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venerdì 27 aprile 2012

Italia. Le politiche del governo per favorire l'integrazione delle comunita islamiche:l'istituzione della Consulta per l'Islam italiano

Maurilia Bove[1]
Sommario
Il fenomeno immigratorio, ormai radicato anche nel nostro Paese, sta rendendo sempre più attuale e pressante la questione dell’integrazione delle popolazioni allogene nella nostra società.
Quello che accade oggi in Italia si è già verificato in altri Paesi europei di più antica tradizione immigratoria e gli effetti negativi di politiche per l’integrazione squilibrate o poco attente al fenomeno, sono sotto gli occhi di tutti in termini di aumento della violenza, di emarginazione sociale e culturale, di radicalizzazione politica e religiosa.
Le istituzioni governative italiane, anche alla luce di tali esperienze, stanno progettando politiche di integrazione innovative che si preoccupino di includere nella nostra società gli immigrati senza pretendere la rinuncia alla loro identità culturale e religiosa sempre, però, nel rispetto dei nostri valori democratici e delle nostre leggi.
Si tratta, quindi, di andare oltre la cultura giuridico-occidentale che tutela il “diritto all’uguaglianza” e di adottare un modello funzionale di politiche per l’integrazione che garantisca anche “il diritto alla differenza”; questo nuovo modello è adeguato, in particolare, a risolvere i problemi di integrazione della comunità musulmana presente sul nostro territorio, la più fortemente caratterizzata e distante dalla nostra cultura e dai nostri ordinamenti.
Tale comunità merita particolare attenzione sia perché, quantitativamente, è il secondo gruppo all’interno della popolazione immigrata (circa il 35%), sia per i problemi creati dalle minoranze di religione islamica nel tessuto sociale e culturale italiano.
Invero tra il sistema di vita dei Paesi occidentali e quello dei Paesi di origine dell’immigrazione musulmana esistono notevoli e profonde differenze che rendono particolarmente difficile l’integrazione: la laicità dello Stato, l’autonomia tra Stato e religione e tra legge morale e legge civile, l’uguaglianza tra uomini e donne, fondamenti dei nostri ordinamenti giuridici, non sono concetti scontati in ambito musulmano e da qui nascono molti problemi di compatibilità tra Occidente democratico e civiltà islamica.
Nell’ambito della nostra società la percezione di tali innegabili diversità si è acuita dopo gli efferati attentati terroristici  degli ultimi anni, generando sia un forte e diffuso pregiudizio, sia la paura per la perdita della propria identità e della propria sicurezza.
In tale situazione è facile che si inneschino processi di frustrazione e di marginalizzazione degli immigrati musulmani, con il rischio che il disagio sociale trovi sollievo pratico e nutrimento ideologico in esponenti del mondo radicale islamico.
Pertanto, considerate le ricadute in termini di sicurezza e criminalità, l’integrazione delle popolazioni immigrate musulmane è diventata un obiettivo primario del Governo che, senza esitare ad usare, se necessario, l’arma del contrasto e della repressione nei confronti dei violenti e dei terroristi, ha determinato di aprirsi solidarmente e dialogare con i musulmani pacifici venuti in Italia solo per lavorare onestamente.
L’orientamento di fondo del Governo nei confronti dell’Islam è, dunque, quello della politica delle due mani: una tesa verso gli islamici moderati, l’altra armata contro i terroristi.
L’azione del Governo sul fronte della “mano tesa” si è sostanziata in primo luogo nella regolamentazione del soggiorno che, creando un’equivalenza tra ingresso nel territorio dello Stato e lavoro legale, ha permesso l’emersione dalla clandestinità di circa 700.000 immigrati irregolari.
E’ stato, poi, istituito “l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali” (UNAR) ed è stato dato impulso a organismi diffusi a livello provinciale quali i “Consigli Territoriali per l’Immigrazione” individuati come base di partecipazione e rappresentanza degli immigrati nel territorio.
Nella consapevolezza che un’integrazione sociale, sostanziale e non solo formale, non può prescindere dal riconoscimento del diritto all’esercizio del proprio culto è stato presentato in Parlamento il disegno di legge sulla libertà religiosa destinato alle confessioni religiose prive dell’intesa prevista dall’articolo 8 della Costituzione, e quindi diretto, in particolar modo, alle comunità islamiche.
E’ stato, soprattutto, sostenuto e favorito il dialogo culturale e interreligioso come “strumento di coesione sociale” in grado di isolare e combattere il fanatismo religioso.
Tale dialogo ha prodotto, durante il semestre di presidenza italiane della UE, la “Dichiarazione europea sul dialogo interreligioso e sulla coesione sociale”.
In Italia si è operato analogamente attraverso le Prefetture che hanno ormai incluso la promozione dei gruppi per il dialogo interreligioso nel più ampio ambito delle attività volte a favorire la coesione sociale.
Sulla via italiana all’integrazione l’iniziativa più innovativa, assunta dal Ministro dell’Interno il 10 settembre 2005, è stata l’istituzione della “Consulta per l’Islam italiano” un organo collegiale che svolgerà funzioni esclusivamente consultive esprimendo pareri e formulando proposte sulle questioni, indicate dal Ministro, inerenti l’interazione con le comunità islamiche.
Sono componenti della Consulta 16 personalità di cultura e religione islamica, di accertata affidabilità, che non hanno alcuna pretesa di rappresentatività, in quanto in Italia la comunità musulmana è ancora troppo giovane e multiforme per arrivare a nominare propri rappresentanti attraverso democratiche elezioni.
A queste personalità verranno chiesti pareri e orientamenti su di una serie di questioni di notevole rilevanza quali la scuola, l’assistenza religiosa nelle carceri e negli ospedali, la formazione degli imam ecc., ai fini non dell’assimilazione ma di un “possibile” inserimento nella nostra società degli immigrati islamici.
Con l’istituzione della Consulta si è compiuto un altro passo verso quelle politiche di integrazione che tendono a formare un “islam italiano”, non dunque, un “islam in Italia” cioè una collettività chiusa in se stessa che non si sente vincolata dalle leggi dello Stato, bensì una comunità di immigrati regolari che parlano l’italiano, che conoscono i nostri ordinamenti, salvaguardata nella propria identità, anche religiosa, ma rispettosa dei nostri valori e delle nostre leggi, che nasce e si sviluppa nell’ambito del nostro Stato di diritto.
La sfida, dunque, del “modello italiano” di integrazione consiste, anche grazie all’ausilio di organismi quali la Consulta, nella capacità di saper creare una cornice istituzionale in grado di tutelare l’identità, la cultura e gli ordinamenti della nostra società e, nel contempo, di riconoscere le peculiarità degli immigrati islamici ponendo in essere politiche di convivenza ed inclusione basate su valori condivisi, in grado di contenere tutte le differenze, anche religiose, sempre nel rispetto delle nostre leggi e della nostra Costituzione.


Introduzione


In Italia il fenomeno migratorio, relativamente recente rispetto ad altri Paesi europei di più consolidata immigrazione, è stato in un primo tempo guardato con scarsa attenzione e solo all’inizio degli anni ’90, quando il fenomeno ha cominciato ad assumere una rilevanza quantitativa ragguardevole, l’attenzione si è focalizzata e sono sorti i primi problemi di integrazione che hanno riguardato, in particolare, la comunità islamica, la più peculiare e culturalmente distante rispetto alla nostra società e ai nostri ordinamenti.

All’indomani degli efferati atti terroristici dell’11 settembre 2001, la percezione dell’immigrazione islamica come di un fenomeno negativo e deleterio per la nostra società è attecchita in larghi strati della popolazione, causando notevoli disarmonie nella società nazionale.

Si è fatto quindi concreto il pericolo che il rapporto tra italiani e immigrati islamici sia falsato dal pregiudizio che vede nella comunità musulmana esclusivamente una minaccia e non, invece, un’opportunità da cogliere per il benessere del Paese.

Al riguardo si deve, infatti, rilevare che in Italia sta crescendo in modo esponenziale il bisogno demografico di immigrati, i Paesi europei sono tra i più vecchi al mondo e, tra questi, il primo posto spetta proprio al nostro dove negli ultimi decenni vi è stato il crollo della natalità e, conseguentemente, della popolazione in età lavorativa, con pesanti e negative ripercussioni sul sistema pensionistico e su quello sanitario.[2]

In tale consapevolezza il Governo ha posto attenzione tanto alla problematica dell’accettazione della componente musulmana nella nostra società ospitante, quanto al problema di una “possibile” integrazione di tale importante comunità  ricercando forme di pacifica convivenza che consentano ai musulmani di professare le proprie convinzioni religiose e di salvaguardare la propria identità sempre, però, nel rispetto dei nostri valori, delle nostre leggi e della nostra Costituzione.

In questo lavoro ci si propone di esaminare quali siano le istanze e le questioni poste dalla comunità islamica presente sul territorio e le strade e gli elementi presi in considerazione dal Governo per portare avanti valide politiche di integrazione.

Le Politiche di Integrazione del Governo


    a) L’immigrazione regolare ed irregolare

L’immigrazione in Italia, negli ultimi trent’anni, è cresciuta in modo esponenziale passando da meno di 100.000 presenze, registrate nel 1970, a più di due milioni nel 2004, pari al 4% della popolazione residente in Italia se si tiene conto dei minori registrati sul permesso dei genitori ma non contati separatamente, pertanto, si può affermare che attualmente la presenza straniera nel nostro Paese non è radicalmente diversa da quella del resto dell’Europa, come poteva essere ancora dieci anni fa, in effetti il 4% italiano si confronta ora con il 5,2% di media europea del 2000.

 I dati annuali più significativi si possono così riassumere:

-1970 meno di centomila

-1987 oltre mezzo milione

-1997 oltre il milione

-2002 oltre il milione e mezzo

-2004 oltre i due milioni (2.193.999 il numero dei permessi di soggiorno al 31/12/2003)[3]

Ci si accorge che il fenomeno migratorio è diventato di massa a partire dagli anni ’90 quando si assiste al raddoppio dei soggiornanti che passano dai 649.000 del 1991 a 1.341.000 del 2000. e, conseguentemente, si rilevano i fattori che influiscono maggiormente sull’incremento degli immigrati in Italia che possono essere individuati nella sua collocazione geografica, con confini molto estesi che risentono della forte pressione migratoria sia del continente africano e che di quello asiatico, e nella previsione delle c.d. regolarizzazioni degli immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno ma già inseriti nell’area del lavoro nero.

In particolare la presenza straniera in Italia è stata modificata proprio dagli ultimi provvedimenti di regolarizzazione, intervenuti nel 2002, che hanno permesso l’emersione del sommerso di centinaia di migliaia di lavoratori.

L’immigrazione divenuta, dunque, un fenomeno radicato nella nostra società, si caratterizza: per il ritmo in continuo aumento, per cui si stima che la popolazione immigrata avrà, nei prossimi 20-30 anni, un’incidenza sui residenti compresa tra il 10% ed il 16%; per la normalizzazione dal punto di vista demografico con sostanziale equivalenza numerica dei due sessi; per la distribuzione degli immigrati su tutto il territorio con una prevalenza per il Nord dove risiedono il 60% delle presenze straniere, mentre al Centro risiedono il 30% e al Sud poco più del 10%.

Dal punto di vista del mercato occupazionale l’immigrazione è caratterizzata da un crescente fabbisogno di forze lavorative aggiuntive con un’incidenza dei lavoratori extracomunitari che si avvicina all’8% sulle forze lavoro e con un ruolo assolutamente primario in alcuni settori come quello della collaborazione domestica dove i cittadini stranieri sono più dell’80% del totale. Altri spazi che occupano in prevalenza manodopera straniera sono l’edilizia e l’agricoltura, settori non più appetibili dagli italiani perché caratterizzati da prestazioni lavorative stressanti o precarie e quindi destinati sempre più ad essere occupati da immigrati.

All’immigrazione regolare si aggiunge e si contrappone il flusso di immigrati irregolari di cui è difficile addivenire ad una quantificazione attendibile del numero si ipotizza, comunque, che ogni anno nell’Unione Europea ne entrino mezzo milione.

L’arrivo degli irregolari si realizza con modalità diversificate: i dati riferiti al 2003 (che sono tuttavia validi anche per il 2004) attestano che solo un decimo dei flussi irregolari avviene via mare, mentre l’immigrazione irregolare che avviene via terra, attraverso i confini dei Paesi Schengen (Francia, Austria e Grecia), è pari al 15%, infine la cifra più consistente, pari al 75%, riguarda coloro ai quali è scaduto il permesso di soggiorno e che non l’hanno rinnovato (c.d. “overstayers”).

Più di recente consistenti flussi di immigrazione clandestina originano dall’Africa sub-sahariana e dal Corno d’Africa e raggiungono, via mare, la Sicilia, dopo essere transitati dalla Libia.

È appena il caso di sottolineare che lo stato di irregolarità è uno dei fattori che facilita la devianza criminale e soprattutto la commissione di quei reati compiuti per soddisfare esigenze primarie o per il ricatto delle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico e lo sfruttamento degli esseri umani.



b)  La convivenza tra la società nazionale e le comunità di immigrati

Sebbene in Italia non esista ancora una raccolta sistematica di dati relativa agli episodi di intolleranza e discriminazione nei confronti degli immigrati che possa, quindi, dare un quadro statisticamente esatto sull’inserimento degli stranieri nel nostro Paese, si rileva che, fino agli anni ’80, dall’opinione pubblica veniva prestata scarsa attenzione al fenomeno migratorio, costituito per la maggior parte da lavoratrici domestiche e da richiedenti asilo, spesso in Italia solo di passaggio.

E’ solo con l’inizio degli anni ’90, quando il fenomeno comincia ad assumere una rilevanza quantitativamente sempre maggiore, che sorgono i primi problemi di integrazione che sono, poi, problemi di mancanza di conoscenza e di diversità culturale.

Benché tra i Paesi dell’area europea l’Italia sia tra i più tolleranti, spesso gli immigrati avvertono di non essere considerati in maniera amichevole e, seppure necessari, si sentono mal sopportati.

Da questo disagio, che in generale l’Italia sta provando nei confronti dei lavoratori extracomunitari, discendono diversi atteggiamenti di tipo discriminatorio: è ancora molto forte la discriminazione sul lavoro: il 60% dei lavoratori immigrati dichiara di aver subito atteggiamenti discriminatori da parte dei colleghi e dei datori di lavoro, solo il 31,4% delle lavoratrici immigrate dichiara di avere un contratto a tempo determinato, solo il 35%  dei lavoratori uomini ha avuto avanzamenti di carriera.  Tratto, comunque, saliente è che i lavoratori stranieri sono ancora prevalentemente dediti ad occupazioni precarie, temporanee e non qualificate.[4]

Atteggiamenti discriminatori si verificano nei confronti degli immigrati anche per l’accesso agli alloggi che rappresenta una delle tappe basilari di inserimento socio culturale.

Invero, sebbene i titolari di permesso o carta di soggiorno possano, senza alcuna limitazione, acquistare o affittare un immobile in Italia in quanto titolari degli stessi diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, e sebbene il rifiuto di fornire alloggio agli stranieri regolari sia perseguito legalmente, in quanto atto discriminatorio (art. 43, D.lgs. 286/98 rubricato: “ Discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi), sono tuttora frequenti gli annunci di affitto o vendita che escludono gli immigrati.[5]

E ancora episodi di discriminazione si rilevano nel caso di mancato accesso ad esercizi commerciali, al credito o alla scuola, nel caso di rapporti spesso problematici con gli enti pubblici e anche nei rapporti con i mass media, a volte, portatori di una distorta informazione.

In merito alla percezione che gli italiani hanno delle comunità immigrate, se è vero che la maggioranza della popolazione, in particolare la più colta e quella maggiormente inserita nel sistema socio-economico, ha la consapevolezza che il nostro “sistema Paese” non può ormai prescindere dalla presenza di lavoratori stranieri, purtuttavia si nota che l’atteggiamento dell’opinione pubblica viene fortemente influenzato dagli eventi quotidiani.

In particolare l’atteggiamento nei confronti delle problematiche relative all’integrazione e all’inclusione degli stranieri, ha acquistato una maggiore rigidità causata soprattutto dalla paura di attentati terroristici che minacciano anche il nostro Paese.

E’, comunque, sul versante della criminalità degli immigrati, in virtù anche delle notizie di cronaca nera di cui sono sempre più spesso protagonisti gli extracomunitari, che le opinioni risultano maggiormente negative: il 58%  degli italiani ritiene che gli immigrati siano la causa principale dell’aumento della violenza e ben il 53% pensa che l’aumento del numero degli immigrati abbia fatto diminuire molto la sicurezza dei cittadini.[6]



c)  Modelli di integrazione

Il problema dell’integrazione degli immigrati all’interno delle società ospitanti è essenzialmente il problema della scelta del modello nazionale di integrazione.

In Europa sussistono almeno tre modelli  che caratterizzano l’approccio dei singoli Paesi alle tematiche relative all’immigrazione.

Il modello tedesco considera gli immigrati come “lavoratori ospiti”, quindi, “temporanei”, pertanto, le politiche migratorie sono ispirate al criterio della provvisorietà e l’integrazione è ridotta al minimo indispensabile. Tale modello deve ritenersi superato considerato che ormai un Germania vi sono immigrati turchi e maghrebini di terza generazione. Preso atto di ciò, nel 1999 è stata emanata una nuova legge sulla cittadinanza che, pur rimanendo di difficile acquisizione, introduce lo ius soli per i bambini nati in Germania.

La Francia e la Gran Bretagna hanno adottato due modelli che discendono direttamente dalla loro antica tradizione coloniale.

In Francia il “modello assimilativo” ha orientato le politiche per l’immigrazione ad una rapida assimilazione degli immigrati che, trattati secondo il principio di uguaglianza, sono destinati a diventare cittadini , indistinguibili dal resto della popolazione, quindi, sprovvisti di radici. Si punta sul carattere universale della cittadinanza e la formazione di comunità minoritarie viene scoraggiata in quanto portatrice di peculiarità contrapponibili all’identità nazionale. Questo modello, che non tiene conto delle differenze, non ha dato buoni frutti se appena si considerano le recenti rivolte della gioventù maghrebina nelle banlieus.

Infine il “modello comunitario” britannico, basato sul riconoscimento dell’aggregazione religiosa ed etnica della popolazione immigrata, ha consentito la costituzione di vere e proprie enclave territoriali in quartieri etnici, producendo una progressiva separazione delle comunità dal resto della società. In particolare per i giovani musulmani l’identità non è tanto definita in termini etnici quanto in termini religiosi. Una serie di sommosse urbane, a partire dal 2000 e dal 2001 e gli ultimi attentati terroristici del luglio 2005, hanno messo in evidenza l’assenza di valori condivisi anche dalle comunità islamiche all’interno della società britannica

Lo Stato italiano alla luce delle predette esperienze dei Paesi europei, che si sono rivelate di dubbia efficacia, sta tentando di attuare un “modello italiano” di integrazione che si prefigge di andare oltre la cultura giuridico occidentale che tutela il “diritto all’uguaglianza”, adottando politiche di integrazione che garantiscano e riconoscano anche il “diritto alla differenza”.

Pertanto si è determinato di adottare una politica dell’immigrazione che si preoccupi di integrare nella nostra società gli immigrati senza pretendere la rinuncia alla loro identità culturale e religiosa.   Si tratta di attuare un processo bidirezionale basato sul rispetto dei diritti e doveri reciproci; da una parte il cittadino straniero deve adeguarsi alle regole ed ai valori della società italiana, dall’altra deve essere sicuro di non essere respinto, di poter avere accesso a beni e servizi che gli consentano di vivere dignitosamente, di conoscere la nuova realtà sociale in cui va ad incardinarsi e di avere la possibilità di farsi conoscere.

Consapevoli che l’integrazione inizia con l’inserimento nel mondo del lavoro si è proceduto alla legalizzazione del lavoro irregolare degli extracomunitari, inoltre si è agito, in sinergia con le Regioni e gli enti locali, con ulteriori interventi nei settori dell’istruzione, dell’apprendimento dell’italiano, della salute, della casa, della mediazione culturale.

Sono state, poi, favorite le interrelazioni tra istituzioni e comunità immigrate istituendo l’Ufficio Antidiscriminazioni Razziali e dando impulso ai Consigli Territoriali per l’Immigrazione, individuati come base di partecipazione e rappresentanza degli immigrati sul territorio.



d) Regolarizzazione ed emersione

Nell’elaborazione delle politiche di integrazione si deve tener conto dell’evoluzione del fenomeno migratorio che è volto alla ricerca di una maggiore stabilità ed inclusione nella società ospitante; a fronte di quest’esigenza si è però rilevata, nel tempo, la presenza di numerosi stranieri irregolarmente residenti sul nostro territorio, la cui marginalizzazione e precarietà si ripercuoteva negativamente sia sull’ordine pubblico che sulle politiche di integrazione degli immigrati regolari.

Pertanto, il governo italiano, che fin dagli anni ‘80 è intervenuto sul fenomeno migratorio ratificando nel 1981 la convenzione dell’Organizzazione Internazionale del lavoro sulla tutela dei lavoratori migranti ed il contrasto dei flussi irregolari, e approvando quattro leggi sull'immigrazione (1986, 1990, 1998 e 2002) e cinque regolarizzazioni (agli anni citati va aggiunto anche il 1995), ha in ultimo emanato la legge 30 luglio 2002 n. 189 recante: “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e asilo”, c.d. legge Bossi-Fini, forse uno dei provvedimenti più incisivi in ordine di contrasto della clandestinità.

Invero con tale provvedimento sono state introdotte alcune importanti novità in materia di permessi di soggiorno (art. 4 e 5) cui si collega direttamente la nuova figura del contratto di soggiorno da sottoscriversi presso lo “sportello unico per l’immigrazione” (artt. 6 e 18); in materia di contrasto all’immigrazione clandestina e di espulsione degli irregolari (artt. 11 e 12); in materia di determinazione dei flussi di ingresso (art. 17); in materia di riconoscimento del diritto d’asilo (artt. 31 e 32) e, infine, in materia di legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari (art. 33).

Con il suddetto art. 33 della legge n. 189/2002 (“Dichiarazione di emersione del lavoro irregolare”) e con il D.L. n. 195/2002, convertito in legge n. 222/2002 (“Disposizioni urgenti in materia di legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari”), si è addivenuti ad una regolarizzazione che ha interessato 705.172 lavoratori stranieri residenti sul territorio italiano e si è fornita una risposta concreta all’esigenza di far emergere dall’irregolarità i lavoratori immigrati nonché le imprese e le famiglie che li avevano alle proprie dipendenze.

Le domande, accolte fino all’11/11/2002, hanno interessato colf e badanti e, in percentuale leggermente maggiore, stranieri con altre posizioni di lavoro dipendente, mostrando chiaramente la dimensioni della situazione di irregolarità occupazionale della popolazione immigrata nel nostro Paese.

La procedura, che si è conclusa il 31/12/2003, prevede il nullaosta al rilascio del permesso di soggiorno da parte della Questura e la successiva convocazione delle parti presso lo sportello polifunzionale della Prefettura-Ufficio Territoriale del Governo.

Lo “sportello unico” per l’immigrazione (art. 18 legge 189/2002) costituisce una vera innovazione amministrativa che ha permesso ai cittadini di rivolgersi presso un’unica struttura per ottenere ciò che, una volta, avrebbero ottenuto da più amministrazioni.

Presso tale sportello polifunzionale, che si avvale della presenza simultanea di rappresentanti della Prefettura, della Questura, dell’Ufficio del Lavoro, delle Poste italiane, dell’Agenzia delle Entrate e dell’INPS, il datore di lavoro ed il lavoratore hanno svolto tutte le pratiche relative alla regolarizzazione: attribuzione del codice fiscale, sistemazione della posizione contributiva, firma del contratto di lavoro e, infine, rilascio del permesso di soggiorno.

La regolarizzazione dei lavoratori extracomunitari è stata autofinanziata dai versamenti dei datori di lavoro interessati.

Va sottolineata la differenza tra sanatoria e regolarizzazione: con la prima si prendeva atto della presenza dell’immigrato ad una certa data sul territorio e gli si garantiva soltanto l’iscrizione alle liste di collocamento; con la seconda non ci si è limitati a questo, ma è stato richiesto un rapporto di lavoro reale che è stato fatto emergere con una domanda presentata dal datore di lavoro.  A seguito di ciò la firma del contratto, la regolarizzazione contributiva, l’assistenza sanitaria, l’idonea formazione professionale e la disponibilità di un alloggio hanno assicurato dignitose condizioni di vita all’immigrato permettendogli maggiore facilità di integrazione, il tutto in contesto di sicurezza perché a ciascuno sono stati effettuati rilievi fotodattiloscopici.

In sintesi può affermarsi che con la regolarizzazione si è legalizzata la posizione di circa 700.000 lavoratori immigrati in nero tutelando, in tal modo, i loro diritti ma anche il nostro mercato del lavoro ed il nostro sistema previdenziale e assistenziale.



e) L’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR) e i Consigli Territoriali per l’Immigrazione (CTI)

Sempre in materia di politiche di accoglienza e solidarietà, si evidenzia l’emanazione del decreto legislativo 9 luglio 2003 n. 215, di attuazione della direttiva 2000/43/CE, che mira a promuovere il raggiungimento dell’uguaglianza razziale vietando la discriminazione  per ragioni di razza o di origine etnica o religiosa.

Con tale provvedimento legislativo, all’art. 7, è stato costituito, presso il Dipartimento per le Pari Oppurtunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, un apposito ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondata sulla razza e sull’origine etnica: l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali – UNAR.

L’ufficio, operante effettivamente dal 2004, ha come obiettivo la costituzione di un presidio di garanzia e un punto di riferimento istituzionale per la tutela della parità di trattamento ed il contrasto di ogni fenomeno discriminatorio, pertanto, compiti dell’Ufficio sono sia quelli di monitorare sistematicamente il fenomeno attraverso la costituzione di un call center che raccoglie segnalazioni di persone od enti in merito ad episodi di discriminazione, sia compiti di informazione e sensibilizzazione sui delicati temi dell’integrazione razziale coinvolgendo il mondo dello sport, della musica, della scuola e dell’università, sia, infine, compiti di assistenza e supporto legale alle vittime della discriminazione.

Il call center dell’UNAR nei suoi primi nove mesi di attività ha risposto ad oltre 9.000 chiamate un terzo delle quali riguarda problematiche generiche inerenti all’ingresso e al soggiorno in Italia, mentre, sono state circa 300 le richieste pertinenti ai fini istituzionali dell’Ufficio.  I casi ritenuti pertinenti vengono indirizzati ad un team di magistrati ed esperti di scienze giuridiche e sociali che istruiscono il caso e individuano la strategia più opportuna per la risoluzione del problema. La maggioranza dei casi trova soluzione grazie a procedure conciliative che vedono coinvolti la vittima della presunta condotta discriminatoria ed i presunti autori della stessa.[7]

I casi di presunta discriminazione sottoposti all’UNAR sono tra i più vari, in particolare:

Ambito della discriminazione                          n. denunce              %

Lavoro                                                                86                       28,9


Casa                                                                   63                       21,1

Forze dell’ordine                                               28                         9,4

Erogazione servizi da enti pubblici                   26                         8,7

Erogazione servizi da pubblici esercizi             25                         8,4

Erogazione servizi finanziari                             17                         5,7

Trasporto pubblico                                             16                         5,4


Trasporto pubblico                                             16                         5,4

Salute                                                                 14                          4,7

Scuola ed istruzione                                          13                          4,4

Altro                                                                  10                          3,3

TOTALE                                                         298                         100[8]

Per una più incisiva politica di integrazione sul territorio e per favorire un maggiore coordinamento a livello pubblico e privato tra quanti operano per l’immigrazione, è stato dato impulso ai Consigli Territoriali per l’Immigrazione (CTI), istituiti dall’art. 3 del T.U. sull’immigrazione (Dlgs. n. 286/1998) con compiti di “analisi delle esigenze e di promozione degli interventi da attuare a livello locale”. L’art. 157 del D.P.R. n. 394/1999, ha affidato ai Prefetti la responsabilità di assicurare la formazione ed il funzionamento dei CTI.

I Consigli sono presieduti dai Prefetti, che ne stabiliscono anche l’ordine del giorno, (D.P.C.M. del 18 dicembre 1999 che ha istituito i CTI in ogni provincia) e sono composti da rappresentanti dei competenti uffici periferici delle amministrazioni dello Stato, dal Presidente della Provincia, da un rappresentante della Regione, dal Sindaco del Comune capoluogo o da un suo delegato nonché dal sindaco dei comuni della Provincia di volta in volta interessati, dai rappresentanti degli enti e delle associazioni localmente attive nel soccorso e nell’assistenza agli immigrati, da almeno due rappresentanti delle associazioni più rappresentative degli stranieri extracomunitari operanti sul territorio e dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro.

I CTI rappresentano osservatori privilegiati del fenomeno migratorio e punti di riferimento per tutti i soggetti che agiscono per l’integrazione degli stranieri in Italia.

Attraverso i CTI sono state attivate forme di monitoraggio mediante osservatori statistici già presenti sul territorio o con l’istituzione di appositi osservatori all’interno dei CTI avviando, in tal modo, un’efficace raccolta di dati utili alla lettura dei bisogni e del livello di inserimento sociale della popolazione immigrata, quali il monitoraggio sull’inserimento lavorativo, il disagio abitativo, l’accesso ai servizi socio-sanitari, l’inserimento scolastico, l’aspetto religioso.

Tale approfondita attività di monitoraggio consente la pianificazione integrata degli interventi e la fissazione di obiettivi a breve e medio termine delle politiche per l’integrazione.

Gli interventi più incisivi promossi dai CTI sono stati sostenuti da protocolli di intesa o da accordi di programma, strumenti consensuali sottoscritti dai vari partecipanti ai Consigli stessi, al riguardo si sottolinea che essenziale ai fini di un efficace funzionamento dei CTI è il ruolo svolto da Regioni ed enti locali che sono i principali soggetti delle politiche di integrazione a livello locale. Invero, l’attivazione, a livello regionale, di appositi tavoli di confronto periodici con i CTI si è dimostrata un utile strumento sia per favorire sinergie tra i vari soggetti competenti che per indirizzare le risorse disponibili verso la programmazione di progetti condivisi e rispondenti alle necessità evidenziate sul territorio

L’efficacia del ruolo dei CTI è stata confermata anche dal positivo coinvolgimento di tali organismi in occasione della procedura di regolarizzazione; in  detto frangente le Prefetture si sono avvalse dei CTI per un miglior svolgimento delle pratiche burocratiche attivando diffuse ed efficaci strategie di comunicazione.

Per quel che concerne gli aspetti critici dei CTI, che necessitano di ulteriori aggiustamenti, si rileva che il grado di presenza alle riunioni di lavoro è medio alto per quanto concerne i rappresentanti delle istituzioni, delle associazioni e dei sindaci mentre è medio bassa la partecipazione degli immigrati che sono i più interessati alla struttura, ciò accade perché non vi è ancora sufficiente comunicazione esterna e gli immigrati molte volte non sanno dell’esistenza dei CTI, non ne percepiscono l’operato, e quindi l’utilità, presumibilmente poiché non vengono sufficientemente informati sul lavoro svolto a livello territoriale.



Le Politiche del Governo per l’integrazione delle Comunità Islamiche


   a) Le comunità islamiche presenti sul nostro territorio: caratteristiche e problemi di integrazione



Tra i gruppi allogeni residenti stabilmente nel nostro Paese la minoranza di religione islamica merita un’attenzione particolare sia perché, quantitativamente, è la seconda comunità all’interno della popolazione immigrata (circa il 35%), sia per i problemi creati dall’integrazione delle comunità musulmane nel tessuto sociale e culturale italiano.

Invero il fenomeno dell’immigrazione musulmana in Italia è relativamente recente in quanto si è avviato solo a partire dagli anni ’80. A differenza di quanto avviene in Paesi di più antica tradizione immigratoria, dove esiste una matrice etnica dominante nell’immigrazione: indopakistani per la Gran Bretagna, maghrebini per la Francia e turchi per la Germania, l’Italia è caratterizzata da una forte differenziazione etnica delle popolazioni musulmane immigrate, in particolare, il 48% è di origine nordafricana, il 28% proviene dai Balcani, il 14% dall’Africa Occidentale ed il rimanente 10% dal Subcontinente indiano.

Nel caso italiano tale frammentazione etnica è dovuta a due fattori.

Il primo è che il nostro Paese non ha mai intrattenuto relazioni privilegiate con le sue ex colonie, infatti non si è mai verificata un’immigrazione massiccia dalla Somalia, dall’Etiopia o dalla Libia. Il colonialismo italiano era basato su di un sistema di  indirect rule che ha, di fatto, reso molto più semplice tutta la fase della decolonizzazione senza mettere in moto importanti flussi migratori verso l’Italia.

Il secondo fattore si individua nella particolare posizione geopolitica dell’Italia con il suo doppio versante mediterraneo: quello balcanico da Est, e quello arabo-africano da Sud; vi è poi, sempre ad Est, il versante della terraferma che funge da ponte per l’immigrazione mediorientale e balcanica.

Pertanto in Italia risiedono collettività islamiche di origine albanese, algerina, pachistana, giordana, tunisina, siriana, somala, libica, irachena, senegalese.

Sul piano della localizzazione territoriale l’immigrazione islamica si è dislocata in funzione delle richieste del mercato del lavoro, pertanto, si è concentrata prevalentemente nelle aree del Centro-Nord in cui è maggiore la densità delle imprese e nelle aree del Sud in cui è forte la richiesta di manodopera stagionale nell’agricoltura e nella pesca.

Per quanto riguarda la comunità islamica e la criminalità, benché non siano disponibili disaggregazioni di dati basati sullo status dei denunciati, si può dedurre, riprendendo i contenuti dell’intervento del Ministro Pisanu in occasione del 135° anniversario della fondazione della Polizia di Stato, a Roma, il 13/5/2005, che la maggior parte di essi sia irregolare o clandestina.

Fin qui il dato statistico, ma il dato sensibile di maggior rilievo quando si affronta uno studio sulle comunità islamiche residenti in Italia è l’accettazione del fenomeno da parte dell’opinione pubblica italiana, per la maggior parte della quale  la convivenza dell’occidente con l’islam è ritenuta difficile o, quantomeno, problematica.

Invero tra il sistema di vita dei paesi occidentali e quelli dei paesi di origine dell’immigrazione musulmana esistono notevoli e profonde diversità che rendono particolarmente difficile l’integrazione.

Si rileva, in particolare, che la laicità dello stato, la separazione tra Stato e chiesa, l’autonomia tra legge morale e legge civile, non sono concetti acquisiti nel mondo musulmano ancora con un certo orientamento verso la teocrazia, favorevole all’applicazione della legge islamica (sharia) e diffidente verso la laicizzazione; alla luce di ciò molti si interrogano sull’effettiva possibilità di integrazione della civiltà islamica nell’Occidente democratico.

Posizioni in tal senso sono state espresse dal politologo Giovanni Sartori e dalla giornalista Oriana Fallaci particolarmente pessimisti sulla possibilità di rendere compatibili le diversità islamiche con il contesto occidentale.

Peraltro, anche tra coloro che non condividono posizioni così negative, molti ritengono la convivenza con i musulmani notevolmente problematica.

Le innegabili diversità sono state percepite in modo ancora più radicale dopo gli efferati atti terroristici dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti.

All’indomani di tali eventi un sondaggio dell’ISPO/ACNielsen, realizzato nell’ottobre 2001 su un campione di ultradiciottenni, rileva che il 30% degli intervistati  è diventato molto più diffidente nei confronti degli immigrati musulmani; per il 78% essi hanno mentalità e modi di vita diversi e poco conciliabili con i nostri; per il 43% la religione musulmana è intollerante; per il 38% sono gli stessi arabi a non ispirare fiducia e per il 25% dovrebbero lasciare l’Italia.

Rispetto ad un analogo sondaggio dell’aprile 2001 risulta diminuita di tre punti percentuali la quota di che ritiene giusto concedere spazi pubblici per culti non cattolici (48%) e aumentata di quattro punti la quota di quelli secondo i quali bisogna accettare gli immigrati cristiani e respingere i musulmani.

Questi dati destano forti preoccupazione perché attestano sia la sussistenza di un forte e diffuso pregiudizio generato dalla paura della perdita della propria identità e della propria sicurezza, sia una mancata o distorta conoscenza del mondo islamico.

In realtà gli occidentali sono portati a pensare all’Islam come un blocco unico, monolitico, ma proprio dopo i tragici eventi terroristici, è d’obbligo effettuare delle distinzioni, se non altro per non inglobare in un unico contenitore terroristico oltre un miliardo di islamici esistenti nel mondo.

E’ quindi opportuno anzi, necessario, effettuare delle differenziazioni che consentano di cogliere un aspetto assai più frammentato e variegato del previsto, composto da correnti, gruppi , movimenti e tradizioni assolutamente diverse: sunnita e sciita, moderata e integralista, ufficiale e popolare.

Si tratta, pertanto, di un mondo complesso che rifugge dall’essere ridotto a formule semplicistiche, soprattutto non si deve commettere l’errore di confondere il fondamentalismo islamico e il terrorismo con la religione, la cultura e la civiltà dell’Islam altrimenti si asseconda l’ipotesi dello scontro di civiltà facendo il gioco degli estremisti.[9]

Ciò che, comunque, va tenuto presente è che i terroristi sono una minoranza in grado, però, di influenzare largamente i popoli islamici perché sfruttano abilmente la lettura estremista e letterale del Corano e perché offrono appoggio e sicurezza dall’emarginazione in cui spesso vivono le popolazioni islamiche che trovano sempre più difficile misurarsi con la moderna cultura occidentale.

Pertanto, la questione dell’Islam in Italia, come negli altri Paesi occidentali, pone dunque il problema centrale delle politiche di integrazione.



b) L’impostazione delle politiche per l’integrazione della minoranza islamica: fermezza e dialogo

L’integrazione delle popolazioni musulmane immigrate nel nostro Paese è divenuta, dunque, una problematica di pressante attualità dinnanzi alla quale nessun governo, né l’attuale né i futuri, potrà sottrarsi senza rischiare di mettere a repentaglio la pacifica e democratica convivenza, invero, il rischio che il disagio sociale dell’immigrazione trovi sollievo pratico e nutrimento ideologico in esponenti del mondo radicale islamico è già in atto.

Peraltro, come prima accennato, la comunità di immigrati sulla quale sussiste il maggior pregiudizio ed anche molta disinformazione, o distorta informazione, è proprio la comunità islamica che da più parti viene etichettata come “terrorista” o, quantomeno, viene ritenuta “simpatizzante” del terrorismo.

Dette convinzioni si basano anche sul consenso delle popolazioni islamiche, a volte testimoniato in modo silente a volte esplicito, alla protesta fondamentalista; tale

consenso non va però confuso con una convita adesione al terrorismo di tutti i musulmani, soprattutto tenendo conto di quelle distinzioni all’interno dell’Islam di cui si parlava in precedenza.

Pertanto, se è necessario usare la mano armata del contrasto e della repressione nei confronti dei terroristi e dei violenti, sia sul piano interno che su quello internazionale, è anche necessario aprirsi amichevolmente e dialogare con i musulmani pacifici giunti in Italia con il solo proposito di lavorare onestamente, in sintesi, come efficacemente espresso dal Ministro dell’Interno, Pisanu: “…l’orientamento di fondo del governo nei confronti dell’Islam è quello della politica delle due mani: una tesa verso gli islamici moderati l’altra armata contro i terroristi”.

Si rileva che finora in Europa ci si è preoccupati quasi esclusivamente della mano repressiva e si è prestata poca attenzione alla mano tesa con conseguenze negative sia dal punto di vista dell’aumento degli atti terroristici, sia sotto l’aspetto dell’emarginazione sociale e culturale e dell’esasperazione politica.

In Italia, invece, i propositi e le sfide sono di attuare efficacemente la “politica delle due mani”, pertanto, se da un lato è stata adottata una politica di estrema chiusura nei confronti dei violenti e degli intolleranti agendo legislativamente sia sul fronte dell’emersione della clandestinità, sia sul fronte dell’irrigidimento e della razionalizzazione di alcuni istituti, già in vigore, deputati a contrastare il fenomeno del terrorismo internazionale , dall’altro, si sta puntando su politiche di integrazione che non pretendono l’assimilazione dei musulmani bensì il reciproco rispetto delle differenze religiose culturali e identitarie; politiche, dunque, che ricercano forme di pacifica convivenza esigendo, in cambio, il pieno rispetto dei nostri ordinamenti democratici

A tal fine occorre definire una nuova disciplina normativa sulla libertà religiosa e sostenere e incoraggiare il dialogo culturale e interreligioso come “strumento di coesione sociale” in grado di isolare e combattere il comune nemico del fanatismo politico-religioso, invero, se ci si muove in un ambito diverso da quello terroristico, il dialogo interreligioso può diventare la strada maestra per instaurare nuovi rapporti tra  culture e religioni diverse, rapporti liberi dal pregiudizio e dall’intolleranza.



c) IL progetto di legge in materia di libertà religiosa

Tra le condizioni sostanziali e non solo formali per l’integrazione sociale degli immigrati rientra, senza dubbio, il riconoscimento del diritto all’esercizio del proprio culto.

Detta questione è particolarmente rilevante per gli immigrati di religione islamica per i quali non è stato possibile addivenire ad un’“intesa” che regoli i rapporti tra lo Stato e la confessione religiosa, a causa della mancanza di un organo rappresentativo di tutta la collettività musulmana d’Italia.

E’ pertanto necessario sviluppare, anche per le confessioni religiose prive di intesa, politiche in ambito religioso che introducano principi e regole, coerenti con i valori della nostra Costituzione, sull’esercizio della libertà religiosa, ovverosia sui comportamenti individuali e collettivi nei quali si esprime l’appartenenza religiosa dei singoli.

La necessità di una tale normativa appare ancora più evidente laddove si considerino i rischi che derivano dalla constatazione che il terrorismo internazionale strumentalizza l’Islam ai fini di proselitismo e di violenza politica.

In Italia il diritto di professare le proprie convinzioni, anche religiose, è sancito dalla nostra Carta Costituzionale che dedica a questo tema articoli di grande respiro nei quali è ben evidente la capacità di mediazione che ispirò i nostri padri costituenti; in particolare, la libertà religiosa è garantita dall’art. 19 che stabilisce il diritto per tutti di professare liberamente la propria fede religiosa e dall’art. 20 che vieta l’introduzione di speciali limitazioni legislative o fiscali per le associazioni religiose.

I rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose sono disciplinati sia dall’art. 7, che riguarda specificamente la chiesa cattolica con la quale lo Stato ha stipulato un atto concordatario che ha natura giuridica di trattato internazionale, sia dall’art. 8 nel quale viene affermato che tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge (primo comma); che tutte le confessioni religiose, diverse dalla cattolica, hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano (secondo comma); e, infine che hanno la facoltà di avere rapporti con lo Stato, da disciplinare per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze (terzo comma).

Vi è poi un’ultima fattispecie costituita da quelle confessioni religiose che non intendono o non possono avere un rapporto pattizio con lo Stato, per queste ultime troverà applicazione unicamente una legge di carattere generale.

E’ il caso, come sopra evidenziato, della religione musulmana, seconda presenza religiosa in Italia, che consta di più rappresentanze, pertanto, per lo Stato è sostanzialmente impossibile individuare a quale di queste rappresentanze potrebbe spettare la titolarità di una, sia pure eventuale, intesa.

Anche per queste confessioni deve però valere una legge sulla libertà religiosa che sia coerente con il messaggio costituzionale.

Pertanto, l’attuale governo ha presentato, in materia di libertà religiosa, uno schema di disegno di legge (“Norme sulla libertà religiosa e abrogazione della legislazione sui culti ammessi”) che ripropone, in massima parte, i contenuti del d.d.l. governativo approvato nella scorsa legislatura dalla Commissione Affari Costituzionale della Camera dei Deputati.   Sotto il profilo del contenuto il progetto di legge, individuando per tutte le confessioni prive di intesa con la Stato un sostrato comune di norme, intende dare piena attuazione ai principi costituzionali in materia di libera coscienza di religione e, parallelamente, abrogare la normativa risalente agli anni 1920-1930 sull’esercizio di quei culti diversi dal cattolico che, con riferimento al concetto di religione di Stato, venivano allora definiti “ammessi” (legge n. 1159/1929 e R.D. n. 289/1930).

L’iniziativa legislativa, che prevede una serie di garanzie e di controlli posti a tutela sia dello Stato che delle stesse confessioni religiose, si articola in 4 capi: il primo tratta espressamente delle libertà religiose, il secondo delle confessioni e delle associazioni religiose, il terzo delle intese e il quarto contiene disposizioni transitorie e finali.

Al riguardo si evidenzia l’introduzione del parere del Consiglio di Stato nell’ambito del procedimento di riconoscimento della personalità giuridica di una confessione religiosa, invero, la valutazione di tale Organo e l’attenta analisi svolta dal Ministero dell’Interno, sono potenti strumenti di controllo nei confronti della patologia che può affiorare nell’ambito di alcuni movimenti religiosi.

Tale “controllo” si esercita anche nei confronti di quelle confessioni che non vogliono o non possono richiedere la personalità giuridica, in tal caso il controllo si estende ai c.d. “ministri di culto” i quali per poter svolgere atti rilevanti per il nostro ordinamento giuridico necessitano dell’approvazione governativa.

Tutto ciò perché è ben presente il rischio che dietro gruppi o associazioni di tipo confessionale possano celarsi organizzazioni di stampo criminale o terroristico, proprio per tali motivi è, quindi, necessario procedere ad un’attenta analisi dei fenomeni ed a una sempre più accurata vigilanza dello Stato sulle associazioni o gruppi religiosi.

Il progetto di legge di cui trattasi, dopo un primo esame della I commissione Camera conclusosi il 9/4/2003, è passato all’esame dell’Aula il 10/7/2003 e, il 24/6/2003, è stato rinviato alla I Commissione che ne ha concluso l’esame il 13/4/2005. A tutt’oggi non è stato ancora calendarizzato in Aula.

Considerato che sullo schema di d.d.l. vi era la convergenza sia delle forze di maggioranza che di opposizione, la mancata prosecuzione dell’iter parlamentare è da addebitarsi, prevalentemente, all’orientamento nettamente contrario della Lega Nord che paventa il rischio di una perdita delle radici religiose italiane, in particolare i rischi maggiori deriverebbero dal radicamento della religione islamica.



d)  L “Intesa” con le comunità islamiche

Come sopra detto, ai sensi dell’art. 8, comma terzo, della Costituzione i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.

Le trattative per le intese vengono avviate solo con le confessioni che abbiano ottenuto il riconoscimento della personalità giuridica di cui all’alla legge n. 1159/1929, su parere favorevole del consiglio di Stato. La procedura per ottenere l’intesa è complessa e vede la compartecipazione di diversi attori quali il Ministero dell’Interno, cui le intese vanno preventivamente sottoposte; il Presidente del Consiglio dei Ministri che, ricevuta l’istanza, affida al Sottosegretario-Segretario del Consiglio dei Ministri le trattative con le rappresentanze delle Confessioni Religiose; la Commissione interministeriale per le intese con le confessioni religiose, che predispone la bozza di intesa e la Commissione consultiva per la libertà religiosa che su tale bozza esprime il preliminare parere.

Dopo la conclusione delle trattative le intese, siglate dal sottosegretario e dal rappresentante della confessione religiosa, sono sottoposte all’esame del Consiglio dei Ministri, ai fini dell’autorizzazione alla firma da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri e infine sono trasmesse al Parlamento per la loro approvazione con legge.

Il principio della regolazione attraverso l’intesa, che avrebbe dovuto costituire la forma principale di rapporto con le confessioni non cattoliche, in realtà, è stato attuato solamente a partire dagli anni ’80 e riguarda solo alcune delle varie confessioni presenti in Italia (Tavola valdese l. n. 449/1984 e n. 409/1993; Assemblee di Dio in Italia l. n. 517/1988; Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia l. n. 116/1995; Unione delle Chiese Avventiste del Settimo Giorno l. n. 516/1988 e l. n. 637/1996; Unione delle Comunità ebraiche in Italia l. n. 101/1989 e l. n. 638/1996; Chiesa Evangelica luterana in Italia l. n. 520/1995).

Per dette confessioni cessano di avere efficacia le norme sui culti ammessi, totalmente sostituite dalle disposizioni contenute nelle singole intese, nelle quali sono comunque presenti norme similari e comuni quali, ad esempio, quelle relative all’assistenza religiosa negli ospedali, nelle case di cura e nelle carceri; all’insegnamento della religione nelle scuole; agli edifici di culto, ai rapporti finanziari con lo Stato (ripartizione dell’8 per mille dell’Irpef).

Nel corso degli ultimi anni, da parte di alcune associazioni islamiche (UCOI, AMI, COREIS e Centro Islamico Culturale d’Italia) sono state avanzate richieste di intesa con lo Stato italiano, purtroppo, non è ipotizzabile l’avvio delle trattative poiché il mondo islamico italiano non ha rappresentanti certi da offrite come interlocutori.

Invero la rappresentatività è il punto di partenza nel rapporto fra comunità e Stato ma, dal momento che non esiste un’unica chiesa dell’Islam, le comunità islamiche non riescono a tradurre strutturalmente una rappresentatività allargata in grado di esprimere tutte le componenti dell’Islam in Italia.

Le richieste contenute nelle bozze di intesa, presentate disgiuntamente dalle organizzazioni dei musulmani, possono essere così riassunte: venerdì festivo; permessi straordinari di assenza dal lavoro per il pellegrinaggio alla Mecca; giorni festivi da riconoscere per i musulmani; orari di lavoro differenziati durante il mese sacro del ramadam; possibilità di celebrare il matrimonio con effetti civili secondo il rito islamico e facoltà di sciogliere i matrimoni, senza alcun effetto o rilevanza civile, secondo la legge e la tradizione islamica ( qui la conflittualità tra ordinamento giuridico italiano e diritto musulmano è massima); diritto delle donne ad essere fotografate a capo coperto nei documenti, a condizione che ne sia sufficientemente garantita la riconoscibilità; possibilità di aprire scuole islamiche parificate; settori cimiteriali riservati ai musulmani; assistenza spirituale nelle carceri, negli ospedali, nelle caserme da parte dei ministri di culto.  Una delle questioni più delicate è comunque quella legata al personale di culto, alla sua formazione e ai luoghi dove si forma.

Da quanto esposto risulta estremamente improbabile, al momento, addivenire ad un intesa con le comunità islamiche, pertanto, è nel disegno di legge sulla libertà religiosa che andrebbe cercata una via d’uscita all’attuale situazione di stallo.



e)   Il dialogo come fattore di coesione sociale

In un’epoca come quella attuale in cui persone di differenti origini e fedi convivono sotto lo stesso tetto, il dialogo fra culture e religioni diverse può diventare un importante fattore di coesione sociale e, parallelamente, in un momento di grande tensione sociale dovuta alla paura del fanatismo religioso, un formidabile strumento della lotta al terrorismo, poiché toglie linfa vitale alle forme di conflittualità violenta di cui si alimenta ogni integralismo.

Pertanto, il dialogo culturale e interreligioso, che deve svilupparsi nell’ambito del rispetto delle regole della società ospite nonché dell’identità di ciascun individuo, diventa uno strumento decisivo per l’integrazione degli immigrati musulmani e per favorire quel confronto sociale reso arduo dalla mobilità crescente, dai profondi divari tra nord e sud del mondo, dal velocissimo sovrapporsi di culture e di fedi religiose diverse.

Dialogare implica, quindi, la volontà di incontrarsi e di comunicare tra religioni differenti, la pratica dell’accoglienza, il rispetto della laicità intesa non in senso contrapposto alle religioni ma come momento di confronto pluralista, il rispetto delle leggi che ci governano perché esse rappresentano la garanzia della nostra convivenza pacifica.

Il dialogo inteso, quindi, sia come momento di coesione sociale che come strumento di

lotta contro il terrorismo e la criminalità, diventa un obiettivo primario dell’Ministero dell’Interno, l’Amministrazione garante delle libertà e della sicurezza dei cittadini.

Con questo obiettivo, nel semestre di presidenza italiana della UE, il Ministro dell’Interno si è fatto promotore, presso i ministri dell’Interno e della Giustizia europei, della “Dichiarazione europea sul dialogo interreligioso e sulla coesione sociale”, nella convinzione che le religioni, pur essendo una delle basi morali su cui si fonda l’identità di una popolazione, non debbano costituire una barriera bensì, un “ponte” per l’interazione, il rispetto e il dialogo con le altre culture.

Nella “Dichiarazione” i Ministri degli Stati membri della UE, in considerazione di quanto affermato durante la conferenza sul dialogo interreligioso tenutasi a Roma il 30 e 31 ottobre 2003, hanno, tra l’altro, dichiarato: “la loro volontà a sostenere il dialogo quale strumento di pace e di coesione sociale in Europa e ai confini di quest’ultima; la loro convinzione che tale dialogo può aiutare le nuove generazioni di europei ad evitare gli errori del passato; il loro totale rifiuto di qualsiasi forma di estremismo e di intolleranza che pregiudichi la convivenza pacifica e democratica e la loro condanna di ogni tipo di violenza e di terrorismo, la religione non dovrebbe servire da pretesto per l’odio e la violenza.”.

Tale “Dichiarazione” adottata poi dai Capi di stato e di Governo è stata successivamente recepita sia dal Piano di azione per la lotta al terrorismo, sia dalla dichiarazione congiunta tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, sempre sul terrorismo internazionale.

Così come sul fronte europeo gli Stati a forte immigrazione islamica devono impegnarsi a favorire il dialogo interreligioso inteso come “fattore di coesione sociale” e come valido strumento per la costruzione della pace nell’area del Mediterraneo, sul fronte italiano, analogamente, le autorità operanti sul territorio (Sindaci, Presidenti di Provincia, Prefetti) devono incoraggiare il difficile processo di interazione fra le diverse comunità religiose.

A tal fine, il 23 settembre 2004, il Ministro dell’Interno ha inviato una circolare a tutti i Prefetti della Repubblica affinché, nel più ampio ambito delle iniziative volte a favorire l’integrazione degli immigrati, inseriscano anche iniziative propositive di un proficuo e costante dialogo tra le diverse comunità religiose e tra queste e le Istituzioni.

La circolare è stata emanata nella constatazione che: “La situazione legata alla minaccia del terrorismo internazionale e interno fa diventare poi obiettivamente concreto il rischio che l’integralismo religioso diventi strumento per accentuare forme di conflittualità violenta o per riattivare meccanismi di contrapposizione ideologica e politica.

La crescente presenza nel corpo sociale del nostro Paese di immigrati con cultura e fedi differenti, in particolare islamica, rende allora essenziale, proprio al fine di precludere ogni spazio di proselitismo al fanatismo integralista religioso, di favorire, in un clima quanto più possibile pacifico e sereno, il dialogo tra le religioni e la convivenza tra culture differenti.

Le forme di dialogo potranno concretizzarsi attraverso la costituzione di tavoli di lavoro, forum, osservatori o altre iniziative a carattere permanente, oppure anche attraverso confronti più informali, sempre coinvolgendo gli esponenti delle diverse comunità religiose presenti sul territorio.

La reciproca conoscenza, la comunicazione, il dialogo tra le parti intervenute ai tavoli di confronto ed il continuo collegamento con i Consigli Territoriali per l’Immigrazione, sarà utile per una migliore risoluzione di quelle problematiche di convivenza quotidiana basate su pretestuose motivazioni religiose, nella consapevolezza che il dialogo e la libertà di credo religioso devono, comunque, essere inseriti nella cornice delle nostre leggi.

Il rispetto della legge, infatti, è la garanzia di vivere all’interno di un modello che è quello democratico, il modello che gli Stati di diritto si sono dati; il rispetto della legge diventa pertanto il punto d’incontro del dialogo ma anche il limite poiché da esso dovranno essere banditi i fondamentalismi che non rispettano né le leggi degli Stati democratici, considerandole non vincolanti, né i modelli di convivenza delle società democratiche.



La Consulta per l’Islam Italiano: un altro passo verso l’integrazione

  a)  Il Decreto Ministeriale del 10 settembre 2005



Preso atto che l’integralismo è afferente ad una minoranza delle comunità degli immigrati islamici, si può ritenere che, ferma restando, naturalmente, l’esigenza dell’azione di contrasto, è possibile e doveroso trovare convenienti soluzioni politiche ai problemi posti dal processo di integrazione di tali comunità con le quali, a causa delle loro specificità, è necessario stabilire forme peculiari di dialogo.

In tale ottica, acquista particolare rilievo l’istituzione, da parte del Ministro dell’Interno, della “Consulta per l’Islam italiano”, un organo collegiale che svolgerà funzioni esclusivamente consultive esprimendo pareri e formulando proposte sulle questioni indicate dal Ministro; come si è espresso il Ministro dell’Interno Pisanu: “…la Consulta islamica è per noi la mano che tendiamo ai musulmani moderati, per procedere insieme sulla via dell’integrazione, ma anche per contrastare insieme l’estremismo e la violenza politica”.

L’organo è stato istituito, con D.M. 10 settembre 2005, dal Ministro dell’Interno e siederà presso il Viminale essendo vocazione e competenza di tale Dicastero non solo la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica ma anche la tutela dei diritti civili compresi quelli delle confessioni religiose e dell’immigrazione.  Pertanto, considerato che in Italia, come pure in Europa, aumenta esponenzialmente l’interdipendenza tra le politiche di sicurezza e quelle di garanzia dei diritti civili e sociali e di integrazione, si è ritenuto di fare un ulteriore passo sulla via italiana dell’integrazione promuovendo un dialogo istituzionale con le comunità islamiche per favorire un civile processo di coesione sociale.

E’ stata, quindi, istituita la citata Consulta che ha il precipuo obiettivo di approfondire la conoscenza della variegata realtà dell’Islam presente in Italia e trovare, quindi, soluzioni adeguate alle relative problematiche di integrazione, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle leggi della Repubblica.

Ulteriore obiettivo della Consulta è, poi, quello di avviare un dialogo istituzionale con le comunità musulmane per agevolare l’emersione di un Islam italiano compatibile con i nostri ordinamenti e in grado di isolare e combattere fenomeni di integralismo e di radicalismo.

L’organo collegiale è presieduto dal Ministro dell’Interno che può chiamare a farne parte, in qualità di componenti:

“persone di cultura e religione islamica che, per la loro esperienza, possano offrire qualificati apporti alla trattazione dei temi di interesse del collegio, nella convinta adesione ai valori e principi dell’ordinamento repubblicano”.

Alle sedute della Consulta, che sarà convocata ordinariamente tre volte l’anno, nonché ogni qual volta se ne dovesse ravvisare l’opportunità, partecipano il Capo di Gabinetto del Ministero dell’Interno, il Capo del Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione, nonché i Consiglieri del Ministro e i funzionari di volta in volta individuati ratione materiae.

Possono essere invitati ai lavori, per la trattazione di specifiche questioni, rappresentanti della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Ministeri di volta in volta interessati, infine, sempre in relazione ai singoli argomenti da trattare, il Presidente può procedere ad audizioni ed invitare, a tal fine, persone che possano offrire un contributo alla conoscenza dei temi da trattare.

Infine, con successivo decreto, si provvederà alla costituzione della Consulta e alla conseguente individuazione nominativa dei componenti.

L’iniziativa, che in Italia riveste i caratteri dell’unicità, non è, invece, nuova in Paesi di più antica tradizione migratoria, come la Francia e il Belgio, che già si sono dovuti confrontare con le comunità islamiche convogliando le reciproche relazioni entro opportuni canali rappresentativi.

In Francia, dopo una prima esperienza nel 1990 (la costituzione di un Conseil de Reflexion sur l’islam en France, Corif) osteggiata dalle organizzazioni islamiche che ne contestavano la scarsa rappresentatività, in quanto frutto di un’imposizione dall’alto, è stato istituito, nel 2003, il “Conseil francais du culte musulman” un organismo deputato ad interagire con le istituzioni pubbliche per confrontarsi sulle principali istanze avanzate dalla comunità islamica; i membri che compongono tale organo sono eletti da delegati delle moschee.

Il Belgio, che nel 1974 ha concesso al culto islamico lo status di religione riconosciuta, ha istituito il “Consiglio dei rappresentanti della comunità islamica” eletto da una costituente di 68 membri a loro volta eletti da tutti i musulmani residenti nel Pese da più di cinque anni; il Consiglio, che ha solo poteri consultivi, è l’interlocutore del governo per tutte le questioni relative al culto islamico



L’istituzione della Consulta ha suscitato notevole attenzione sia nel mondo politico nazionale che presso le organizzazioni dei musulmani presenti in Italia.

Per quanto concerne la politica sono arrivati consensi sia dalla maggioranza (Fini: “è una scelta degna di considerazione e di plauso perché occorre il dialogo con chi tra i musulmani è disposto ad accogliere le nostre regole e a condividere i nostri valori”) che dall’opposizione (Manconi: “l’iniziativa è sicuramente positiva. Essa costituisce una delle condizioni indispensabili per una progressiva integrazione dei musulmani nella società italiana”), mentre, forti reazioni di contrarietà sono state manifestate dalla Lega Nord per la quale: “i rapporti con l’islam non sono competenza del Ministro ma del Parlamento” e che definisce la Consulta “una scatola vuota”, o peggio, come afferma il titolare delle Riforme istituzionali, Calderoli, “un errore enorme”.

Anche le associazioni del mondo islamico in Italia hanno commentato in maniera diversa l’iniziativa.

Il presidente della Lega Musulmana Mondiale-Italia, Mario Scialoja, afferma che l’istituzione della Consulta è “un atto di lungimiranza e di grande saggezza” anche nella considerazione che si tratta di “un organismo consultivo, come dice il nome, e non rappresentativo”; analoghi commenti positivi sono giunti anche dalla Comunità religiosa islamica (Coreis), il cui presidente, Pallavicini, sostiene: “siamo contenti di iniziare a lavorare insieme al Ministro”.

Meno entusiasta l’Unione delle comunità islamiche italiane (Ucoii) il cui presidente Dachan invita alla cautela “perché prima bisognerà vedere i nomi dei componenti”, in particolare, l’Ucoii esprime insoddisfazione perché la scelta dei componenti dell’organo consultivo sarà dettata dal Viminale invece di essere determinata attraverso democratiche elezioni da parte delle comunità musulmane.

Infine per il presidente dell’Istituto culturale islamico di viale Jenner a Milano, Abdel Hamid Shaari: “la Consulta è un passo in avanti ma non è rappresentativa dei musulmani in Italia”.



b) Il Decreto Ministeriale 30 novembre 2005

Con il Decreto Ministeriale del 30 novembre 2005, si è fatto il secondo, decisivo, passo per l’effettiva costituzione della Consulta per l’islam italiano sono stati, infatti, nominati i seguenti 16 componenti di religione e cultura islamica di cui all’art. 2 del D.M. 10 settembre 2005: Ejaz Ahmad, italiano di origine pachistana, giornalista – Roma; Khalil Altoubat, italiano di origine giordana, fisioterapista – Roma; Rachid Amadia, algerino, imam – Salerno; Kalthoum Bent Amor Bent Soltane, tunisina, lettrice di lingua araba – Urbino; Khalid Chaouki, marocchino, studente operatore della comunicazione – Napoli; Mohamed Nour Dachan, italiano di origine siriana, medico, presidente UCOII – Ancona; Zeinab Ahmed Dolal, somala, operatrice sanitaria – Roma; Gulshan Jivraj Antivalle, italiana nata in Kenia, presidente della Comunità Ismailita italiana – Roma; Tantush Mansur, libico, presidente U:I.O. – Roma; Yahya Sergio Yahe Pallavicini, italino, imam vice presidente COREIS – Mlano; Mohamed Saady italiano di origine marocchina, co-presidente ANOLF; Souad Sbai, marocchina, giornalista presidente Associazione donne marocchine in Italia – Roma; Mario Scialoja, italiano, ambasciatore a riposo direttore della sezione italiana della Lega Mondiale Musulmana – Roma; Roland Seiko albanese, giornalista – Roma; Younis Tawfik, italiano di origine irachena, scrittore – Torino; Mahadou Siradio Thiam, senegalese, operatore nel mondo del volontariato – Roma.

Nella nomina è stata prestata particolare attenzione alle diverse espressioni della società civile, alle donne e ai giovani, in particolare, vi sono imam, scrittori, giornalisti, studenti, operatori sanitari, volontari. Sono 16 islamici, di cui almeno la metà ha la cittadinanza, che risiedono regolarmente, da anni, in varie città del nostro Paese e che sono punti di riferimento per le rispettive comunità: albanese, algerina, pachistana, giordana, tunisina, siriana, somala, libica, irachena, senegalese.

Figurano, inoltre, alcuni esponenti delle grandi organizzazioni islamiche presenti sul territorio italiano, pertanto, siederanno allo stesso tavolo gli esponenti  dell’U.C.O.I.I., della U.I.O., del C.O.R.E.I.S. e della Lega Musulmana Mondiale.

Differentemente dalla Francia e dal Belgio, in Italia è stato istituito un organo che prescinde da qualsiasi criterio di appartenenza e rappresentatività poiché la diversità etnica dei musulmani e la pluralità delle organizzazioni esistenti nel nostro Paese hanno costituito un evidente ostacolo all’emersione di una reale rappresentatività dell’islam italiano.

Attualmente si può parlare di molti islam presenti sul nostro territorio, vi è quello delle quattro associazioni che hanno chiesto l’intesa, e che peraltro divergono profondamente tra di loro, e che sono: la già più volte citata “Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia” (Ucoii), particolarmente presente nelle moschee ed estesa sul tutto il territorio nazionale; il “Centro islamico culturale d’Italia”, l’unica associazione ad aver ottenuto il riconoscimento quale ente morale di diritto privato, si tratta di un centro legato al peso politico e diplomatico di alcuni Paesi, tra cui Arabia Saudita e Marocco; “l’Associazione dei Musulmani Italiani” (Ami) e la “Comunità religiosa islamica” (Coreis) che rappresentano soprattutto i gruppi mistici.

Vi sono, poi, l’ “Unione islamica occidentale” (U.I.O.) che è, a sua volta, espressione della World Islamic Call Society; la Lega Musulmana Mondiale e la Comunità Ismailita Italiana.  Tanto per citare solo le associazioni più conosciute.

Questo mondo così variegato, con istanze tanto diverse e a volte contrapposte, non riesce a proporre un’unica rappresentanza che possa confrontarsi con le istituzioni; invero le rappresentanze si formano solo attraverso democratiche elezioni, ma in Italia la comunità musulmana, così recente e multiforme, non è ancora in grado di esprimersi attraverso democratiche consultazioni, peraltro, non esistono né statistiche, né rilevazioni che attestino la rappresentanza di alcuna associazione.

Pertanto, anche le personalità che sono state nominate a comporre la Consulta per l’Islam italiano, non hanno alcuna pretesa di dare rappresentanza a tutti i musulmani d’Italia e, in tal senso, tutti quelli che sono stati inseriti nell’organo consultivo, anche se appartengono a determinate associazioni, non partecipano alla Consulta in qualità di rappresentanti di quegli organismi, bensì, in qualità di persone con una profonda conoscenza dell’islam, di sicura fede democratica e provata lealtà istituzionale.

Come per il precedente decreto di costituzione, all’indomani della pubblicazione dei nomi dei componenti, le reazioni del mondo politico sono state improntate ad un largo consenso fatta eccezione per la LEGA NORD che ha bocciato la Consulta definendola uno “specchietto per le allodole”. Riserve sono, comunque, state espresse sia da parte del mondo musulmano (Coreis) sia dalla stampa (M.Allam) sul coinvolgimento del presidente dell’U.C.O.I.I., associazione storicamente legata al movimento integralista dei Fratelli Musulmani.

Al riguardo si ritiene che lasciare fuori tale associazione dal contesto della Consulta sarebbe forse stata la decisione più facile ma, probabilmente, anche la più errata considerato che l’U.C.O.I.I. rappresenta tutte le moschee d’Italia e, dunque, è una voce rilevante e interessante per capire le problematiche e le istanze della galassia islamica.

Pertanto è utile che anche questa voce sia ascoltata, sempre nella determinazione che lo Stato non delega nulla alle associazioni, che verrà esercitata sempre una costante attenzione critica sui lavori in merito ai quali verrà effettuato il vaglio definitivo della mediazione politica.



c)  Difficoltà, aspettative, prospettive

Si può ragionevolmente prevedere l’insorgere di problematiche ed ostacoli nel raggiungimento degli obiettivi della Consulta, trattandosi di un’iniziativa del tutto inedita nel panorama istituzionale del nostro Paese.

Invero il primo aspetto di criticità risiede appunto nella novità di questo organo la cui gestione non può, dunque, giovarsi di prassi consolidate e comportamenti già collaudati dall’esperienza.  Con ogni probabilità, quindi, all’inizio si procederà anche per tentativi per trovare, via facendo, i meccanismi più giusti per un reale funzionamento, il più possibile democratico, di un organo che prescinde da qualsiasi appartenenza e rappresentatività dei suoi componenti.

Proprio la mancanza di rappresentatività costituisce un altro punto di rilevante problematicità. Si potrebbe, infatti, correre il rischio che il nuovo collegio venga percepito come un’imposizione dall’alto e che, pertanto, non riesca ad assumere presso la comunità musulmana quell’influenza e quell’autorevolezza auspicabili per un’azione incisiva ed efficace in tema di integrazione.

Per tentare di ridimensionare tale rischio si è cercato di raccogliere nel nuovo organo alcune delle personalità più significative del vasto panorama islamico italiano, con particolare attenzione al loro atteggiamento di moderato e improntato ad un fattivo dialogo.



L’aspettativa, infatti, è di costituire una Consulta nell’ambito della quale tali personalità si atteggino realmente come moderati, come persone che vogliono dialogare per individuare i problemi di questa importante comunità  per trovare insieme soluzioni adeguate e praticabili sempre, però, nel rispetto delle nostre leggi e dei nostri valori democratici; una Consulta, quindi, che sia uno strumento per favorire il dialogo tra lo Stato e la maggioranza dei musulmani presenti sul nostro territorio. Un organo di tal genere potrà coadiuvare il Dicastero dell’Interno, che svolge un’importante, complessa e delicata azione amministrativa in materia di libertà civili e di immigrazione, a conoscere e comprendere in maniera più approfondita i fenomeni legati all’integrazione sociale di tutti quegli immigrati islamici giunti nel nostro Paese solo per lavorare onestamente. Pertanto, ai componenti della Consulta verranno chiesti pareri e orientamenti in merito ad una serie di questioni di notevole rilevanza per un armonico inserimento degli immigrati islamici nella nostra società. Questioni relative al mondo del lavoro, alla scuola, all’assistenza religiosa nelle carceri e negli ospedali, al rituale della macellazione delle carni, alle zone di sepoltura nei nostri cimiteri all’eguaglianza di diritti tra uomini e donne e soprattutto alla formazione degli imam.  Su questa problematica è posta una particolare attenzione nella consapevolezza che queste figure, così influenti nelle comunità islamiche, sono spesso strumento del fondamentalismo, pertanto, si ritiene necessario che essi parlino l’italiano, e diano assoluta garanzia del rispetto del nostro ordinamento giuridico e politico, della nostra identità, della nostra cultura e dei nostri valori.

L’aspettativa è, quindi, di poter costruire un organo consultivo nel quale ci si confronti su questi temi cruciali e che possa, nel tempo, aiutare le istituzioni e la società ad evitare casi complessi di distorta integrazione come ad esempio quello del liceo milanese che aveva progettato una classe riservata agli studenti islamici, vedendola come il solo strumento possibile di integrazione degli studenti musulmani.L’aspettativa maggiore è, pertanto, costituita dalla possibilità di produrre un costante dialogo che consenta reciproca conoscenza e rispetto.

“Con l’istituzione della Consulta, si compie il primo passo di un cammino, certamente non breve né facile, che dovrà condurci alla formazione di un Islam italiano e cioè di una comunità pacificamente inserita nel tessuto economico e sociale del nostro Paese libera di professare le proprie convinzioni religiose e di salvaguardare la propria identità ma, al tempo stesso, pienamente rispettosa dei nostri valori e dei nostri ordinamenti”.

Con queste parole il Ministro dell’Interno, Pisanu, ha chiaramente indicato la prospettiva della Consulta, ovverosia una tappa per la costruzione di un “Islam italiano” che è cosa ben diversa da un “Islam in Italia”. Quest’ultimo concetto starebbe ad indicare un credo islamico che poggia esclusivamente sulle proprie basi, senza ritenersi vincolato dalle leggi dello Stato italiano ma, anzi, considerando doveroso violarle se queste dovessero contrastare con un precetto religioso.

Differentemente, la definizione di “Islam italiano” starebbe ad indicare una comunità di immigrati regolari, salvaguardata nella propria identità, anche religiosa, ma rispettosa dei nostri valori e della nostre leggi, che nasce e si sviluppa nell’ambito del nostro Stato di diritto.

Per contribuire alla formazione di una tale comunità, pacificamente inserita nel tessuto economico e sociale del nostro Paese, è necessario, attraverso il dialogo che genera reciproca conoscenza, far emergere l’anima islamica moderata all’interno delle comunità musulmane, individuando quei musulmani che sono venuti in Italia solo per migliorare le loro condizioni di vita, col sincero proposito di vivere in pace nella società che li accoglie, rispettandone le leggi e gli ordinamenti. Al riguardo si rileva che passi in avanti in questa direzione sono già stati fatti.

Il 2 settembre 2005 il Corriere della sera ha pubblicato il “Manifesto contro il terrorismo e per la vita”, sottoscritto da esponenti delle varie realtà musulmane presenti in Italia compresi i convertiti all’islam, laddove si rinviene il rifiuto del culto della morte e del terrorismo, il riconoscimento della sacralità della vita umana, il rispetto assoluto delle leggi dello Stato e dei valori fondanti della Costituzione con l’esplicito proposito che: “…i luoghi di preghiera siano delle case di vetro aperte ed in simbiosi con l’insieme della società italiana,…le moschee d’Italia non devono in alcun modo trasformarsi in cavallo di Troia di ideologie integraliste e di strategie internazionali volte ad imporre un potere islamico teocratico e autoritario”.

Nel “Manifesto”, che appare come un netto rifiuto della ferocia terroristica, i firmatari manifestano pensieri e intenzioni nelle quali potrebbe riconoscersi la maggioranza degli immigrati islamici, quegli immigrati venuti in Italia solo con l’intenzione di lavorare per migliorare le proprie condizioni economiche rispettando i nostri ordinamenti senza, peraltro, rinunciare alla propria identità e alla propria fede.

E’, dunque, da queste affermazioni che bisogna partire per formare un Islam italiano, fatto di cittadini italiani, che parlano l’italiano, laico e non integralista, aperto al dialogo sia con le altre confessioni religiose sia con le istituzioni pubbliche, centrali e locali ed è su questa maggioranza di musulmani moderati d’Italia che bisogna scommettere per far decollare la Consulta quale efficace interlocutore dello Stato.

Tutto ciò nella consapevolezza che “…gli islamici moderati sono i nostri naturali alleati nella lotta al terrorismo ed alla violenza estremista” (già Ministro dell’Interno, Pisanu).



Conclusioni

L’elaborazione di politiche di integrazione delle comunità islamiche è diventato, dunque, un punto focale della politica governativa nella consapevolezza che creare condizioni migliori per una reale integrazione di tali immigrati, combattere ogni loro forma di isolamento culturale e di emarginazione sociale, non solo permette il formarsi di una pacifica ed armonica società civile, ma impedisce che attecchiscano il fanatismo religioso e la violenza politica indiscriminata.

Affinché queste politiche possano essere veramente efficaci è, però, essenziale che si proceda verso un’integrazione sostanziale e non solo formale, un’integrazione “possibile” con quella che è la componente migratoria culturalmente più lontana dal nostro modo di essere e di pensare, un’integrazione, comunque, indispensabile considerato che l’Islam, ormai, è la seconda religione del nostro Paese, e che l’immigrazione musulmana rappresenta circa il 35% dell’immigrazione complessiva italiana. E’, pertanto, essenziale una politica fondata sulla consapevolezza dei problemi comuni e sulla capacità di vedere nell’immigrazione musulmana non solo un problema ma anche una risorsa per il nostro presente e per le future generazioni. Il problema di fondo consiste, dunque, nella capacità di creare una cornice istituzionale in grado di tutelare l’identità, la cultura e gli ordinamenti della nostra società e, nel contempo, di riconoscere le peculiarità degli immigrati islamici, ponendo in essere politiche di convivenza e di inclusione in grado di contenere tutte le differenze, anche religiose, sempre nel rispetto delle nostre leggi e della nostra Costituzione.

Proprio in questo si sostanzia la sfida e la vocazione della Consulta per l’islam italiano che, in assenza di un’intesa tra Stato e credo islamico, si pone come valido tavolo di confronto utile a trovare soluzioni condivise in merito alle problematiche di mancata o difficile integrazione dell’immigrazione islamica, laddove le personalità chiamate a farne parte dovrebbero essere in grado di apportare un valore aggiunto alla conoscenza di tali questioni evidenziando la posizione delle comunità islamiche in merito alle strategie per favorire l’integrazione.

Per aiutare la Consulta a vincere la sua sfida sarebbe auspicabile un’ulteriore tappa istituzionale sul cammino delle politiche di integrazione ovverosia la formazione di un “Comitato scientifico”, composto da studiosi delle varie branche giuridiche, in grado di vagliare le proposte della Consulta che spazieranno in tutti i campi del diritto, dal costituzionale al civile, dall’amministrativo al penale, tanti quanti sono i campi di intervento relativi ai principali problemi di integrazione che riguardano la comunità islamica e che vanno, come già visto, dai matrimoni misti e dal riconoscimento del matrimonio celebrato con rito islamico alla costruzione delle moschee, dalla richiesta della celebrazione di alcune festività alla formazione degli imam, dagli spazi nei cimiteri alla macellazione delle carni. Tutte queste problematiche necessitano di un impegnativo approfondimento giuridico per consentire di approntare soluzioni che riescano a conciliare le peculiari istanze che provengono dalla comunità islamica, con il nostro sistema normativo e costituzionale; in tal senso l’istituzione di un Comitato scientifico potrebbe essere il terzo gradino, dopo l’istituzione e la costituzione della Consulta, per favorire un più maturo ed armonico processo di integrazione delle comunità islamiche nella nostra società nazionale.















[1] Vice Prefetto della Repubblica.
[2] “L’immigrazione può temperare gli effetti negativi che il modello di sviluppo italiano sta da ultimo evidenziando ed aiutarci ad affrontare meglio il futuro…da diversi anni mancano forze lavoro locali in diversi settori e occupazioni, ma queste lacune sono state colmate. Non ci riferiamo solo al mezzo milione circa di donne straniere che si prendono cura delle nostre famiglie; sono più del doppio i lavoratori immigrati che si sono inseriti in altri settori. Basti pensare all’agricoltura, all’edilizia alla pesca, all’allevamento, a certi rami dell’industria o di servizi. Senza di loro sarebbe stata un autentico disastro. L’osmosi tra le frontiere è una possibilità per chi emigra di affrancarsi da una situazione di disoccupazione o di sottoccupazione e per noi di adeguare il rapporto tra domanda e offerta di lavoro al nuovo scenario transnazionale. Ci riferiamo non ad un’idea immaginaria dell’immigrazione, bensì a quella che si è concretamente insediata nel nostro Paese e a quella che si svilupperà a seguito di tali avvenimenti. Il fenomeno, così inquadrato, dà adito ad una lettura non pauperistica dell’incontro tra società italiana e popolazione immigrata.” Brano tratto da: Caritas Migrantes Dossier Statistico Immigrazione 2005
[3] Dati Ministero Interno/ISTAT
[4] Dati tratti dal Terzo rapporto IRES-CGL sull’immigrazione del maggio 2005, riportato da Caritas/Migrantes 2005
[5] La discriminazione nella ricerca degli alloggi è confermata da un’indagine condotta da www.sranieriinitalia.it e pubblicata nel sito ad aprile 2005, realizzata attraverso la lettura dei due principali giornali di annunci delle città di Roma e di Milano, rispettivamente Porta Portese e Seconda mano.
[6] Da un sondaggio telefonico condotto a luglio 2005 dalla SWG per l’Espresso, riportato da Cartas/Migrantes 2005.
[7] Nel 2005 il Ministero delle Pari Opportunità ha pubblicato materiale divulgativo e informativo per approfondire le modalità legislative e operative della lotta alla discriminazione: Tutti diversi, Tutti Uguali, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Demetra 2005; Integrazione non discriminazione: panorama normativo e ruolo dell’UNAR, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Demetra 2005
[8] Dati UNAR
[9] Questa ipotesi è sostenuta da prof. Huntington nel libro “Lo scontro di civiltà” edito da Garzanti 2000.