ALBO D'ORO NAZIONALE DEI DECORATI ITALIANI E STRANIERI DAL 1792 AD OGGI - SITUAZIONE

Alla data del 31 MARZO 2023 sono stati inseriti in modo provvisorio:
Decorati individuali 3800
Decorati Collettivi 162

Lo Stemma della Associazione Seniores dello IASD

Associazione Seniores dello IASD: il blog

Il Blog della Associazione Seniores dello IASD è:
www. associazionesenioresiasd.blogspot.com

per ogni contatto: senioresiasd@libero.it

Traduzione

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

This blog is written in Italian, a language base. Those who wish to translate into another language, may use the opportunity of the function of "Translation", which is reported in the pages.

Translate

Palazzo Salviati. La Storia

chi avesse note, notizie, documenti e indicazioni riguardante Palazzo Salviati è pregato di inviarlo all'indirizzo e mail quaderni.cesvam@istitutonastroazzurro.org



Cerca nel blog

lunedì 19 luglio 2010

AMMAESTRAMENTI DELLA BATTAGLIA DI CANNE

SITUAZIONE GENERALE

Al termine della prima guerra punica (264 – 241 a.C.), i confini della zona controllata da Roma coincidevano all’incirca con quelli dell’Italia attuale, tranne la Sardegna e il Trentino Alto Adige. La guerra appena conclusa si era combattuta in Sicilia, in Africa e nel mar Mediterraneo. I romani si erano impadroniti della Sicilia, avevano conquistato la superiorità navale e avevano imposto dure condizioni di pace ai cartaginesi, tra cui onerosi danni di guerra da pagarsi in argento (3.200 lingotti da 25 chili, detti “talenti”) e lo smantellamento pressoché completo della flotta da guerra.
La crisi economica a Cartagine al termine del conflitto era tanto grave che non potendo pagare il soldo arretrato ai mercenari la città dovette fronteggiare una rivolta armata di questi ultimi. Roma ne approfittò e si impadronì della Sardegna che annetté come provincia, i cartaginesi non avendo al momento la forza di reagire, incassarono mestamente il colpo e dedicarono le proprie energie a sedare la rivolta. Amilcare Barca, il più capace ed esperto Generale cartaginese, dopo aver avuto finalmente ragione dei mercenari, propose alla riottosa oligarchia cartaginese di rinunciare ai propri propositi di espandersi in Africa e di rivolgersi piuttosto alla Spagna, i cui giacimenti d’argento avrebbero consentito di pagare i danni di guerra ai romani senza gravare oltremodo sulla stremata economia punica. Ottenuto il consenso del senato ai propri propositi, costui armò un esercito e nel 237 a.C. si spostò in Spagna a Cadice, una base cartaginese, da cui cominciò la conquista della penisola. Con sé Amilcare aveva portato il figlio Annibale, che all’epoca aveva solo nove anni, secondo Polibio [1] il bimbo giurò al padre sull’altare del Dio Baal eterno odio ai romani, questa era la condizione imposta dal genitore per assentire alla sua partecipazione alla spedizione.
Amilcare, approfittando della divisione dei popoli autoctoni della penisola iberica riuscì ad allargare velocemente la sfera di influenza punica, i romani ne furono allarmati e nel 231 a.C. inviarono una delegazione diplomatica a Cartagine, al fine di chiarire le intenzioni dalla città rivale. I cartaginesi riuscirono a persuadere i capitolini delle loro migliori intenzioni di onorare il debito di guerra con Roma utilizzando le risorse minerarie spagnole e furono liberi di proseguire la loro campagna indisturbati. Nel 229 a.C. Amilcare morì affogato guadando un fiume, essendo Annibale troppo giovane, il comando passò a Asdrubale il Bello, marito della sorella di Annibale, che proseguì l’opera iniziata da suo suocero, finché non finì per attirare l’attenzione dei romani, che nel 226 a.C. inviarono una nuova delegazione a chiarire la situazione. In esito agli incontri diplomatici fu stipulato un accordo tra Roma e Cartagine: Roma avrebbe avuto una zona di influenza in Spagna a Nord del fiume Ebro, i Cartaginesi a Sud. Per i romani questa soluzione garantiva la protezione della città di Marsiglia, alleata di Roma, ma lasciava in zona di influenza punica Sagunto, amica di Roma. Il problema tuttavia non si pose immediatamente, intanto nel 221 a.C. Asdrubale il bello fu ucciso in una sedizione e l’esercito cartaginese nominò suo nuovo comandante il venticinquenne Annibale Barca ormai divenuto un esperto generale.
Nel 220 a.C. alcuni alleati dei cartaginesi iniziarono una contesa con i saguntini, Annibale venne in soccorso delle popolazioni amiche, ponendo l’assedio a Sagunto. I romani di rimando inviarono una ambasceria guidata dal senatore Quinto Fabio Massimo, un accorto stratega, per porre un ultimatum ai cartaginesi, che venne tuttavia reso inutile dal precipitare degli eventi: Annibale marciava già verso i territori romani, reclutando ampie formazioni di fanteria mercenaria celtibera, lusitana, e gallica. Il generale cartaginese aveva intenzione di giocare la partita contro i romani sul loro territorio, devastando l’Italia e minando il sistema di alleanze capitolino. In particolare Annibale partendo nel 218 a.C. da Cartagena evitò il tardivo esercito romano di soccorso per Sagunto (che intanto era caduta), lasciò un contingente di presidio al fratello Asdrubale, valicò le Alpi infestate di tribù montanare ostili e giunse nella Pianura Padana con 6.000 cavalieri e 30.000 fanti.
Il primo scontro con i romani fu al fiume Ticino e si risolse a favore di Annibale. Il console romano Scipione quasi rimase ucciso nei combattimenti se non fosse stato per l’intervento del giovane figlio, (che sarebbe in seguito stato chiamato “l’Africano”). I romani di Scipione si fortificarono a Piacenza e quando giunse l’esercito dell’altro console in carica, Tiberio Sempronio, si risolsero ad affrontare nuovamente i cartaginesi al fiume Trebbia con due eserciti consolari, pari a 8 legioni (4 romane e 4 alleate), ma anche stavolta i cartaginesi prevalsero. A questo punto i romani si ritirarono nuovamente a Piacenza per riorganizzarsi rompendo il contatto con Annibale.
I cartaginesi riuscirono a valicare occultamente gli Appennini a Passo Collina verso Pistoia[2], nella primavera dl 217 a.C. e si diressero verso l’Etruria. I consoli in carica nell’anno erano Caio Flaminio e Gneo Sulpicio. Nel mese di giugno Caio Flaminio, nell’intento di difendere l’Etruria si mosse con il grosso delle truppe di fanteria legionaria dei due eserciti consolari riuniti verso il Trasimeno, a distanza rimaneva Gneo Sulpicio con la cavalleria. Annibale sorprese i romani in marcia di trasferimento e circondatoli tra il lago e le truppe puniche nascoste sulle adiacenti colline ne fece strage, caddero 12.000 romani e lo stesso console Caio Flaminio. L’impressione della sconfitta a Roma fu grande, il Senato si affrettò a nominare l’aristocratico Quinto Fabio Massimo dittatore[3], costui appartenente ad una famiglia di grandi tradizioni militari, era deciso a fiaccare i cartaginesi con una accorta strategia di logoramento, sfruttando la lontananza delle basi cartaginesi dalle truppe di Annibale. Proprio il problema logistico spinse in effetti il generale cartaginese ad evitare di assediare Roma e a rivolgersi al saccheggio della fertile Campania. Quinto Fabio Massimo per proteggere l’urbe fece fortificare la strettoia dell’Appia a Terracina[4] e si mosse in modo occulto con un contingente fino Capua per prendere alle spalle i cartaginesi e bloccarli in Campania tra i monti che circondavano la colonia romana di Cales (Calvi) e il fiume Volturno.
Annibale si rese conto del pericolo e decise di sottrarsi alla morsa con uno stratagemma, fece legare durante la notte alle corna di migliaia dei bufali africani che aveva al seguito delle torce accese e li fece sospingere verso i romani, mentre tutto il suo esercito alleggerito delle salmerie sfilava occultamente dal cerchio che i capitolini stavano per chiudere. Quando i romani al mattino si disposero in ordine di combattimento si trovarono di fronte migliaia di bufali e frustrati dall’inganno provvidero a catturarli e distribuirli come riparazione ai coloni romani che avevano subito il saccheggio dei cartaginesi.


SITUAZIONE PARTICOLARE E PROCEDIMENTI TATTICI

Annibale, sprovvisto a questo punto di adeguate salmerie e tallonato dai romani, decise di muovere verso la Puglia lungo l’Appia in direzione della città di Lucera al fine di raggiungere dei grossi depositi di cereali situati nella prossimità dell’abitato di Canne. L’esercito cartaginese (50.000 uomini circa) era afflitto da discordie tra i mercenari, che non essendo stati pagati minacciavano la rivolta, di fronte a questo rischio di implosione del proprio esercito, Annibale era indeciso se fuggire con la cavalleria in Spagna lasciando la fanteria al proprio destino o liquidare con un colpo di mano tutti i mercenari.
Dal canto proprio il Senato, rincuorato dalla manovra di sganciamento di Annibale, che si andava allontanando da Roma, decise di non rinnovare la dittatura di Quinto Fabio Massimo, che era ritenuto troppo prudente, questi pertanto a marzo del 216 a.C. decadde dalla carica. La nuova strategia del senato fu di radunare i due eserciti consolari reclutati nel 217 con i due eserciti consolari appena reclutati del 216 a.C. mettendo insieme per la prima volta nella storia di Roma 4 eserciti consolari, una armata di 16 legioni (8 romane e 8 alleate) per un totale di 85.000 uomini. I due consoli designati per il 216 a. C. furono l’aristocratico Emilio Paolo e il popolare Terenzio Varrone[5], che riunirono i loro eserciti con quelli dei colleghi Gneo Sulpicio (il console sopravvissuto al Trasimeno) e Marco Minucio ex comandante dell’arma di cavalleria eletto in sostituzione del defunto Caio Flaminio. Emilio Paolo, discepolo di Quinto Fabio Massimo era contrario ad ingaggiare una battaglia campale con i cartaginesi, mentre il collega Varrone desiderava eseguire immediatamente l’ordine del Senato di annientare l’esercito di Annibale in uno scontro decisivo.
Anche Annibale, angosciato dal rischio di una rivolta dei mercenari aveva fretta di arrivare ad uno scontro prima che il proprio esercito multinazionale finisse per sfaldarsi. Seppure se in inferiorità numerica ed eterogenea, l’armata punica aveva sui romani il vantaggio dell’unicità di comando, i generali cartaginesi erano infatti quasi tutti membri della famiglia Barca, Asdrubale e Magone erano fratelli di Annibale, Annone ne era il nipote e Maarbale un fraterno amico e compagno d’armi. Le truppe cartaginesi di fanteria erano composte da opliti pesanti cartaginesi, (le fanterie più solide), ausiliari africani ed iberici (truppe flessibili e veloci), fanteria leggera numida (schermigliatori armati di giavellotti corrispondenti ai veliti romani), frombolieri delle Baleari (lanciatori di sassi molto efficaci e precisi) e un cospicuo numero di mercenari celti di varie origini (per lo più celtiberi, lusitani, galli, liguri e veneti). I mercenari celti avevano una tecnica di combattimento d’urto efficace in episodi brevi e molto intensi, in gruppi molto densi e aggressivi tentavano uno sfondamento della linea nemica[6], che se falliva si tramutava inevitabilmente in una rotta disordinata.
Per questa ragione lo schieramento classico dell’età antica era organizzato su più linee, le meno pesanti e affidabili davanti e quelle più solide e affidabili più indietro, per esempio in quest’ordine: fanteria leggera e frombolieri sulla fronte, poi mercenari e ausiliari nel mezzo , fanteria oplitica e veterani sul fondo dello schieramento. Il ruolo della cavalleria era normalmente quello di proteggere i fianchi della fanteria ingaggiando la controparte avversaria e di inseguire il nemico in rotta. A Canne Annibale disponeva di una formazione di cavalleria pesante iberica e celtica (da sfondamento) molto superiore a quella romana e di numerosi cavalieri leggeri numidi (da accompagnamento e schermaglia), la soluzione classica sarebbe stata di costituire due ali composte sia da aliquote pesanti che leggere. Tuttavia in questa situazione contingente Annibale si trovava a fronteggiare un numero quasi doppio di romani pertanto per coprire tutta la fronte fu portato a cercare soluzioni tattiche alternative e rivoluzionarie che già il padre Amilcare aveva con successo testato contro le falangi di Pirro in Sicilia intorno al 280 a.C., (prima della prima guerra punica, quando Cartagine era ancora amica e alleata di Roma). Annibale si risolse pertanto a schierare il suo esercito in una unica linea con le truppe più flessibili al centro e quelle più solide sui lati e a tentare una inedita manovra di cessione preordinata di terreno al centro del proprio schieramento (a cura dei mercenari). Ciò al fine triplice di avvolgere le legioni romane, incanalarle per scompaginarne l’allineamento e infine ridurre gli spazi necessari alla rotazione dei manipoli (che costituiva l’espediente tattico vincente dei capitolini) per l’effetto provocato dalla pressione convergente dei romani al centro della linea cartaginese nel tentativo di spezzarne la continuità.
La legione romana tipo che prese parte alla battaglia di Canne era del tipo “manipolare” o “polibiana” dal nome dello storico greco che la descrisse, ed era composta da 4 linee ognuna articolata su 10 manipoli per un totale di 4.200 legionari e 300 cavalieri [7].
La prima linea, era costituita dai citati veliti, la fanteria leggera, un manipolo di veliti era composto da 120 uomini armati di scudo tondo e giavellotto, il ruolo dei veliti era quello di nascondere l’articolazione delle linee posteriori, provocare battaglia e fornire auspici sull’andamento futuro del combattimento.
La seconda linea era costituita dagli hastati, i legionari più giovani, che costituivano una linea di fanteria media, il manipolo di hastati era composto da 120 legionari armati di scudo ovale, pettorale di bronzo, elmo, giavellotti e gladio.
La terza linea era costituita dai princeps, legionari di media età, che costituivano una linea di fanteria media, con equipaggiamento simile o poco più pesante di quello degli hastati, il manipolo degli princeps era composto da 120 legionari.
L’ultima linea era composta dai triari, legionari anziani e veterani, che costituivano la linea di fanteria pesante, i manipoli di triari erano composti di soli 60 uomini, e l’equipaggiamento differiva per la foggia dell’elmo di tipo greco, lunghe lance in funzione di contrasto alle cariche di cavalleria e una corazza di maglia.
La manovra della legione manipolare prevedeva una formazione a scacchiera, i veliti trafilavano a comando negli spazi delle diverse linee e si ponevano sul tergo dei triari, i manipoli di hastati si dividevano in due aliquote ognuno e formavano una linea continua di legione, occupando i corridoi attraverso cui erano trafilati i veliti. A questo punto avveniva il contatto con il nemico. I legionari dopo alcuni minuti di combattimento venivano avvicendati dai colleghi nelle file posteriori dello stesso manipolo con una manovra detta “mutatio” al fine di anteporre al nemico sempre soldati freschi. Nelle battaglie antiche fisiologicamente, per la stanchezza, dopo alcune decine di minuti veniva rotto il contatto tra le opposte linee, durante queste pause, a comando, i romani effettuavano la rotazione dei manipoli degli hastati, che si raggruppavano riformando i corridoi e si avvicendavano con i manipoli di princeps retrostanti, replicando in grande la “mutatio” tra le diverse linee della legione.[8]
In taluni casi, soprattutto di fronte al pericolo di cariche di cavalleria particolarmente dense e pesanti la legione dopo il trafilamento dei veliti, poteva semplicemente far avanzare i manipoli dei princeps tra i manipoli degli hastati riproponendo una formazione particolarmente profonda che ricordava la precedente legione “falangitica”, che tuttavia era troppo rigida e che non consentiva il funzionamento del sistema di rotazione che costituiva la forza delle legioni manipolari. La rotazione era un momento delicato per la legione e veniva ordinato dai comandanti tramite le buccine, delle tube bronzee che davano l’incipit alla manovra, che, come detto, non era possibile se non venivano rispettati gli spazi tra i manipoli.
La cavalleria romana di una legione era di solo 300 cavalieri, divisi in due unità di 150 cavalieri ciascuna, il ruolo della cavalleria era di mera protezione dei fianchi della legione e di inseguimento del nemico in rotta.
2 legioni romane e 2 legioni alleate (italiche, dette ali) costituivano un esercito consolare, i consoli contribuivano di tasca loro all’equipaggiamento delle legioni che reclutavano, pertanto esisteva un legame diretto e personale tra il console e le legioni, a Canne come citato c’erano 4 eserciti consolari e i loro comandanti, i consoli, volevano ovviamente una parte della gloria partecipando in prima fila nello scontro decisivo. Per queste ragioni a Canne si giunse al paradosso dello schieramento romano, si scelse di schierare le legioni di fronte non nel modo consueto, 10 manipoli per linea, ma con soli 3 manipoli di fronte, rendendole molto profonde, in modo che ognuna delle 16 legioni avesse le proprie insegne in faccia al nemico[9]. Questa scelta fu fatale, perché l’ordine di rotazione con le tube veniva lanciato contemporaneamente da tutte le legioni provocando un prevedibilissimo caos e gravi problemi di sincronia. Un disallineamento tra legioni avrebbe potuto creare pericolosi varchi o la riduzione dei corridoi di mobilità, come effettivamente avvenne, trasformando la più grande macchina militare mai messa insieme dai romani in una falange informe di 55.000 legionari disorientati e incapaci di contro manovrare. Gli eserciti consolari riuniti schierati in modo classico (8 legioni in primo scaglione e 8 in secondo scaglione), avrebbero coperto una fronte doppia a quella dell’esercito di Annibale disposto in una unica linea. Forse i romani cedettero che questo inedito tipo di formazione avrebbe compensato la mancanza dei addestramento delle legioni appena reclutate, fatto sta che non essendo mai stato provata prima non se ne potevano conoscere gli effetti. Proprio di fronte al genio di Annibale i romani tentarono una improvvida innovazione che si ritorse a loro svantaggio.[10]
Il 2 agosto 216 a.C. era il giorno in cui ricadeva il turno di comando di Varrone, venne da questi dato l’ordine di schieramento per la battaglia e all’alba i legionari cominciarono a lasciare gli accampamenti. I romani si trovarono presto in difficoltà a causa del vento incanalato al mattino nella valle del fiume Ofanto che era loro contrario e per la polvere sollevata da una tale massa di persone in marcia che limitava la visibilità, inoltre la calura di agosto cominciava a farsi sentire aggravando il disagio di dover trasportare una ventina di chili di equipaggiamento. La medesima calura disturbava anche i celti e meno le fanterie africane, più abituate al sole cocente.
Il console Emilio Paolo assunse il comando della cavalleria romana (2.400) sulla destra dello schieramento, trovando posto di fronte alla soverchiante cavalleria pesante cartaginese (6.500) tutta concentrata al comando del Generale Asdrubale, nel mezzo tra l’enorme massa delle legioni e il fiume Ofanto. Alle spalle dei cavalieri romani il fiume formava una pericolosa ansa che in sistema con l’accampamento romano costituiva una vera e propria barriera.
Il console Varrone assunse il comando della cavalleria alleata (3.600), che venne a trovarsi a sinistra delle legioni di fronte alla cavalleria numida (3.500), posta al comando di Annone.
I vice consoli Marco Minucio e Gneo Servilio, con le loro legioni più anziane si misero al centro della formazione romana. Di fronte a loro, oltre la linea dei veliti e quella contrapposta della fanteria leggera numida, al centro, erano i mercenari celti di Annibale in linea convessa, ai loro lati, sia a destra che a sinistra le fanterie iberiche. Il centro cartaginese era sotto il comando diretto di Annibale e di Magone, che dovevano coordinare la manovra di cessione preordinata di terreno da parte dei mercenari senza che questi si volgessero ad una rotta incontrollata. Oltre le fanterie iberiche a destra, come a sinistra, trovavano posto le fanterie pesante oplitiche cartaginesi, i veri perni della manovra. Oltre gli opliti, l’estremità della formazione di fanteria da entrambi i lati era rappresentata da due ali fanteria ausiliaria africana, il cui compito era quello di manovrare per prendere le legioni sui fianchi.

LA BATTAGLIA

1^ fase: All’ordine di avanzare delle legioni, i veliti ingaggiano la fanteria leggera numida, le opposte cavallerie si scontrano. La cavalleria pesante punica travolge la cavalleria romana di Emilio Paolo, che trova rifugio tra le legioni, la cavalleria romana viene inseguita e schiacciata tra la menzionata ansa del fiume Ofanto e l’accampamento romano e annientata. Alla sinistra delle legioni, Varrone con la cavalleria alleata ingaggia lo scontro con l’opposta cavalleria leggera numida. I veliti si disingaggiano e trafilarono tra le linee delle legioni, la medesima manovra è compiuta dalla fanteria numida.
2^fase: Le legioni impattano contro il vertice della formazione convessa dei mercenari respingendola progressivamente e schiacciandola fino a renderla prima una linea retta e poi a renderla concava, così facendo tuttavia le legioni formano un cuneo scomposto che fa saltare gli allineamenti e ridurre la larghezza dei corridoi di mobilità. L’ordine non fu strettamente preservato a causa dell’illusione di essere ormai sul punto di rompere l’ordine nemico e la continuità della sua linea. La cavalleria pesante di Asdrubale, ultimato l’annientamento della cavalleria romana avvolge la formazione delle legioni e carica la cavalleria alleata di Varrone all’estremità opposta del capo di battaglia volgendola in fuga unitamente alla cavalleria leggera numida.
3^ fase : Le legioni centrali sfondano il centro cartaginese, trafilano in parte inseguendo i mercenari. La cavalleria pesante carica alle spalle i veliti sul tergo delle legioni. Le colonne di fanteria ausiliaria africana avanzano manovrano e attaccano i fianchi delle legioni.
4^ fase : Il cerchio intorno alle legioni si richiude e inizia il massacro dei legionari, che pressati gli uni agli altri, accecati dalla polvere, spossati dal sole e disorientati non riescono a riprendere l’iniziativa. I romani riusciti a forzare la linea cartaginese trovano rifugio negli accampamenti, Varrone si ritira e Venosa con i resti della cavalleria. I romani lasciano sul campo il console Emilio Paolo, il vice console Gneo Sulpicio, e 45.000 legionari, in poche parole è possibile affermare che quasi la metà delle truppe capitoline furono annientate in un colpo solo[11]. Per dare dimensione dell’evento si tenga presente che all’epoca l’Italia era abitata da circa 7.000.000 di persone contro i quasi 60.000.000 di oggi e che, per assistere ad un massacro simile in un giorno solo nel vecchio continente, si dovrà attendere l’offensiva della Somme del 1916 sul fronte francese, più di 2.100 anni più tardi.

CONCLUSIONI

Per secoli la battaglia di Canne è stata considerata l’esempio più rappresentativo del primato del genio militare sulla soverchiante forza bruta. Tuttavia Annibale non sfruttò il successo avanzando su Roma, dando così il tempo ai tenaci capitolini di riformare nuovi eserciti consolari, per fattori tangibili e intangibili quali la maggiore vicinanza delle loro aree di reclutamento e la maggiore percezione di urgenza a cui erano sottoposti rispetto ai “cives” cartaginesi per il timore dell’annientamento incombente. La strategia di Quinto Fabio Massimo quindi venne ripresa e la minaccia venne portata dalle legioni di Scipione l’Africano direttamente sul territorio africano, costringendo il senato cartaginese a richiamare Annibale dall’Italia, fino all’ annientamento dei cartaginesi a Zama (202 a.C.).
Comprendere la battaglia di Canne significa, anche ai giorni nostri, comprendere e riconoscere l’importanza dei principi fondanti dell’arte militare, quali l’unicità di comando, l’armonia e il ritmo della manovra, l’economia delle forze, il corretto sfruttamento della dimensione spaziale e temporale, nonché la conoscenza delle caratteristiche del nemico e del terreno di scontro. Per citare il Generale Mini in una sua recente conferenza allo IASD, i romani non si resero conto che un numero eccessivo di soldati in una formazione così compatta avrebbe trasformato formazioni nate per essere snelle e manovriere quali le legioni in una massa confusa e ingovernabile, realizzando un “eccesso di potenza”, tale da farle collassare sotto il loro stesso peso.

Carlo PASQUI

[1] Polibio, “Le Storie”, III libro, capitolo 11.
[2] Andrea Frediani, “Le grandi battaglie di Roma antica”, Newton and Compton, Roma 2002.
[3] La carica durava sei mesi.
[4] Per la fretta i legionari romani costruirono la fortezza nei pressi del tempio di Giove Anxur con sassi non squadrati e malta, fu questo il primo esempio di opus incertus nella storia dell’architettura romana.
[5] Le leggi Sestie del 367 a.C. prevedevano che i consoli fossero uno aristocratico e uno popolare per questioni di bilanciamento di poteri tra patrizi e plebei e che comandassero a giorni alterni. Spesso costoro erano in disaccordo, tendenzialmente i consoli di estrazione popolare erano più aggressivi e meno preparati militarmente. I consoli dell’anno precedente, decaduti dalla carica, fungevano da vice consoli a quelli dell’anno in corso.
[6] Nelle battaglie antiche la rottura del fronte era considerato un evento catastrofico, chi la subiva normalmente era considerato sconfitto e abbandonava il campo.
[7] Adrian Goldsworthy, “Storia completa dell’Esercito Romano”, edizioni logos, Modena 2004.
[8] Edoardo Scala, Storia delle fanterie italiane, volume I, “Le fanterie di Roma”, Ufficio Storico, Roma 1950.
[9] Gregory Daly, “La battaglia di Canne”, Le Guerre, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2008.
[10] Massimo Bocchiola e Marco Sartori, “Canne, descrizione di una battaglia”, Scie Mondatori, Milano 2008.
[11] L’intera armata romana assommava, prima di Canne, a 20 legioni romane e 20 alleate di cui molte incomplete e a bassa prontezza, divise tra la Sicilia, la Spagna e la guarnigione di Roma.

Nessun commento: