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mercoledì 26 aprile 2017

Ricerca Parametrale n. 531. Notizie del 25 aprile 2017

 Presidenziali Francia, Ue-India, Iraq
Newsletter n° 531 , 25 aprile 2017

Europa e apertura al mondo contro Brexit e chiusura delle
 frontiere. Il primo turno delle presidenziali francesi conferma 
i sondaggi e manda al ballottaggio il 7 maggio prossimo, 
Emmanuel Macron e Marine Le Pen, alfieri di due messaggi politici mai così opposti. Il vero sconfitto, insieme a quel che resta del partito socialista del presidente Hollande, 
è il bipolarismo della Quinta Repubblica: con anche
 i gollisti fuori gioco, i due partiti che hanno caratterizzato 
la vita politica del secondo dopoguerra non saranno al 
ballottaggio, e chiedono di far fronte comune contro la
 Le Pen. Ma il vero rompicapo riguarda la governabilità: le legislative
 di giugno daranno al prossimo presidente una maggioranza omogenea? 
E mentre Bruxelles spera di ricavare nuova energia dal voto francese
 (anche in vista dei prossimi appuntamenti elettorali in 
Gran Bretagna e Germania), l'Ue lavora al rilancio delle 
relazioni con l'India, dopo anni di rapporti freddi. In Iraq,
 intanto, l'esercito continua a togliere terreno all'Isis, 
consolidando la presa di Mosul: ma la pace passa da
 un coinvolgimento attivo della minoranza sunnita. 

Corsa all’Eliseo
Francia: la parola agli elettori (e ai terroristi)
Isabella Ciotti
21/04/2017
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Tempo due settimane e la Francia avrà un nuovo presidente: potrebbe essere un conservatore o un riformista, un liberista o un anticapitalista, un visionario o un realista. Potrebbe anche essere donna e antieuropeista.

Undici candidati, cinque e forse solo quattro i veri papabili. Domenica 23 aprile il primo turno: se nessuno raggiungerà il 50 % più uno dei voti validi - come già si prevede - il prossimo 7 maggio i francesi torneranno alle urne per il secondo turno, un ballottaggio tra i due che avranno raccolto più suffragi.

A 72 ore dalle elezioni i sondaggi parlano di elettori ancora indecisi o, peggio, propensi all’astensione, per ora attesa al 30%. Sulle intenzioni di voto pesano, in queste ore, le incognite collegate alle pulsioni suscitate dall’attentato di giovedì notte sui Campi Elisi: un attacco integralista in uno dei luoghi simbolo di Parigi, non articolato e corale come la notte del Bataclan e non drammaticamente letale come a Nizza, ma comunque capace di suscitare apprensione e paura.

Confonde, e non giova, l’assenza di una netta contrapposizione tra destra e sinistra: i colori politici primari sono sfumati in tante tinte secondarie, con esponenti dei vecchi partiti ora candidati con formazioni create a misura di elezione.

Tanto che a risaltare, in campagna elettorale e nei dibattiti televisivi, sono stati gli estremi - e i più in polemica con l’Ue - Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon: l’una che da destra chiede di uscire dall’Unione, l’altro che da sinistra vorrebbe rinegoziare i Trattati. A spaventare di più resta il Front National, il partito della Le Pen su cui gli euroscettici d’Europa - fallito il colpo in Olanda - ripongono le loro speranze.

I socialisti con le primarie hanno scelto un candidato di sinistra cui ora contendono i voti altri candidati di sinistra. La destra tradizionale repubblicana, sempre con le primarie, ha puntato su un candidato minato dagli scandali personali, rinunciando a carte probabilmente vincenti. E forse le forze politiche classiche pagheranno le loro scelte e la loro frammentazione alle prossime legislative.

Un mese dopo il ballottaggio - l’11 e il 18 giugno - i francesi dovranno infatti votare il loro Parlamento, con un sistema maggioritario che, ad oggi, fa prevedere risultati anomali: un presidente senza il suo partito - o senza maggioranza - all’Assemblea Nazionale, costretto a convivere con il governo di un partito, o di una coalizione, di segno diverso.

Marine Le Pen, la populista per eccellenza
Ha ereditato e ristrutturato un partito di antagonisti con la pretesa di farne un movimento rispettabile ma comunque anti-sistema. La figlia di Jean Marie, che approdò al ballottaggio nel 2002, complici le divisioni della sinistra, è riuscita meglio di altri in Europa ad attirare l’attenzione su un programma fortemente euroscettico e populista: con lei via dall’euro via dall’Unione e via pure dalla Nato (malgrado il parere opposto di alcuni dirigenti del suo partito).

La sua Francia, come l’America di Trump, deve venire prima di qualsiasi altro interesse. Sull’immigrazione, che vede come una minaccia, ha ammonito pure il Papa, “reo” di interferire coi suoi messaggi di carità nelle scelte dei governi. Marine Le Pen è la scelta di chi “vuole rovesciare il tavolo”. Per i suoi slogan, e per la presa che sembrano avere sugli elettori francesi, è la populista più temuta a Bruxelles. È accusata di aver affidato a persone a lei vicine finti incarichi al Parlamento europeo.

Francois Fillon, il Thatcher francese
Primo ministro con Nicolas Sarkozy, esponente dell’ala destra dei Repubblicani, Fillon ha vinto le primarie del partito battendo a sorpresa Alain Juppé e il “suo” ex presidente. Lo chiamano il Thatcher francese, per il suo programma vagamente ispirato alle politiche dell’ex premier britannica: tagli alla spesa pubblica e agli oltre cinque milioni di funzionari attualmente impiegati nel settore pubblico.

Ha saputo allearsi con alcuni ambienti cattolici conservatori, come l’associazione Sens Commun, garantendosi da un lato uno zoccolo duro di elettori, limitando dall’altro il suo margine d’azione. Le sue posizioni conservatrici in materia di immigrazione e diritti civili - gradite ai cattolici che lo sostengono - in un primo momento hanno fatto pensare a lui come all’unico candidato in grado di arginare il Front National di Marine Le Pen.

Come la Le Pen, più della Le Pen, la sua credibilità è però compromessa da quello stipendio sospetto pagato alla moglie per l’incarico - fittizio? - di assistente parlamentare, su cui indaga la magistratura.

Emmanuel Macron, l’europeista in solitaria
Alto funzionario uscito dalla prestigiosa Ena, l’École nationale d'Administration, poi banchiere d’affari, poi consigliere economico di François Hollande e da ultimo ministro dell’Economia con Manuel Valls, Emmanuel Macron è uscito dal governo per mettersi “En Marche” da solo a metà strada tra la sinistra e la destra. Ha beneficiato della vittoria di Fillon alle primarie repubblicane e di Benoit Hamon a quelle socialiste, che hanno creato al centro un habitat per la formazione di un partito moderato.

È forse questo suo impegno a rappresentare una soluzione di compromesso, a correre non per i partiti storici ma “per la Francia”, a farlo figurare oggi fra i favoriti. Il suo programma, che lui sintetizza con l’espressione “rivoluzione democratica”, si caratterizza per l’orientamento liberista e - soprattutto - europeista. I suoi slogan non sono piaciuti ad alcuni critici, che dietro alla sua terza via hanno visto più che altro un vuoto di idee.

Benoit Hamon, l’utopista vicino a Sanders
È il candidato del “reddito minimo universale”, la proposta che più si ricorda del suo programma. Anche lui già ministro, con Ayrault e con Valls, ha sconfitto l’ex premier alle primarie socialiste. Se Fillon è la Thatcher, Hamon è ormai noto come il Bernie Sanders francese (o il Jeremy Corbyn, a seconda dei punti di vista): ecologista, vicino agli interessi dei lavoratori, il candidato socialista vuole anche ridurre la settimana di lavoro da 35 a 32 ore e introdurre una tassa sui robot.

La sua campagna, inizialmente promettente, ha perso il sostegno di alcuni fra gli stessi compagni di partito: i più moderati si sono spostati verso Macron, i più radicali verso Mélenchon. E ora Hamonviv e la vigilia delle elezioni lontano dal ballottaggio sulla griglia di partenza.

Jean-Luc Mélenchon, il megafono della classe operaia
Politico di lungo corso, già socialista, ha saputo costruirsi uno spazio alla sinistra del partito raggruppando sotto la sua bandiera - la France Insoumise - i comunisti e alcune formazioni della sinistra radicale. È stato l’oratore più abile della campagna elettorale, guadagnando punti soprattutto nei dibattiti televisivi. Si presenta come il candidato delle fasce operaie, ma ha saputo attirare a sé anche le classi medie e gli intellettuali di sinistra, con un programma visionario che propone una rivoluzione dei cittadini e una nuova Costituzione.

Mélenchon vuole tassare i più ricchi e garantire un salario minimo che favorisca i più poveri, riportare l’età pensionabile a sessant’anni, promuovere politiche a tutela dell’ambiente. In politica estera propone di rinegoziare i Trattati con l’Unione europea e di dialogare di più con la Russia. Un’accoppiata Le Pen / Mélenchon al ballottaggio, non esclusa dai sondaggi, anche se non la più probabile, è l’incubo degli europeisti.


Francia: i presidenti della Quinta Repubblica (Scheda)

Charles de Gaulle, 1959-1969
È il padre dell’attuale Costituzione francese, che fa redigere durante il mandato da presidente del Consiglio, nel 1958. Eletto alla presidenza della neonata Quinta Repubblica, il generale si impegna a prendere le distanze tanto dagli Stati Uniti quanto dal blocco sovietico, ponendo inoltre il veto all’ingresso del Regno Unito nella allora Cee. Tra le preoccupazioni di un presidente della Francia, in quegli anni, ci sono anche la guerra d’Algeria, cui De Gaulle riconosce l’indipendenza, e l’ondata di proteste operaie e studentesche nel 1968 passata alla storia come il Maggio francese.

Georges Pompidou1969-1974
Annunciando la morte di De Gaulle, nel 1970, dichiara che la “Francia è vedova”. Quattro anni dopo sarà lui a privare il Paese del suo Presidente, morendo prima della fine del settennato e lasciando incompiuto il suo programma di riforme, economiche e non solo: a lui si deve, ad esempio, la nascita in Francia del Ministero dell’Ambiente. Nel 1969 all’Aja, Pompidou propone il rilancio dell’integrazione europea, e nel 1972 indice un referendum sull’ingresso del Regno Unito nella Cee.

Valéry Giscard d'Estaing 1974-1981
Europeista della prima ora, è tra i promotori dell’elezione diretta del Parlamento europeo, dell’istituzione del Consiglio europeo e dei primi passi verso la creazione della moneta unica, con l’Emu. Sua è anche l’idea, nel 1975, di convocare e ospitare il primo Vertice dei Grandi a Rambouillet - un G5 inizialmente, allargatosi poi a Italia e quindi Canada fino a diventare il G7.

François Mitterrand 1981-1995
È il primo presidente socialista della Quinta Repubblica, carica che mantiene per 14 anni, affermandosi come il coinquilino più longevo dell’Eliseo. Con lui la Francia abolisce la pena di morte e depenalizza l’omosessualità. In Europa porta avanti e ravviva il percorso iniziato dal suo predecessore, rinvigorendo inoltre - con la collaborazione del cancelliere tedesco Helmut Kohl - l’amicizia con la Germania. Nel 1992 indice un referendum per chiedere ai francesi di esprimersi sulla ratifica del Trattato di Maastricht, che trasforma la Comunità in Unione. Vinceranno i Sì.

Jacques Chirac 1995-2007
Leader dei neogollisti, fondatore del Raggruppamento per la Repubblica, è sotto la sua presidenza che il mandato viene ridotto da sette a cinque anni. Tra i provvedimenti presi da Chirac anche la riduzione dell’orario settimanale di lavoro e l’introduzione delle unioni di fatto. Durante il suo secondo mandato, nel 2005, deve affrontare le rivolte delle Banlieue parigine, un’esplosione delle tensioni etniche e razziali covate nelleperiferie e una ferita ancora aperta nella Francia di oggi. Tiene la Francia, con la Germania, fuori dalla ‘coalizione dei Volenterosi’ che partecipa all’invasione dell’Iraq.

Nicolas Sarkozy 2007-2012
Repubblicano, èil presidente della “Rupture”, come lui stesso definisce il suo programma riformatore, ed è anche soprannominato l’Americano, per le sue posizioni nettamente più filo-Usa rispetto a quelle del predecessore. Nel 2014 è il primo ex capo di Stato francese ad essere posto in stato di fermo: l’accusa è di corruzione e traffico d’influenze. Torna alla vita politica l’anno dopo, vincendo le elezioni provinciali con una nuova coalizione di centro-destra. Si ricandida infine alle primarie dei Repubblicani per le presidenziali: sconfitto, annuncia il ritiro a vita privata, come già aveva fatto dopo aver perso nel 2012 contro Hollande.

François Hollande 2012-2017
Il presidente uscente lascia l’Eliseo dopo sette anni di travagli, pubblici e privati, segnati da un costante calo in termini di popolarità. L’uomo che con la sua “normalità”, aveva battuto l’ex presidente Sarkozy, che ha riformato il fisco e introdotto matrimoni e adozioni gay, ha poi imboccato la strada del declino senza riuscire a fermarsi: dalla storia clandestina con Julie Gayet alla contestata riforma del lavoro, all’atteggiamento per alcuni troppo conciliante verso la cancelliera Merkel. Ma Hollande sarà anche ricordato come il presidente della Francia umana e composta di fronte alla minaccia del terrorismo e dell’estremismo jihadista.

Isabella Ciotti è giornalista.




Ricerca Parametrale n. 530. Notizie del 21 aprile 2017

Gran Bretagna al voto, gasdotto East Med, Svezia
Newsletter n° 530 , 21 aprile 2017

Meno di dodici mesi dopo la storica decisione di lasciare l'Ue, 
i britannici torneranno alle urne per le elezioni generali anticipate, 
convocate per il prossimo 8 giugno, in anticipo sui termini della
 legislatura. Di fronte a opposizioni fragili e divise, con 
questa decisione a sorpresa la premier Theresa May 
punta a rafforzare la propria leadership sul Paese e sul
 partito conservatore, e a ottenere un forte mandato 
per negoziare con Bruxelles i termini della Brexit. E mentre, 
in pieno clima G7 a presidenza italiana, il premier
 Gentiloni va a Washington dal presidente Trump e a
 Ottawa, si raccolgono i frutti dei primi incontri 
ministeriali dei Grandi. L'energia non ha 
prodotto grandi speranza, date le reticenze
 degli Stati Uniti sulla lotta al cambiamento 
climatico, ma l'Ue ha raggiunto uno storico
 accordo per il gasdotto East Med,
 che dal Mediterraneo orientale 
raggiungerà l'Europa passando anche per l'Italia.
 La Svezia, intanto, rinnova il comparto sicurezza 
e reintroduce la leva obbligatoria per tutti: c'è il timore 
della Russia dietro l'avvicinamento alla Nato?



La May cambia idea
GB: voto anticipato causa Brexit
David Ellwood
20/04/2017
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La domanda se la pongono in tanti: dopo avere ripetutamente detto che mai e poi mai si sarebbe rivolta alle urne per avere una conferma della sua visione politica, perché la premier britannica Theresa May ha improvvisamente cambiato idea, portando il Paese a elezioni anticipate?

Nel dare l’annuncio formale della consultazione generale convocata per il prossimo 8 giugno, la May ha spiegato che era necessario un chiarimento definitivo, non sopportando più di essere ostacolata da varie forze di opposizione, anche dentro il suo stesso partito conservatore.

Molti hanno suggerito che la premier non resisteva più alla tentazione di approfittare della manifesta debolezza politica del partito laburista di Jeremy Corbyn per ottenere una maggioranza schiacciante in Parlamento e procedere così indisturbata per la sua strada.

Altri ancora hanno fatto notare che, mentre sulla Brexit la premierpuò contare sul sostegno di gran parte dei parlamentari Tories, su certi temi economici e sociali (tra cui le riforme della scuola, del sistema pensionistico e degli enti locali), l’attuale maggioranza assoluta di 17 seggi (comprensivi anche di 10 unionisti nordirlandesi) alla Camera dei Comuni non è affatto sufficiente per permetterle di imporre le sue politiche.

Un forte mandato per la Brexit
Diversi commentatori hanno notato che un mandato rinnovato - e si presume rafforzato - permetterebbe a Theresa May di presentarsi ai negoziati sulla Brexit di prossima apertura con un capitale politico aumentato, e quindi in una posizione contrattuale più solida rispetto alla situazione attuale.

Ma con un ritorno alle urne fissato per il 2020 (tale era la prospettiva fino a due giorni fa), la parte finale del periodo di due anni previsto dall’articolo 50 del Trattato di Lisbona per la conclusione dei negoziati sull’uscita dall’Unione europea (Ue) sarebbe stata inevitabilmente condizionata dalla scadenza elettorale.

Con l’avvicinarsi del voto, infatti, la squadra negoziale britannica sarebbe stata potenzialmente sempre più ricattabile dagli interlocutori di Bruxelles. Ora, nessuno crede neanche per un istante che le trattative con l’Ue saranno concluse in un tempo così breve, ma chi si assumerà la responsabilità del loro prolungamento?

Scozia ai margini
Chi comunque è stato preso in contropiede più di ogni altro protagonista della scena politica nazionale è stata Nicola Sturgeon, first minister di Edimburgo e leader del partito nazionalista scozzese (Snp). La sua insistenza quotidiana sulle priorità della Scozia, a partire da un secondo referendum per l’indipendenza, è stata brutalmente spinta ai margini dalla mossa dellaMay.

La Sturgeon ha ragione da vendere quando accusa la premier di ipocrisia e di doppiezza, ma c’è poco da fare: con 56 su 59 dei deputati scozzesi che siedono a Westminister appartenenti al Snp, per i nazionalisti sembra impossibile poter migliorare il risultato nelle urne dell’8 giugno; anzi, tutt’altro.

In generale, inoltre, la Scozia mostra segni sempre più evidenti di insofferenza per queste ondate continue di consultazioni elettorali: la prossima sarà la settima chiamata alle urne dal 2014 ad oggi. A nessuno sfugge che i risultati della gestione nazionalista dell’economia scozzese, e della cosa pubblica in generale, sono tutt’altro che brillanti, e che il martellamento sul chiodo fisso dell’indipendenza ha incontrato solo insofferenza e disprezzo a Londra.

Tuttavia, Nicola Sturgeon rimane l’unico personaggio politico in tutta la nazione britannica ad avere un solido seguito popolare, e può contare sull’estrema debolezza di tutti i suoi rivali nel Parlamento di Edimburgo. Il fatto, poi, che da anni è al potere a Westminster un partito capace di eleggere solo un deputato in Scozia (sui 59 seggi in palio) favorirà sempre chiunque rivendichi un distacco radicale da Londra.

Malcontento in Irlanda del Nord
Se gli scozzesi hanno votato tanto, in Irlanda del Nord la situazione è persino peggiore: con l’8 giugno, gli elettori delle sei contee della provincia saranno stati chiamati alle urne tre volte in poco più di un anno, con una quarta elezione per il Parlamento locale più che possibile, dopo l’esito incerto del voto di marzo. Crollata l’intesa che faceva funzionare un governo composto da unionisti e repubblicani, nessuno ha trovato finora una via d’uscita dalla paralisi, e l’agonia si prolungherà per altri due mesi almeno.

Su una sola cosa i cinque partiti principali possono essere d’accordo: in questa circostanza particolare il governo di Londra li ha totalmente ignorati, e con loro ha voltato le spalle a tutta la popolazione della provincia. Come ha scritto il quotidiano più autorevole dell’Irlanda del Nord, il Belfast Telegraph, “la nostra gente è la più attiva politicamente e la meno rappresentata di tutti nell’intero arcipelago britannico”.

Vincitori e vinti del confronto politico
Forse solo adesso i britannici cominciano a rendersi conto dell’immensità dello sconvolgimento messo in moto da quel gesto stizzito che è stato il voto a favore della Brexit. Senza il referendum spensieratamente voluto dall’allora premier David Cameron, niente di quello a cui si assiste in questi giorni sarebbe successo.

È altrettanto chiaro, poi, che la totale incapacità dell’opposizione laburista di Corbyn di condurre la campagna politica per rimanere nell’Ue ha reso possibile il successo della Brexit. Un fallimento da cui Corbyn stesso ha imparato poco o niente (al 20 aprile, il sito web del partito risultava aggiornato l’ultima volta 16 giorni prima).

Chi ha votato per la Brexit in nome della sacra sovranità del Parlamento di Westminster, dopo l’8 giugno si renderà con ogni probabilità conto che la suprema istanza della democrazia rappresentativa britannica conterà ancora meno di ora, e che la “dittatura elettiva” (espressione di un vecchio giurista e Lord degli anni ’60) di Downing Street regnerà incontrastata.

I parlamentari, quindi, si troveranno costretti ad accettare qualsiasi esito dei negoziati con l’Ue portati avanti da Theresa May. Toccherà a gruppi di pressione extra-parlamentari come Best for Britain e 38 Degrees, o think tank come il Center for European Reforme Demos, offrire qualche punto di riferimento politico e culturale alternativo al centralismo poco democratico che sembra l’esito più probabile per il Regno Unito dopo le elezioni anticipate di giugno.

David Ellwood, Johns Hopkins University, SAIS Bologna Center.



mercoledì 19 aprile 2017

Ricerca Parametrale N. 529. Notizie del 18 aprile 2017

Oggetto Newsletter : Turchia, Corea del Nord, G7 in Italia
Newsletter n° 529 , 18 aprile 2017

La Turchia si spacca in due, ma - con il 51% dei voti -
 consegna la vittoria a Erdogan e approva la sua riforma
 costituzionale che trasforma il Paese in una Repubblica 
presidenziale. Le opposizioni lamentano irregolarità e 
annunciano battaglia, mentre Erdogan esulta e 
prospetta un'altra consultazione popolare per reintrodurre
 la pena di morte. La tensione resta intanto alta nella
 penisola coreana, dopo l'invio della squadra navale 
della portaerei Carl Vinson da parte di Washington.
Il vicepresidente Usa Mike Pence ha cominciato
 proprio da Seul il suo tour asiatico, per rassicurare
 l'alleato sudcoreano e mandare segnali a Kim Jong-un: 
"La nostra pazienza strategica è finita". E l'Italia, 
tra crisi nel Pacifico e in Medio Oriente, è protagonista 
dell'agenda di politica estera 2017: dopo i primi
 incontri ministeriali di Lucca e Roma, si avvicina
 il G7 di Taormina, che vedrà il debutto di Donald
 Trump e del nuovo presidente francese, oltre
 che del premier Gentiloni e di Theresa May. 
L'alleanza transatlantica ne verrà fuori indenne?


Questione palestinese
La Scuola di Gomme di Al Khan Al Ahmar
Dipartimento di Policy di GVC Italia
17/04/2017
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Al Khan Al Ahmar è una delle 18 comunità beduine che risiedono in zona E1, l’area che prende il nome dal piano con il quale Israele ha programmato di unificare Gerusalemme Est a Ma’ale Adumim, uno degli insediamenti israeliani più grandi in Cisgiordania. Fondato nel 1975, secondo B’Tselem, è residenza di circa 40 mila coloni.

Nel villaggio di Al Khan Al Ahmar si trova la cosiddetta Scuola di Gomme, finanziata dalla Cooperazione Italiana allo Sviluppo. La scuola è a rischio di demolizione sin dal 2009 ed è al centro di lunghe vicende giudiziarie nelle Corti israeliane, nonché oggetto di scambi diplomatici fra Italia e Israele e proteste da parte dell’Ue.

A inizio marzo, le autorita’ israeliane hanno emesso ordini di demolizione per tutte le strutture del villaggio di Al Khan Al Ahmar, ponendo i residenti a rischio di un trasferimento forzato di massa e riportando il caso al centro dell’attenzione.

I residenti, rifugiati registrati dall’Unrwa, provengono dal deserto del Naqab, oggi parte di Israele.Secondo l’organizzazione Bimkom, furono espulsi dalle proprie terre nei primi Anni ‘50. Fanno parte dei circa 300,000 palestinesi, stimati dalle Nazioni Unite, residenti in Area C all’interno di piccoli villaggi costituiti da baracche e circondati da insediamenti israeliani, illegali per il diritto internazionale.

Dal punto di vista dei coloni
Lo scorso 13 marzo, Josh Hasten, dell’organizzazione dei coloni israeliani Regavim, ha pubblicato un articolo sul Jerusalem Post, in cui illustra ‘il diabolico piano di Autorità palestinese e Unione europea per l’Area C’, colpevoli di sostenere la crescita di mini-città in Area C e nello specifico nel corridoio E1. Secondo l’autore ‘il principale accampamento illegale, divenuto il simbolo di questa storia, è la comunità di Khan Al Ahmar’.

Rifacendosi al regime dei permessi di costruzione applicato da Israele in Cisgiordania e ritenuto discriminatorio dalle Nazioni Unite e da vari esperti di diritto internazionale, Hasten ritiene le attivita’ di Unione europea e Autorità palestinese ‘illegali’ in quest’area. Hasten ha aggiunto che ‘il Governo ha fatto di tutto per offrire soluzioni abitative permanenti a queste famiglie’, riferendosi ai siti urbani costruiti da Israele in Cisgiordania dove i beduini dovrebbero essere rilocati, una volta trasferiti forzatamente.

Demolizioni e sfollati in E1
Secondo le Nazioni Unite nei primi due mesi del 2017 le autorità israeliane hanno demolito 24 strutture nelle 18 comunità beduine che vivono nella zona E1, provocando lo sfollamento di 133 persone, di cui la metà bambini. Metà delle strutture demolite erano assistenza umanitaria da parte di Stati europei. In totale, fra il 2013 e il 2016 le autorita’ israeliane hanno demolito circa 180 strutture in 13 delle 18 comunità situate nella zona E1 provocando lo sfollamento di 500 persone.

Le demolizioni in Area C sono suffragate dalla mancanza di permessi di costruzione, ma secondo B’Tselem, fra il 2000 e il 2012, solo il 5,6% delle richieste di permessi è stato approvato e secondo Bimkom, fra il 2010 e il 2014, il 98% delle richieste di autorizzazione a costruire in Area C da parte di palestinesi è stata rigettata. Tale situazione obbliga la popolazione palestinese a realizzare, in condizioni precarie, le infrastrutture temporanee necessarie a soddisfare i bisogni basici.

Una parte per il tutto
Negli ultimi due anni, demolizioni e confische nei villaggi palestinesi in tutta l’Area C sono aumentate, parallelamente all’espansione di insediamenti israeliani. Il caso di Al Khan Al Ahmar è uno dei tanti, simile a quella di Susya. L’utilizzo mirato del regime di autorizzazioni descritto e le restrizioni al movimento sono fra i principali fattori che impediscono l’accesso ai servizi di base e lo sviluppo di questi villaggi palestinesi in Area C. Nel frattempo l’espansione degli insediamenti illegali continua.

Nonostante il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite abbia approvato la risoluzione 2334/2016 nella quale ritiene gli insediamenti israeliani in territorio occupato ‘privi di validità giuridica e flagrante violazione del diritto internazionale’, nonché un ostacolo al raggiungimento della soluzione a due Stati e della pace, il 6 febbraio 2017 la Knesset ha approvato una legge che legalizza diversi avamposti costruiti su terreni di proprietà privata palestinese in territorio occupato.

Il 30 marzo, il Governo israeliano ha annunciato la costruzione di un nuovo insediamento in territorio occupato, per la prima volta dopo più di 20 anni, con l’obiettivo di alloggiare i coloni dell’avamposto di Amona, smantellato ed evacuato su ordine della Corte Suprema ad inizio febbraio.

L’ambiente coercitivo e le Violazioni di Diritto Internazionale
Molti interpreti di diritto internazionale ritengono che ciò che accade in Area C sia configurabile come trasferimento forzato della popolazione. Il trasferimento della popolazione dello Stato occupante in territorio occupato (gli insediamenti israeliani) e il trasferimento della popolazione del territorio occupato fuori o all’interno di esso (i trasferimenti dei palestinesi dai villaggi dell’Area C) costituiscono entrambi gravi violazioni degli articoli 49 e 147 della IV Convenzione di Ginevra del 1949. Secondo il diritto penale internazionale le gravi violazioni sono da considerare crimini di guerra.

Uno degli elementi del crimine di trasferimento forzato è la creazione di un ambiente coercitivo. Le demolizioni, la restrizione all’accesso ai servizi di base, i divieti di movimento, nonché le violenze non sanzionate da parte dei coloni e dell’esercito israeliano, sono fra i fattori che creano un ambiente coercitivo.

Due Stati?
La cosiddetta soluzione a due Stati, promossa per decenni da Ue e Stati Uniti, mira alla nascita di uno Stato palestinese indipendente, avente quindi un proprio territorio. Tuttavia, le continue violazioni di diritto internazionale attraverso cui Israele compromette l’unità del territorio del futuro Stato palestinese, tra i quali gli insediamenti illegali e il trasferimento forzato, sembrano aver già compromesso la possibilità di realizzarla.

In questo senso il caso di Al Khan Al Ahmar e’ un esempio del ‘tutto’, un progetto di annessione del territorio e inibizione della nascita del futuro Stato. Quali soluzioni concrete possono quindi offrire i Paesi, soprattutto quelli alleati di Israele, che ancora formalmente promuovono la soluzione a due Stati?

Dipartimento di Policy di GVC Italia. GVC - Gruppo di Volontariato Civile - è un’organizzazione non governativa laica e indipendente, nata a Bologna nel 1971, attiva in Palestina sin dal 1992 con progetti di assistenza umanitaria e sviluppo socioeconomico. Per maggior informazioni.

Ricerca Parametrale n. 528. Notizie del 14 aprile 2017

Oggetto Newsletter : Egitto, Francia, Cina
Newsletter n° 528 , 14 aprile 2017

La settimana santa s'è aperta dopo un bagno di sangue 
in Egitto, con i due attentati nelle chiese di Tanta e ad
 Alessandria che, nel giorno della Domenica delle Palme,
 hanno fatto 46 vittime e un centinaio di feriti. Se da 
una parte la comunità cristiana si prepara alla visita di Papa 
Francesco, prevista per fine mese, dall'altra la Chiesa copta 
ha annullato tutte le celebrazioni ad eccezione della Pasqua.
 E mentre proprio domenica la Turchia va alle urne per il
 referendum costituzionale, che potrebbe consolidare il 
potere nelle mani del presidente Erdogan, l'Ue torna a
 guardare entro i suoi confini: mancano meno di dieci
 giorni al primo turno delle presidenziali in Francia.
 Domenica 23 si affronteranno 11 candidati e i favoriti
 sono fuori dagli schieramenti tradizionali. Conquistato
 l'Eliseo, il neo-presidente avrà anche la forza di 
garantirsi una maggioranza in Parlamento? O si andrà
 verso una imprevedibile coabitazione? La sicurezza 
tiene banco nel dibattito, con Marine Le Pen che,
 in caso di vittoria, vuole sospendere gli accordi
 di Schengen. Anche in Cina si rafforza la legislazione
anti-terrorismo, vietando burqa e barbe "anormali" nella
 regione a maggioranza musulmana dello Xinjiang. 


Cooperazione
Sicurezza e sviluppo, binomio da scintille
Giampaolo Silvestri, Maria Laura Conte
12/04/2017
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Al tempo in cui la presidenza Usa dichiara che taglierà i fondi per gli aiuti alla cooperazione internazionale, per investirne di più nella difesa e in armi; al tempo in cui agli attacchi dei terroristi si risponde innalzando muri sempre più solidi tecnologicamente e si studia come contrastare gli attacchi “cyber”; il binomio sicurezza-aiuti allo sviluppo fa scintille.

Scintille che si accendono attorno ad alcune domande di fondo: si può accettare di spendere denaro per sostenere quei Paesi da cui provengono alcuni protagonisti degli attentati più efferati?, e lo slancio verso la solidarietà internazionale non è “buono” e ragionevole solo nelle stagioni sicure?, e non sarebbe più saggio finanziare barriere e metal detector sofisticati per controllare i flussi di rifugiati tra i quali si potrebbe nascondere chi ha come aspirazione uccidere uccidendosi?

Sono domande che costringono a mettere a fuoco in modo più preciso come oggi si debba intendere il tema “aiuto”, a partire da esperienze concrete maturate sul campo, nel senso letterale della parola.

Le caratteristiche dell’aiuto intelligente
Là dove si realizzano concretamente i progetti si misura, infatti, come un aiuto intelligente debba rispondere soprattutto a due caratteristiche: sostenibilità e “resistenza” al tempo, ai mutamenti, ai conflitti. Per avere questo profilo l’aiuto deve insistere su due piani che sempre si integrano e completano a vicenda, quasi al punto di sovrapporsi: il piano “socio-economico” e quello “educativo”.

Prendiamo l’esperienza, ad esempio, dei progetti di “cash for work” sostenuti dalla cooperazione italiana, attuati da AVSI recentemente in Libano: questi progetti offrono ai siriani che vivono nei campi profughi la possibilità di ricevere “cash”, aiuti in contante, in cambio di ore di lavoro per progetti che hanno anche una ricaduta sociale, una sorta di “lavori socialmente utili” con più spessore.

Una formula questa che offre al capo famiglia, altrimenti costretto all’inattività, la spinta a rimettersi in gioco e alla famiglia una nuova autonomia: i figli possono andare a scuola e la famiglia riacquista un ritmo di vita “normale” anche in una condizione di grande provvisorietà. Un lavoro, quando si è profughi vicini al confine con il proprio Paese, è come un filo tenace che tiene attaccati all’origine, alla speranza di potere tornare un giorno a casa: così non si avverte più come impellente il bisogno di scappare lontano, imbarcandosi su barconi fatiscenti verso un’Europa non troppo accogliente, né di cercare altri modi (violenti?) per dare un senso al tempo.

Ma questo non basta.

Progetti tra Libano e Giordania
Prendiamo un secondo esempio: i progetti che puntano a riportare a scuola le decine di migliaia di bambini siriani che sono profughi in Giordania, Libano, Iraq, Turchia. L’Unione europea (attraverso il Trust Fund Madad) e l’Unicef stanno finanziando progetti che puntano a garantire educazione e a ri-portare a scuola centinaia di migliaia di bambini siriani, quasi una generazione intera, figlia della guerra, che rischia di crescere “perduta”, senza una chance educativa.

In questa sfida epocale e miliardaria (basti pensare che la Conferenza organizzata il 4 e 5 aprile scorsi dall'alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza europea insieme a Germania, Regno Unito, Norvegia, Kuwait e Qatar ha promesso 6 miliardi di dollari per il 2017) è in gioco non solo un percorso di scolarizzazione, per insegnare a scrivere, leggere e far di conto - che restano lezioni indispensabili.

C’è qualcosa di molto più radicale e potente: la possibilità di accompagnare bambini nati con la guerra a conoscere, per esperienza, che nelle situazioni di crisi la violenza non è l’unica opzione; che, al contrario di quanto predicano il sedicente Stato islamico, l’Isis, e i reclutatori della morte, la persona diversa per idee, religione, cultura, costumi, lingua non è un’obiezione, non è un ostacolo alla riuscita personale, anzi. Che sulla relazione con l’altro/gli altri, diversi, è possibile costruire un tessuto di vita comune, fatto di libertà, nel quale può fiorire uno sviluppo giusto per tutti.

Aiuto come investimento in sicurezza
Se l’aiuto si articola con questa costante duplice attenzione, nei fatti e non in astratto, si traduce in un investimento concreto, effettivo, in sicurezza: contribuisce infatti a contrastare alla radice alcuni fattori che sono all’origine dell’opzione violenta di chi si fa foreign fighter e terrorista. Qualcuno chiama alcuni di questi “lupi solitari”, come fossero dei pazzi sganciati da contesti e relazioni, ma non lo sono in realtà. Sono espressione di ramificazioni e rapporti complessi, che chiedono di essere indagati.

Gli esperti di jihadismo si dividono, faticano a trovare la quadra rispetto ai meccanismi che inducono una persona, un giovane spesso, a “radicalizzarsi” al punto da lasciarsi sedurre dal richiamo della morte più che dal desiderio di vita.

La povertà, l’ignoranza, il disagio sociale ed economico, il fanatismo religioso, la ricerca di un motivo per cui vivere, la follia pura: nessuno di questi dati preso singolarmente basta a spiegare il perché un giovane sceglie di fare una strage di innocenti nel centro di una città occidentale e suicidarsi. Perché analizzando i singoli casi, le vicende personali, non sempre i conti tornano.

Ma più che in nuove armi o strategie o confini rinforzati o rimpatri che non decollano, si tratta di investire in piani di lungo periodo, in aiuti, appunto, che pongano la cura della persona e i suoi reali bisogni al centro: la persona singola, in tutta l’ampiezza della sua dignità, considerata inserita in una rete di relazioni strutturanti e irrinunciabili con la famiglia e la comunità.

Queste modalità di aiuto ad ampio spettro, per così dire, non sono interventi magici che garantiscono soluzioni rapide, né escludono l’importanza di interventi nel campo della sicurezza nel senso proprio del termine.

Ma per visione e prospettiva che propongono, provano almeno a stare all’altezza della complessità di questo tempo che viviamo, ferito così profondamente in certezze che sembravano ormai acquisite.

Giampaolo Silvestri, segretario generale Fondazione AVSI; Maria Laura Conte, è giornalista professionista e direttrice della comunicazione dell'Avsi.

sabato 8 aprile 2017

Ricerca Parametrale n.527. Notizie del 11 aprile 2017

Oggetto Newsletter : Trump in Siria, fra
                                  Tomahawk e legalità internazionale
Newsletter n° 527 , 11 aprile  2017

La Siria dopo l'attacco chimico sui civili e i missili 
americani di Donald Trump che hanno incrinato i 
rapporti con la Russia è fra i dossier sul tavolo dei
 ministri degli Esteri del G7 riuniti a Lucca. E fa sdoppiare
il summit. Nella speranza di frenare un'escalation militare
 e di rilanciare il processo di pace nel Paese, il responsabile 
della Farnesina Angelino Alfano ha infatti convocato
 per oggi nella città toscana blindata un vertice parallelo
 e allargato (concordato con Londra, Parigi e Berlino),
 a cui parteciperanno anche i rappresentanti di Turchia, 
Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi e Qatar. Mentre 
Trump mostra i muscoli anche all'indirizzo della Corea
 del Nord, schierando navi da guerra in prossimità 
della penisola per fermare lo sviluppo dei programmi 
nucleari di Pyongyang, c'è da chiedersi se l'isolazionismo 
vantato in campagna elettorale non sia già un lontano 
ricordo. Un bombardamento, però, non fa una politica
 estera. Ma, al di là del plauso proveniente dalle 
capitali europee, come si qualifica l'azione di
 Washington nel diritto internazionale?


Bombardando la Siria
L’intervento Usa e la legalità internazionale
Natalino Ronzitti
10/04/2017
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Il lancio di missili americani contro la Siria del 7 aprile ha sollevato numerosi commenti, che tuttavia non hanno affrontato il problema della legalità internazionale.

Taluni hanno visto nell’intervento la fine della politica isolazionista più volte enunciata da Trump e un riposizionamento della politica americana nei confronti della Siria. Altri hanno addirittura salutato l’intervento come benefico, poiché avrebbe rimesso in moto i negoziati. Concorde, almeno tra gli occidentali, è il giudizio secondo cui gli Stati Uniti sono finalmente rientrati nel gioco siriano, che era diventato appannaggio della sola Russia.

Nessuno, almeno nella grande stampa, s’è chiesto se lo strike Usa fosse conforme al diritto internazionale. Probabilmente il quesito è stato considerato non meritevole di approfondimento e lasciato alle elucubrazioni dei siti specializzati, dove si esercitano i giuristi, le cui opinioni sono tenute in considerazione, spiace dirlo, solo quando fanno comodo per avvalorare calcoli e ragionamenti esclusivamente politici.

Ma così facendo si trascurano i principi della legalità internazionale, che dovrebbero guidare l’azione politica, e si finisce per sminuire l’opera delle Nazioni Unite che, finché esistono, dovrebbero costituire il fondamento del multilateralismo e dell’ordine mondiale.

Le giustificazioni degli Stati Uniti
Quale giustificazione hanno dato gli Stati Uniti? Si è trattato di una reazione all’uso, secondo loro provato, di armi chimiche da parte di Assad in occasione del bombardamento, il 4 aprile, della località di Khan Shaykun in mano ai ribelli siriani. Il bombardamento ha fatto numerose vittime, tra cui molti bambini, suscitando lo sdegno e l’emozione del presidente americano. Di regola quando si usa la forza, la giustificazione viene data con una lettera al Consiglio di Sicurezza (CdS) o al segretario generale delle Nazioni Unite, da cui si evince la motivazione giuridica dell’intervento.

Questa volta le motivazioni sono desumibili dalla lettera di Trump al Congresso. Si afferma che quando la comunità internazionale viene meno al suo dovere di agire collettivamente, gli Stati sono obbligati ad agire. Un intervento individuale diventa quindi legittimo. L’azione degli Usa è stata incondizionatamente condivisa dagli alleati europei. Non solo dal Regno Unito, ma anche da Francia e Germania. La Germania ha quindi abbandonato la sua cautela che, nel 2003, l’aveva portata ad esprimersi contro l’intervento in Iraq. Quanto all’Italia, il premier Gentiloni ha dichiarato che si è trattato di “una risposta motivata a un crimine di guerra”.

Quali sono le regole del diritto internazionale
Il diritto internazionale, attraverso la Carta delle Nazioni Unite e il suo art. 2, par. 4, proibisce l’uso della forza armata. Il ricorso alla coercizione militare è ammesso solo in due ipotesi: in caso di legittima difesa contro un attacco armato oppure qualora esso sia autorizzato dal CdS. Si discute se l’uso della forza armata sia ammissibile in caso di intervento d’umanità, cioè per far fronte a trattamento inumani e degradanti della sua popolazione da parte dello Stato contro cui s’interviene.

Ma l’intervento d’umanità, se non autorizzato dalle Nazioni Unite, non è giuridicamente giustificabile secondo la maggior parte dei giuristi. In secondo luogo, come è stato sottolineato, un’azione limitata quale quella degli Stati Uniti non può essere considerata per la sua portata circoscritta come un intervento umanitario (si pensi all’intervento in Kossovo nel 1999). Piuttosto lo strike Usa può essere inquadrato nel novero delle rappresaglie armate, essendo volto allo scopo, come hanno detto gli Usa, di degradare la capacità militare siriana di effettuare ulteriori attacchi chimici e di dissuadere il regime siriano all’uso della proliferazione chimica.

Gli Stati Uniti non hanno subito direttamente il bombardamento chimico. Tuttavia si tratta di una violazione di un obbligo internazionale posto a tutela di tutti gli Stati membri della comunità internazionale. Ciascuno è abilitato ad adottare una contromisura, ma essa non può consistere nell’uso della forza armata.

La violazione della Convenzione sul disarmo chimico
La Siria è divenuta parte della Convenzione sul disarmo chimico del 1993 solo nel 2013, essendo stata praticamente costretta ad aderire da una pressione congiunta di Russia e Stati Uniti, in seguito agli orrori suscitati dal ricorso dell’esercito siriano alle armi chimiche. La risoluzione 2118 (2013) del CdS detta un piano per la distruzione delle armi chimiche e l’eliminazione delle fabbriche per la loro produzione.

L’arsenale chimico siriano è stato in larga parte distrutto, con l’attiva partecipazione di Danimarca, Norvegia, Italia e soprattutto Stati Uniti. Ci sono stati dei ritardi dovuti alla guerra civile e, come dimostrano i recenti episodi di uso di armi chimiche, non tutti gli stock sono stati distrutti. La responsabilità è di volta in volta attribuita al governo costituito, ai ribelli ed ai gruppi terroristici.

La Convenzione sul disarmo chimico prevede strumenti molto perfezionati per la verifica dell’esistenza di armi chimiche, su iniziativa degli stati parti e con l’invio di missioni indipendenti che fanno capo all’Organizzazione per il disarmo chimico, missioni che possono essere svolte nel territorio dello stato sospettato.

Altri strumenti e procedure sono previsti in caso di violazione, ma mai il ricorso alla forza armata, tranne che questo sia ovviamente autorizzato dal CdS o si versi in un’ipotesi di legittima difesa. Uno spiraglio è aperto dalla risoluzione 2118, il cui par. 21 stabilisce che in caso di uso di armi chimiche in Siria possono essere prese misure previste dal Capitolo VII della Carta?

Probabilmente sì, ma tali misure, che potrebbero comportare l’uso della forza, devono essere prese dal CdS. Sta di fatto che gli Usa non ne hanno fatto cenno, neppure in occasione del dibattito in CdS subito dopo l’intervento contro la Siria. Stesse considerazioni valgono per quella parte della risoluzione 2118, dove si afferma che coloro che fanno uso di armi chimiche saranno tenuti personalmente responsabili. La commissione di crimini di guerra non giustifica l’uso della forza armata.

Conclusioni: difficilmente giustificabile
L’intervento Usa è difficilmente giustificabile sotto il profilo del diritto internazionale, tranne che non si vogliano ammettere ipotesi strampalate, come quella secondo cui gli Usa avrebbero agito in legittima difesa a favore delle vittime colpite dalle armi chimiche. Anche lo slogan dell’intervento “illegale, ma legittimo”, coniato a proposito dell’intervento in Kossovo, non aiuta molto.

Chi voglia salvaguardare in qualche modo l’azione degli Stati Uniti, sempre sanabile in virtù di una successiva risoluzione del CdS per ora impensabile, deve porsi in un’ottica diversa: ad esempio ammettere che si è trattato di una minore violazione del diritto internazionale, che non costituisce aggressione e che, in quanto tale, non consentirebbe alla Russia di reagire in legittima difesa. Tanto più che essa era stata avvertita dell’imminenza dell’attacco. Ma ognuno vede come si tratti di un percorso irto di ostacoli.

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (Luiss Guido Carli) e consigliere scientifico dello IAI.
 
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Trump, un Presidente in divenire, Stefano Silvestri
Armi nucleari: Onu discute se abolirle, Natalino Ronzitti

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