggioranza schiacciante in Parlamento e procedere così indisturbata per la sua strada.
Altri ancora hanno fatto notare che, mentre sulla Brexit la premierpuò contare sul sostegno di gran parte dei parlamentari Tories, su certi temi economici e sociali (tra cui le riforme della scuola, del sistema pensionistico e degli enti locali), l’attuale maggioranza assoluta di 17 seggi (comprensivi anche di 10 unionisti nordirlandesi) alla Camera dei Comuni non è affatto sufficiente per permetterle di imporre le sue politiche.
Un forte mandato per la Brexit Diversi commentatori hanno notato che un mandato rinnovato - e si presume rafforzato - permetterebbe a Theresa May di presentarsi ai negoziati sulla Brexit di prossima apertura con un capitale politico aumentato, e quindi in una posizione contrattuale più solida rispetto alla situazione attuale.
Ma con un ritorno alle urne fissato per il 2020 (tale era la prospettiva fino a due giorni fa), la parte finale del periodo di due anni previsto dall’articolo 50 del Trattato di Lisbona per la conclusione dei negoziati sull’uscita dall’Unione europea (Ue) sarebbe stata inevitabilmente condizionata dalla scadenza elettorale.
Con l’avvicinarsi del voto, infatti, la squadra negoziale britannica sarebbe stata potenzialmente sempre più ricattabile dagli interlocutori di Bruxelles. Ora, nessuno crede neanche per un istante che le trattative con l’Ue saranno concluse in un tempo così breve, ma chi si assumerà la responsabilità del loro prolungamento?
Scozia ai margini Chi comunque è stato preso in contropiede più di ogni altro protagonista della scena politica nazionale è stata Nicola Sturgeon, first minister di Edimburgo e leader del partito nazionalista scozzese (Snp). La sua insistenza quotidiana sulle priorità della Scozia, a partire da un secondo referendum per l’indipendenza, è stata brutalmente spinta ai margini dalla mossa dellaMay.
La Sturgeon ha ragione da vendere quando accusa la premier di ipocrisia e di doppiezza, ma c’è poco da fare: con 56 su 59 dei deputati scozzesi che siedono a Westminister appartenenti al Snp, per i nazionalisti sembra impossibile poter migliorare il risultato nelle urne dell’8 giugno; anzi, tutt’altro.
In generale, inoltre, la Scozia mostra segni sempre più evidenti di insofferenza per queste ondate continue di consultazioni elettorali: la prossima sarà la settima chiamata alle urne dal 2014 ad oggi. A nessuno sfugge che i risultati della gestione nazionalista dell’economia scozzese, e della cosa pubblica in generale, sono tutt’altro che brillanti, e che il martellamento sul chiodo fisso dell’indipendenza ha incontrato solo insofferenza e disprezzo a Londra.
Tuttavia, Nicola Sturgeon rimane l’unico personaggio politico in tutta la nazione britannica ad avere un solido seguito popolare, e può contare sull’estrema debolezza di tutti i suoi rivali nel Parlamento di Edimburgo. Il fatto, poi, che da anni è al potere a Westminster un partito capace di eleggere solo un deputato in Scozia (sui 59 seggi in palio) favorirà sempre chiunque rivendichi un distacco radicale da Londra.
Malcontento in Irlanda del Nord Se gli scozzesi hanno votato tanto, in Irlanda del Nord la situazione è persino peggiore: con l’8 giugno, gli elettori delle sei contee della provincia saranno stati chiamati alle urne tre volte in poco più di un anno, con una quarta elezione per il Parlamento locale più che possibile, dopo l’esito incerto del voto di marzo. Crollata l’intesa che faceva funzionare un governo composto da unionisti e repubblicani, nessuno ha trovato finora una via d’uscita dalla paralisi, e l’agonia si prolungherà per altri due mesi almeno.
Su una sola cosa i cinque partiti principali possono essere d’accordo: in questa circostanza particolare il governo di Londra li ha totalmente ignorati, e con loro ha voltato le spalle a tutta la popolazione della provincia. Come ha scritto il quotidiano più autorevole dell’Irlanda del Nord, il Belfast Telegraph, “la nostra gente è la più attiva politicamente e la meno rappresentata di tutti nell’intero arcipelago britannico”.
Vincitori e vinti del confronto politico Forse solo adesso i britannici cominciano a rendersi conto dell’immensità dello sconvolgimento messo in moto da quel gesto stizzito che è stato il voto a favore della Brexit. Senza il referendum spensieratamente voluto dall’allora premier David Cameron, niente di quello a cui si assiste in questi giorni sarebbe successo.
È altrettanto chiaro, poi, che la totale incapacità dell’opposizione laburista di Corbyn di condurre la campagna politica per rimanere nell’Ue ha reso possibile il successo della Brexit. Un fallimento da cui Corbyn stesso ha imparato poco o niente (al 20 aprile, il sito web del partito risultava aggiornato l’ultima volta 16 giorni prima).
Chi ha votato per la Brexit in nome della sacra sovranità del Parlamento di Westminster, dopo l’8 giugno si renderà con ogni probabilità conto che la suprema istanza della democrazia rappresentativa britannica conterà ancora meno di ora, e che la “dittatura elettiva” (espressione di un vecchio giurista e Lord degli anni ’60) di Downing Street regnerà incontrastata.
I parlamentari, quindi, si troveranno costretti ad accettare qualsiasi esito dei negoziati con l’Ue portati avanti da Theresa May. Toccherà a gruppi di pressione extra-parlamentari come Best for Britain e 38 Degrees, o think tank come il Center for European Reforme Demos, offrire qualche punto di riferimento politico e culturale alternativo al centralismo poco democratico che sembra l’esito più probabile per il Regno Unito dopo le elezioni anticipate di giugno.
David Ellwood, Johns Hopkins University, SAIS Bologna Center.
|
|
Nessun commento:
Posta un commento