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venerdì 24 febbraio 2017

Ricerca Parametrale n. 514 del 24 febbraio 2017

Oggetto Newsletter : EU60, Turchia, Asia
Newsletter n° 514 , 24 febbraio 2017

La Brexit che prende forma, la presidenza Trump
 che ispira diffidenza, le incomprensioni con Mosca
 e le elezioni che s'apprestano a vivere Olanda 
e Francia: è un'Unione europea acciaccata, in
 cerca di se stessa e di un rilancio, quella che 
s'avvia a celebrare, fra un mese, i 60 anni dai 
Trattati di Roma. E se a livello interno non
 mancano le sfide, sulle porte dell'Unione, 
in Turchia, fra meno di due mesi si terrà il 
referendum sulla riforma della Costituzione
 in senso presidenziale voluta da Erdogan. 
Altrove nel pianeta non si sta più sereni: 
la politica commerciale di Trump preoccupa 
la regione Asia-Pacifico, che deve fare anche
 i conti con le provocazioni nordcoreane.

martedì 21 febbraio 2017

Ricerca parametrale 512. Notizie del 17 febbraio 2017

Oggetto Newsletter : Politica estera italiana, Egitto, Ambiente
Newsletter n° 512 , 17 febbraio 2017

Missione europea per gli uomini chiave dell'amministrazione
 Trump. Il vicepresidente Pence, il segretario di Stato Tillerson
 e quello alla Difesa Mattis provano a rassicurare gli alleati del
 Vecchio Continente rispetto al nuovo corso dei rapporti transatlantici.
 Ma con un'Ue in crisi d'identità e il ciclone Trump negli Usa,
 quali sono gli effetti sulla linea dell'Italia in politica estera?
 In Egitto, intanto, giurano nove nuovi ministri, mentre si 
consuma la rottura fra il regime di Al-Sisi e le autorità 
religiose islamiche. 

Elezioni
Olanda: tra post-verità ed euroscetticismo
Eleonora Poli, Ludovico De Angelis
18/02/2017
 più piccolopiù grande
Nell’era della post-verità o, per meglio dire, delle grandi menzogne, i principi fondanti dell’Unione europea, Ue quali democrazia, solidarietà ed integrazione non possono essere dati per scontati.

In effetti, mentre tali ideali vengono spesso strumentalizzati in chiave anti-europea, un uso sempre più esteso di false o faziose notizie, divulgate tramite la rete ma non solo, sembra essere lo specchio di una sempre più diffusa cultura politica basata su emozioni e paure, invece che su fatti e policy.

Questo trend risulta abbastanza allarmante, soprattutto a fronte dei numerosi appuntamenti elettorali che l’Ue dovrà affrontare nel corso del 2017.

Uno scontro a due tra Wilders e Rutte
Il 15 marzo, dieci giorni prima del 60° Anniversario della Firma del Trattato di Roma, gli olandesi saranno chiamati ad eleggere un nuovo Parlamento. L’Olanda è un Paese economicamente forte, che solo nel 2016 ha visto una crescita del Pil pari al 2,1% con una disoccupazione del 6%. Nonostante questo, rischia di divenire teatro di uno scontro politico che vedrà uno dei partiti anti-europei più controversi d’Europa, il partito della Libertà (PVV) guidato da Geert Wilders, ottenere un numero elevato di preferenze.

In effetti, il partito di Wilders, di orientamento nazionalista, euroscettico e xenofobo, ha acquisito negli ultimi mesi sempre maggior consensi, e sembra possa riuscire non solo ad imporsi su altre forze politiche, ma anche a spuntarla contro il suo diretto rivale ed ex alleato, il Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia (VVD) guidato dall’attuale premier Mark Rutte.

Le elezioni si presentano come una sfida diretta tra i due leader, mentre più distanti appaiono il seppure in crescita CDA (Appello Cristiano Democratico), il progressista D66 (Democratici 66) ed il probabile grande sconfitto di queste elezioni: il PvdA (Partito Laburista).

Il PvdA, il partito di sinistra maggiormente rappresentativo in Olanda, per anni protagonista della scena politica nazionale, questa volta potrebbe andare incontro ad una pesante sconfitta: alcune previsioni di voto lo piazzano al 7%, con un 20% di consensi in meno rispetto alle elezioni del 2012.

Ue e migranti cavalli di battaglia del PVV
Certamente, il successo della campagna elettorale del PVV è dovuto all’attenzione rivolta alla crescente disaffezione dei cittadini olandesi verso l’Ue e ad un’esagerata amplificazione della crisi migratoria. Soprattutto quest’ultimo tema risulta essere elettoralmente vincente. Basti pensare che durante il picco dei flussi migratori verso il continente europeo, avvenuti principalmente durante la metà del 2015, la distanza fra Wilders e Rutte era aumentata di ben dieci punti, con il primo in netto vantaggio sul secondo.

Nonostante l’attenzione posta su questo fenomeno, nell’ultimo anno i migranti che hanno presentato domanda d’asilo nel Paese sono stati 33 mila tra siriani, eritrei, afghani ed iracheni. Queste sono cifre irrisorie, se si pensa che un Paese come la Svezia, con una popolazione di nove milioni di abitanti - circa la metà di quella olandese -, ne ha ricevute oltre cento mila nello stesso arco di tempo.

Collegando il problema della migrazione con il terrorismo e il radicalismo islamico, Wilders non solo propone di chiudere i centri di accoglienza per i richiedenti asilo, ma sta conducendo una campagna elettorale marcatamente anti-Islam (stop Islam), proponendo di de-islamizzare la società olandese chiudendo le moschee, vietando il possesso del Corano - che è paragonato al Mein Kampf di Hitler - ed impedendo alle donne musulmane di indossare il velo.

Spiragli di speranze per i filo-europei
Le posizioni ultra nazionaliste su migrazione ed integrazione sociale mal si sposano però con il supporto incondizionato al neoliberalismo economico da parte del PVV. In questo caso, il Partito ipotizza l’uscita dell’Olanda dall’Unione monetaria e crede che l’Ue dovrebbe limitarsi ad essere un grande libero mercato, sostenendo la necessità per l’Olanda di riacquisire sovranità nazionale a scapito di Bruxelles e delle istituzioni europee non solo nell’ambito di politiche nazionali ma anche di quella estera. Ad esempio, Wilders sostiene sia necessario che Amsterdam sospenda il regime di sanzioni in vigore nei confronti di Mosca.

I filoeuropei olandesi non devono però disperare. In effetti, anche se il PVV dovesse primeggiare rispetto al VVD di Rutte, il partito di Geert Wilders arriverebbe ad occupare solo 33 dei 150 seggi della Seconda Camera, ben lontano dai 76 necessari per ottenere una maggioranza sufficiente a governare.

Inoltre, tutti i partiti in corsa hanno già dichiarato di non essere disposti a formare alcuna alleanza di governo con il PVV. Al contrario, per contrastare l’ascesa di Wilders, si potrebbe formare una grande coalizione tra partiti, con l’obiettivo di ottenere la maggioranza nella Camera.

Nell’era post-Brexit, le elezioni olandesi rappresenteranno soltanto una delle tappe di una sfida che verosimilmente si protrarrà per tutto il 2017. Dopo l’Olanda, le presidenziali francesi potrebbero portare Marine Le Pen, leader del partito euroscettico Le Front National, al ballottaggio finale, mentre ad ottobre, durante le elezioni federali in Germania, il partito euroscettico Alternativa per la Germania (AfD) si potrebbe attestare al di sopra del 10%.

In questo frangente, mentre il 25 marzo i Paesi Membri dell’Ue festeggeranno il 60° Anniversario della firma del Trattato di Roma, la diffusione di un sentimento anti-europeo amplificato dalla propaganda nazionalisti di partiti euroscettici sta minando le basi valoriali della stessa Unione.

Eleonora Poli è ricercatrice dello IAI. Ludovico De Angelis studia Relazioni Internazionali presso l'Università degli Studi di Roma Tre e 

lunedì 20 febbraio 2017

Ricerca Parametrale n. 511. Notizie del 14 febbraio 2017

Oggetto Newsletter : Trump e l’Italia, l’Ue, il Golfo, la Siria
Newsletter n° 511 , 14 febbraio 2017

Fra telefonate e visite, Donald Trump comincia a tessere la tela
 delle relazioni bilaterali. Domani alla Casa Bianca arriva
 il premier israeliano Benjamin Netanyahu, in sintonia con
 il nuovo corso di Washington. L'aria per l'Ue si fa pesante:
 non mancano le critiche degli uomini di Trump all'indirizzo
 dell'euro e della Germania,. Nel Golfo ci sono reazioni
 differenziate al cosiddetto Muslim Ban, il divieto d'ingresso 
negli Usa bocciato dai giudici di San Francisco ma difeso 
con forza dal presidente. In Siria, cambiano gli scenari. 
In questo contesto l'Italia si muove cauta: dopo lo scambio 
telefonico tra Trump e il premier Gentiloni, Roma è stata laconica 
di commenti. Il nostro Paese non ceda alla tentazione
 di proporsi come partner privilegiato.

asa Bianca
Usa: Trump un passo avanti ai suoi critici
Giampiero Gramaglia
12/02/2017
 più piccolopiù grande
The Telegraph sostiene che c’è “del metodo dietro la pazzia di Donald Trump”, così che l’eterodosso presidente degli Stati Uniti riesce sempre a essere un passo avanti ai suoi critici.

Prendiamo, ad esempio, la vicenda del bando all’ingresso nell’Unione da sette Paesi musulmani e dei rifugiati, respinto a due riprese dalle Corti federali: tutti davano per scontato che l’Amministrazione sarebbe ricorsa in appello alla Corte Suprema, e magari, a conti fatti, lo farà pure; ma, intanto, Trump gioca in contropiede, annuncia un nuovo bando che presti meno il fianco ai rilievi legali e attua retate e deportazioni di immigrati, specie messicani, con la fedina penale sporca.

A tre settimane dall’insediamento di Donald, Washington è tutta una girandola di commenti e ipotesi. Giornalisti e vecchie volpi della politica devono ancora rendersi conto di quel che sta succedendo, a cominciare dal cambiamento di orari che turba, per ora, soprattutto i media europei: con Obama, e ancora prima con Bush jr, tutto o quasi succedeva la mattina; con Trump, tutto o quasi succede la sera tardi o a notte fonda e le notizie si rincorrono da noi con un giorno di ritardo.

Lo sconcerto è condiviso da partner e alleati. "Ci sono da affrontare nuovi approcci internazionali aggressivi, ma non necessariamente negativi, espressi da Trump e da Putin", sostiene il ministro degli Esteri italiano Angelino Alfano a Madrid, intervenendo al Congresso dei popolari spagnoli. E non a caso il libro in testa alle vendite di Amazon nell’ancor breve ‘era Trump’ alla Casa Bianca è l’inquietante ‘1984’ di George Orwell.

Per un tweet, Hillary batte Donald
Dopo il no al bando della Corte d’Appello federale di San Francisco, per una volta il tweet migliore è stato quello di Hillary Clinton: 3 a 0; e palla - forse - alla Corte Suprema. I tre giudici della Corte d’Appello - due democratici e un repubblicano - sono stati unanimi: gli avvocati del segretariato alla Giustizia non hanno dimostrato che il bando serviva a sventare un pericolo incombente.

La Corte Suprema, cui spetta l’ultima parola, è incompleta: ha otto giudici, quattro conservatori e quattro progressisti, mentre il nono, appena designato da Trump, Neil Gosuch, non è stato ancora confermato dal Congresso - e non lo sarà in tempo utile. È dunque possibile che la Corte si trovi in stallo, 4 a 4. Se così fosse, resterebbe valido il verdetto di San Francisco.

Il presidente dice di non crederci, mette in guardia i giudici avvilendo persino Gosuch, ritiene “politica” la sentenza e assicura che, alla prossima, vincerà a mani basse. Ma il rischio di smacco alla Corte Suprema c’è; e, allora, in viaggio per la Florida, dove va a giocare a golf con il premier giapponese Shinzo Abe, cambia tattica e annuncia il nuovo bando.

Sconfitte in Corte, vittorie in Senato
È tutto un ribollire di decisioni e di polemiche. Ma l’agenda, per ora, la fissa sempre lui: i tweet della notte chiudono la giornata appena trascorsa e segnano la successiva. Il ‘twittatore in capo’ vorrebbe anche impedire alle Agenzie federali di inviare aggiornamenti sui social o ai media, così da polarizzare l’attenzione su di sé: i suoi followers aumentano e l’intenso dibattito su fake news e post verità lo vede, inverosimilmente, nei panni dell’accusatore più che sul banco degli imputati, dove finiscono volta a volta i media, i suoi nemici - a partire dal miliardario George Soros - e i suoi potenziali rivali, come Mark Zuckerberg, che però smentisce le ambizioni presidenziali.

Se perde in Corte, Trump vince in Senato. Uno a uno, magari per il rotto della cuffia, i suoi ministri vengono sdoganati: Betsy De Vos, la miliardaria filantropa designata all’Istruzione, ma poco incline alla scuola pubblica, se la cava con il voto decisivo del vice-presidente Mike Pence, perché due senatori repubblicani le votano contro e finisce 50 a 50.

Incognite e contraddizioni di politica estera
Dopo tante telefonate difficili o addirittura burrascose con gli interlocutori internazionali - peggiore di tutte quella con il premier australiano Malcolm Turnbull, cui mette giù la cornetta -,Trump riesce a fare una telefonata ‘educata’ col presidente cinese Xi Jinping: lo rassicura che per gli Usa c’è una sola Cina - dopo le tensioni suscitate dai suoi primi approcci con Taiwan, la ‘altra Cina’.

Sono giorni intensi di politica estera: dopo le visite del giapponese Abe e di Federica Mogherini, che vede il neo-segretario di Stato Rex Tillerson, sta per arrivare l’israeliano Benyamin Netanyahu, con cui forse Trump scioglierà l’incognita dello spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme - sì o no.

La Carnegie Foundation s’interroga se il presidente magnate può salvare la politica estera Usa, nell’era delle fake news e della Brexit. Il quadro è denso di cautele altrui e contraddizioni di Trump: Mosca è ben disposta, ma il Cremlino “non si fa illusioni sui miglioramento dei rapporti”; Pechino incassa le rassicurazioni, ma denuncia in un durissimo editoriale del Quotidiano del Popolo “l’ignoranza totale” sulla Cina della nuova Amministrazione; Teheran, colpita dal bando, reagisce ‘occhio per occhio, dente per dente’ e testa missili nel Golfo; i talebani giocano la carta dell’isolazionismo e invitano gli americani ad andarsene dall’Afghanistan (“Che vi serve stare qui?”); con Messico e Canada, oltre che Australia, va malissimo; invece, gli uomini forti al-Sisi ed Erdogan aspettano solo d’essere chiamati a Washington.

Il bando fa danni anche fra alleati più o meno presunti e affidabili. Lo Yemen revoca agli Usa l’autorizzazione a compiere missioni antiterrorismo sul proprio territorio con forze speciali, ufficialmente perché il primo raid ordinato dal presidente magnate ha ucciso diversi civili, tra cui alcuni bambini - nell’azione, morì pure un militare americano.

Nonostante le immagini orribili delle piccole vittime, la Casa Bianca continua a definire il raid "un successo". Per quel che conta, nel Paese in preda a una guerra civile, la decisione delle autorità yemenite è un elemento di disturbo rispetto alla volontà di Trump d’essere più efficace contro il terrorismo integralista di al-Qaida, che alberga ancora nello Yemen, e del sedicente Stato islamico.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello 

Ricercaparametrale n. 510. Notizie del 10 febbraio 2017

Bando Trump, Israele-Palestina, reddito di cittadinanza
Newsletter n° 510 , 10 febbraio 2017

Protezione della sicurezza nazionale o discriminazione 
su base religiosa? Il Muslim Ban, l'ordine esecutivo di 
Donald Trump che limita l'ingresso negli Stati Uniti 
dei cittadini di sette Paesi islamici e dei rifugiati di 
qualsiasi provenienza, è stato rimesso alla valutazione della 
Corte d'Appello federale di San Francisco. Dopo la conferma
 della sospensione del divieto da parte dei giudici californiani,
 il ricorso alla Corte Suprema (dove non siede ancora il nono 
togato appena designato da Trump) è altamente probabile. 
Il provvedimento del presidente Usa è davvero illegittimo? 
Israele, che conosce una rinnovata sintonia con la Casa 
Bianca (dove il presiidente Netanyahu arriverà mercoledì prossimo),
 ha intanto approvato una legge che regolarizza circa 4mila case
 costruite su terreni palestinesi in Cisgiordania. E resta l'eco
 delle polemiche per il test missilistico iraniano effettuato il 31 gennaio.

Ricerca Parametrale 509. Notizie del 7 febbraio 2017

Oggetto Newsletter : Italia-Libia, Brexit, Romania, Difesa Usa
Newsletter n° 509 , 7 febbraio 2017

"Puntiamo a chiudere la rotta libica": Roma e Tripoli siglano un
 accordo per rafforzare le frontiere e frenare l'immigrazione
 illegale a cui anche l'Ue, dal Vertice di Malta, garantisce il 
proprio sostegno. In Europa si infiamma intanto anche il
 fronte orientale, con mezzo milione di romeni in piazza -
 non accadeva dai tempi di Ceausescu - per manifestare
 contro la legge salva-corrotti voluta dal governo di Bucarest. 
Dopo essere stata la prima leader internazionale ricevuta 
da Trump alla Casa Bianca, Theresa May è nel frattempo 
volata a incontrare il presidente turco Erdogan: un segnale
 sulle relazioni bilaterali che Londra vuole rilanciare, con la
 Brexit all'orizzonte? E se, da una parte, il leader statunitense 
suona la carica contro Pechino, a dar man forte al nuovo alleato
 di Washington è (anche) il collega israeliano Netanyahu, che
 loda il progetto di muro al confine con il Messico. Il generale 
James Mattis, nuovo responsabile del Pentagono, riuscirà 
a smussare le intemperanze del suo presidente?

Usa vs migranti
Il bando di Trump al vaglio del costituzionalista
Davide De Lungo
08/02/2017
 più piccolopiù grande
Il 27 gennaio, il presidente Usa Donald Trump ha adottato un executive order intitolato “Protecting the Nation from foreign terrorist entry into the United States”. Il provvedimento da un lato sospende per 90 giorni l’ingresso di soggetti nati in (o con passaporto di) Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen; dall’altro vieta per 120 giorni l’ingresso di rifugiati di qualunque provenienza, salvo che provengano dalla Siria, nel qual caso il divieto è a tempo indeterminato.

Le reazioni nel dibattito pubblico sono state assai accese. Lo scontro politico si è subito trasposto anche in sede giurisdizionale: il 3 febbraio, la Corte federale di Seattle ha sospeso l’applicazione dell’executive order, sebbene solo in via cautelare e senza avere modo di esaurirne l’esame nel merito, con una decisione efficace su tutto il suolo statunitense (e su cui pende l'impugnazione promossa innanzi alla Corte d’Appello federale di San Francisco).

La vicenda tocca temi cruciali, primi fra tutti i principi di uguaglianza e non discriminazione; ma, in misura non minore, chiama in causa i reciproci equilibri fra potere esecutivo, legislativo e giudiziario, preludendo a una sorta di “constitutional showdown”.

Da qui emerge l’opportunità di una riflessione sugli aspetti di possibile incostituzionalità dell’atto presidenziale. In questa prospettiva i nodi problematici sono principalmente due: la compatibilità dell’executive order con la legislazione in materia d’immigrazione; la conformità dei suoi contenuti al XIV emendamento, che assicura a ogni persona l’uguale protezione davanti alla legge.

Il fondamento legale dell’executive order
La prima questione da affrontare riguarda la compatibilità dell’executive order con l’Immigration and Nationality Act (Ina), cioè la legge adottata dal Congresso nel 1952 (e più volte modificata) per disciplinare la materia dell’immigrazione. L’atto presidenziale - come si legge nel suo preambolo - è esplicitamente adottato anche sulla base dei poteri che l’Ina attribuisce alla Casa Bianca e ciò impone di verificare se il potere sia stato esercitato in conformità ad essa.

Una verifica tutt’altro che agevole. Infatti, il par. 1152 dello U.S. Code, Titolo VIII (in cui l’Ina è trasfusa) - fatta eccezione per alcuni casi tassativamente indicati - sancisce: “no person shall receive any preference or priority or be discriminated against in the issuance of an immigrant visa because of the person's race, sex, nationality, place of birth, or place of residence”. Il successivo par. 1182 prevede tuttavia che “whenever the President finds that the entry of any aliens or of any class of aliens into the United States would be detrimental to the interests of the United States, he may by proclamation, and for such period as he shall deem necessary, suspend the entry of all aliens or any class of aliens as immigrants or nonimmigrants, or impose on the entry of aliens any restrictions he may deem to be appropriate”.

Come si vede, la clausola generale di non discriminazione del par. 1152 è temperata, al par. 1182, dalla possibilità per il presidente di restringere o impedire l’ingresso di tutti gli stranieri o di classi di stranieri, per il tempo e nei modi che ritenga appropriati, là dove questo leda interessi degli Stati Uniti.

A questo quadro va poi aggiunta la disciplina dei paragrafi 1182, 1226A e 1227, che qualificano come “inadmissibile aliens” e “deportable aliens”, fra gli altri, i soggetti sospettati di terrorismo. Nel complesso, la legge intesta al presidente margini d’intervento ampiamente discrezionali, e prefigura essa stessa - sebbene in ipotesi eccezionali - possibili differenziazioni di trattamento, specie ove venga evocata la minaccia terroristica. Queste considerazioni inducono a ritenere che difficilmente il provvedimento di Trump possa essere censurato sul parametro dell’Ina.

Il fondamento costituzionale dell'executive order
Alla stessa conclusione si giunge considerando che la legge sull’immigrazione del 1952 non è l’unico fondamento giuridico del potere presidenziale d’intervenire in materia. Occorre ricordare, infatti, che la Costituzione americana conferisce in via originaria ed autonoma al presidente la titolarità del potere esecutivo (art. 2, Sez. I), il compito di provvedere all’esecuzione delle leggi e di dirigere tutti i funzionari e gli apparati dell’amministrazione (art. 2, Sez. III), il ruolo di comandante in capo dell’esercito (art. 2, Sez. II).

Gli executive orders sono uno strumento tipico di cui i presidenti americani si avvalgono per esercitare le proprie attribuzioni: il potere di adottarli discende direttamente dalla Costituzione e, pur non potendo contrastare con la legge, essi consentono un significativo spazio di manovra politica alla Casa Bianca nell’attuare la legge o nel provvedere su aspetti che il Congresso non ha regolato.

In questa prospettiva, non è casuale che nel preambolo del proprio executive order Trump si sia richiamato non solo all’Ina, ma anche ai poteri che la Costituzione gli conferisce in qualità di presidente: ciò al fine di evidenziare come il provvedimento si fondi non solo sulla legge in materia d’immigrazione, ma - in aggiunta e a prescindere - anche sulle prerogative presidenziali legate alla direzione dell’amministrazione, alla sicurezza e alla difesa.

Executive order ed Equal protection clause
Il secondo nodo problematico riguarda il contenuto dell’atto in esame. Nel dibattito pubblico, la questione è stata riassunta così: è legittimo il divieto d’ingresso per immigrati e rifugiati in ragione della loro provenienza da Paesi a maggioranza islamica?

Tale impostazione, però, non sembra del tutto corretta, se dal piano delle dichiarazioni politiche si passa a considerare il testo dell’executive order. Infatti, è vero che Trump, ha più volte presentato il proprio provvedimento come un “muslim-ban”; tuttavia, all’interno dell’executive order, il divieto d’ingresso non è ancorato a criteri religiosi, ma allo Stato di provenienza e a ragioni connesse al terrorismo.

La differenza non è affatto irrilevante: illustriamola. Nell’atto presidenziale, fra i Paesi gravati dal “blocco” solo la Siria viene espressamente nominata. L’individuazione di tutti gli altri è invece operata per rinvio, facendosi riferimento a “countries referred to in section 217(a)(12) of the Ina, 8 U.S.C. 1187(a)(12)”. Quest’ultima norma è stata introdotta nel 2015, sotto la presidenza Obama, con il “Visa Waiver Program Improvement and Terrorist Travel Prevention Act of 2015”.

Essa esclude che possano beneficiare del Visa Waiver Program (che consente di soggiornare negli Stati Uniti fino a un massimo di 90 giorni senza visto) quanti, per transito o nazionalità, provengano da Siria, Iraq e dagli altri Paesi che - sulla base della normativa applicabile e delle direttive del segretario di Stato - abbiano ripetutamente supportato atti di terrorismo internazionale: cioè, se si guarda a tali direttive, proprio Iran, Sudan, Libia, Somalia e Yemen.

Il gioco di scatole cinesi fra rinvii normativi ha dunque il seguente esito: il perimetro dei Paesi colpiti dall’executive order di Trump è in realtà ripreso dalla precedente legge del 2015, la quale a sua volta lo delinea sulla base di valutazioni legate al rischio terroristico. Quindi, la riflessione sull’eventuale discriminatorietà dei criteri non potrebbe non coinvolgere, in pari tempo, sia la legge di Obama che l’executive order di Trump.

Non è detto, tuttavia, che i risultati di questa ipotetica riflessione debbano essere gli stessi. Mentre infatti la prima si limita a escludere il semplice soggiorno senza visto, il secondo proibisce tout court l’ingresso. Esiste dunque, fra le due, una significativa differenza in termini di proporzionalità della limitazione apportata, sul medesimo discrimine della provenienza, alla sfera giuridica delle persone.

La giurisprudenza della Corte Suprema
Il discorso, a questo punto, deve necessariamente spostarsi a quanto la Costituzione americana e la giurisprudenza della Corte Suprema stabiliscono in materia di trattamenti discriminatori. La Costituzione, al XIV emendamento, impedisce di “deny to any person […] the equal protection of the laws”.

Nella propria giurisprudenza, la Corte Suprema ha chiarito come la previsione - che si applica pure ai soggetti non cittadini - impedisca discriminazioni nel godimento dei diritti fondamentali basate su parametri quali la razza, la religione, la nazionalità (cioè, le “suspect classifications” rivolte alle “insular minorities”), salvo che non venga dimostrato: a) che la discriminazione sia strettamente e ragionevolmente correlata alla soddisfazione di un interesse indifferibile dello Stato; b) che non vi siano misure alternative meno invasive, ugualmente idonee a soddisfare l’interesse pubblico.

Numerosissimi, e di segno anche opposto, sono i precedenti, in qualche modo sovrapponibili, nei quali la Corte Suprema ha ritenuto: legittima la legge che vietava l’ingresso ai cinesi su suolo americano (Chae Chan Ping, 1889); legittimi il coprifuoco e il trasferimento coatto per cittadini americani di origine giapponese, onde evitare rischi di spionaggio in tempo di guerra (Hyrabayashi, 1943 e Korematsu, 1944); incostituzionale una legge che escludeva da alcune misure assistenziali gli stranieri (Graham, 1971); incostituzionale una legge che impediva l’accesso alle scuole ai bambini entrati illegalmente nel Paese (Doe, 1982); illegittima un’ordinanza che vietava l’uccisione di animali per fini non alimentari, perché finiva per colpire selettivamente solo una religione minoritaria (Church of the Lukumi Babalu Aye, 1993).

Come è chiaro, nell’intricato panorama giurisprudenziale è difficile predire la sorte di un ormai probabile giudizio della Corte Suprema sull’executive order di Trump, sul quale, peraltro, giocherebbe in maniera decisiva il cleavage politico fra giudici democratici e repubblicani. Appare invece sicuro che questo ipotetico giudizio non rimarrebbe ininfluente sugli assetti di potere fra giurisdizione, presidenza e Congresso, in un ordinamento, come quello americano, diviso fra “separated institutions competing for sharing power”.

Davide De Lungo è dottore di ricerca in Diritto Pubblico presso l’Università di Roma, Tor Vergata; cultore di Diritto Costituzionale presso l’Università LUISS Guido Carli; fdelungo@libero.it.

lunedì 13 febbraio 2017

Ricerca arametrale n. 508 Notizie del 3 Febbraio 2017.

Oggetto Newsletter : Brexit, Balcani, Sudamerica
Newsletter n° 508 , 3 febbraio 2017

Londra comincia a fare sul serio sulla Brexit. Dopo 
la sentenza della Corte Suprema, che aveva rimesso
 il Parlamento al centro del processo di attivazione
 formale dell'uscita del Regno Unito dall'Ue, la
 Camera dei Comuni ha approvato con 498 sì (e 114 no) 
un testo che autorizza il governo di Theresa May a 
invocare la clausola di recesso prevista dal Trattato
 di Lisbona. Quali saranno le incognite e le prospettive 
del negoziato che prende così forma, mentre i leader
 dei Ventotto si incontrano oggi a Malta per un Vertice
 informale che avrà al centro la questione migratoria?
 In America Latina, intanto, si preparano i prossimi turni
 elettorali e il continente potrebbe virare a destra: ci sarann
o dei nuovi Trump anche a sud di Washington?

Anno nuovo, vecchie tensioni
Serbia-Kosovo: il treno delle provocazioni
Cristian Barbieri
01/02/2017
 più piccolopiù grande
Il 2017 è iniziato nel peggiore dei modi per le relazioni Serbia-Kosovo. Il 16 gennaio avrebbe potuto essere un giorno storico per la minoranza serba in Kosovo: le ferrovie serbe avevano programmato, infatti, il primo treno, da 20 anni a questa parte, diretto dalla capitale Belgrado a Kosovska Mitrovica/Mitrovice, cittadina del nord del Kosovo simbolo della guerra del 1998/1999, tuttora divisa in due tra popolazioni di etnia serba e albanese e con pendente un progetto serbo di muro divisorio.

Il treno non è giunto a destinazione, fermato alla frontiera amministrativa perché reputato provocatorio dalle autorità kosovare per il rivestimento scelto dalle ferrovie serbe che recava la scritta “Kosovo è Serbia” in varie lingue, compreso l’albanese.

Il primo ministro del Kosovo, Isa Mustafa, ha scritto alla delegazione Ue denunciando il treno come un’aggressione, mentre Tomislav Nikolic, presidente della Repubblica di Serbia, ha condannato lo stop affermando di essere pronto a mobilitare le truppe presenti al confine, nell’area di Prokuplje, in caso cittadini di etnia serba venissero attaccati.

Da quando Pristina ha dichiarato la sua indipendenza dalla Serbia il 17 febbraio 2008 si susseguono continue provocazioni da ambo le parti, ma nei primi giorni del 2017 un altro importante evento ha ulteriormente destabilizzato la situazione.

Il 4 gennaio è stato infatti arrestato dalle autorità francesi all’aeroporto di Mulhouse Ramush Haradinaj, ex leader dell’Esercito di Liberazione del Kosovo e in seguito primo ministro del Paese, su applicazione di un mandato di arresto internazionale per crimini di guerra richiesto dalla Serbia.

Haradinaj è una figura di primo piano nella politica kosovara essendo alla guida dell’Aak, il primo partito d’opposizione nel Paese. La richiesta di estradizione è al momento all’esame del tribunale di Colmar in Francia e non è ancora chiaro se sarà accettata viste le forti implicazioni politiche.

Haradinaj è stato già due volte assolto dal reato di crimini di guerra dalla Corte dell’Aja per insufficienza di prove, ma voci su una possibile riapertura del suo caso presso le future Camere Speciali per i crimini in Kosovo si rincorrono frequentemente. La Serbia però vorrebbe un’estradizione rapida per poterlo giudicare.

La mediazione guidata dall’Unione europea 
Il 24 gennaio le più alte cariche di Kosovo e Serbia sono state convocate a Bruxelles per iniziativa dell’Alto Rappresentante Ue, Federica Mogherini. Il presidente del Kosovo, Hashim Thaçi ha reclamato la revoca del mandato di cattura nei confronti di Haradinaj, mentre il premier serbo, Ivica Dadic, ha confermato la linea dura sul non riconoscimento dell’indipendenza.

Segnali positivi sono comunque giunti dalla volontà di continuare il dialogo lasciando forti sospetti sulla strumentalizzazione dei due episodi, il treno e l’arresto. Episodi che mettono comunque in luce la troppa lentezza del riavvicinamento dei due Paesi, tentato sin dal 2011 quando l’allora Alto Rappresentante Catherine Ashton apri il dialogo Belgrado-Pristina: una serie di negoziati che hanno portato a un primo accordo nel 2013.

L’intesa sembrava spianare la via a un rappacificamento dei due Stati sotto l’egida dell’Unione europea, Ue, ma l’implementazione dei 15 punti concordati risulta difficile.

Diversi nodi sono venuti al pettine, come il problema dell’Associazione delle Municipalità serbe, che ha paralizzato il parlamento di Pristina sotto la minaccia dell’opposizione con i famigerati lanci di lacrimogeni in sala che furono d’attualità per tutto lo scorso anno.

I lavori sui 35 capitoli di adesione all’Ue con la Serbia procedono a rilento, mentre l’ultima sinergia Kosovo/Ue data ottobre 2015 con la firma dell’Accordo di Stabilizzazione e Associazione, primo passo di un lungo cammino verso un’eventuale integrazione europea.

Infine, la missione Csdp Eulex, la più ampia mai realizzata, per durata e numero di uomini, dal Servizio esterno dell’Ue, è stata molto vicina a chiudere i battenti lo scorso giugno: il malcontento su entrambi i fronti, serbo e kosovaro, è palese.

Malcontento ambivalente, perché la classe politica di entrambi i Paesi è favorevole a una conferma della Missione ma ne reputa il lavoro non soddisfacente, mentre le popolazioni, specialmente quella di etnia albanese in Kosovo, vorrebbero una cessazione del mandato per ottenere più indipendenza su settori chiave come la giustizia.

L’Ue sta facendo molto per il dialogo ma ogni piccolo pretesto è stato usato da ambedue le parti per minare il cammino comune e gridare al conflitto al fine di compattare l’opinione pubblica contro il nemico esterno e ottenere benefici, presentandosi come vittime, al tavolo delle trattative.

Nato, Usa, Russia, anche Italia, quanti interessi in Kosovo
Ampliando l’analisi non bisogna dimenticare la forte presenza internazionale Nato, 31 Stati contribuenti, tuttora di base in Kosovo. Seppur ridotta dalle 50.000 unità con cui intervenne nel 1999 alle attuali 4.289, la Kosovo Force (Kfor) è attiva in tutto il Paese facendo le veci di un esercito nazionale che secondo la risoluzione Onu 1244 del 10 giugno 1999, non può essere formato prima di un raggiunto accordo internazionale.

La Kfor ha una base principale, Film City, nella capitale Pristina, e due basi regionali una ad est del Paese, “Camp Bondsteel”, nella zona di Urosevaç/Ferizaj, gestita dall’esercito degli Stati Uniti, e una ad ovest, nella città di Peç/Peja, affidata all’Esercito italiano, “Villaggio Italia”.

A questo impegno, per l’Italia, si aggiunge la presenza dei Carabinieri della base Multinational Stabilisation Unit (Msu) a Pristina, con un totale di 551 unità, seconda nazione contribuente per numero di uomini.

L’elezione di Trump ha destato preoccupazione tra i politici kosovari poiché il Kosovo potrebbe essere uno dei primi tasselli a staccarsi in caso di disimpegno Usa in Europa.

D’altro canto la Russia, da sempre dalla parte della Serbia nel non riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, ha allentato il suo supporto dopo l’annessione della Crimea, visti i naturali parallelismi delle due vicende, non mancando però di cedere lo scorso dicembre aerei e carri armati usati all’esercito serbo.

Se entrambe le superpotenze riducessero nei mesi a venire le loro influenze su Serbia e Kosovo e l’Ue non riuscisse a mediare, come fatto in passato anche attraverso la leva di una futura integrazione che perde sempre di più il suo appeal, il rischio di una escalation delle tensioni nel 2017, come già mostrato da questi primi due episodi, diverrebbe sempre più reale.

Cristian Barbieri è Assistente alla Ricerca del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter @Barbiericr).

venerdì 10 febbraio 2017

Ricerca arametrale n. 507. Notizie del 31 gennaio 2017

Oggetto Newsletter : Trump, Siria, Food Terrorism
Newsletter n° 507 , 31 gennaio 2017

Donald Trump dà le carte, sul tavolo verde degli equilibri politici internazionali.
 A preoccuparsi per le sortite del neopresidente Usa -
 che ha reso esecutivo il primo bando nei confronti dei
 migranti - è anche il Vecchio continente. Trump fa il tifo
 per la Brexit e non crede nell'euro: sono più le sfide o
 le opportunità per l'Ue, i cui leader nazionali si preparano
 al summit informale di Malta? Mentre l'America Latina fa
 i conti con un leader Usa che serra le frontiere e dimostra
 di voler mandare in soffitta le storiche aperture fatte dal 
predecessore - a cominciare dalle relazioni ripristinate con 
Cuba -, Trump sente per la prima volta al telefono 
Vladimir Putin: sarà la Siria, che riemerge dai colloqui 
di pace di Astana e si prepara a continuare i negoziati 
a Ginevra, il primo terreno di collaborazione fra
 Washington e Mosca?

Riunificazione
Cipro: l’equazione regionale non torna (ancora)
Eleonora Ardemagni
28/01/2017
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Greco-ciprioti e turco-ciprioti non sono mai stati così vicini all’accordo per la riunificazione federale di Cipro. Eppure, la soluzione della questione cipriota potrebbe sfumare anche stavolta: un apparente paradosso che si spiega solo guardando a “sicurezza” e “garanzie”, ovvero alla dimensione regionale della disputa su Cipro.

Perché tra Grecia e Turchia (due dei tre “Stati garanti”, insieme alla Gran Bretagna, dello status quo dell’isola) le posizioni rimangono distanti. Gli sforzi negoziali di Nicos Anastasiades, presidente della Repubblica di Cipro (RoC) e di Mustafa Akinçi, leader dell’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro Nord (Trnc), riconosciuta dalla sola Turchia, rischiano dunque di essere vanificati. Proprio adesso che Nicosia torna al centro dello scacchiere geopolitico del Mediterraneo.

I negoziati di Ginevra
Il negoziato per Cipro ha vissuto una settimana importante (9-12 gennaio) a Ginevra, sotto l’egida delle Nazioni Unite e con l’Unione europea, Ue nel ruolo di osservatore. Dapprima, Anastasiades e Akinçi hanno proseguito la trattativa bi-comunitaria scambiandosi, per la prima volta, le mappe territoriali.

Nonostante alcune convergenze (non definitive fino a quando non vi sarà accordo su tutte le aree negoziali), sono ancora parecchi i nodi irrisolti su governance, territorio e proprietà: per esempio, la presidenza a rotazione del futuro Stato e il ritorno dei circa 200mila sfollati interni.

La successiva “Conferenza a cinque” con gli Stati garanti, a livello di ministri degli Esteri, è durata un solo giorno e dovrebbe riprendere a breve. In caso di riunificazione federale, Atene, come i greco-ciprioti, chiede la fine del sistema delle garanzie, con il conseguente ritiro delle truppe straniere dall’isola, in primis i 30mila soldati turchi stanziati nella Trnc: proprio i militari a cui Ankara, così come i turco-ciprioti, non vuole invece rinunciare.

Contesto regionale di rinnovata tensione
I colloqui su Cipro sono entrati nel vivo mentre Grecia e Turchia attraversano una fase di rinnovata tensione. Nel 2016, l’aviazione turca ha violato 57 volte lo spazio aereo greco: - una condotta che è diventata “consuetudinaria”. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sta moltiplicando gli attacchi verbali nei confronti del Trattato di Losanna (che stabilisce i confini greco-turchi e lo status delle isole del mar Egeo).

La Corte Suprema greca ha negato l’estradizione degli otto ufficiali turchi golpisti riparati in Grecia. E poi c’è la questione migranti: in qualsiasi momento, essa può tornare a fungere da strumento di pressione di Ankara nei confronti di Atene.

Sono diversi i fattori che disincentivano la cooperazione della Turchia su Cipro: innanzitutto, il congelamento de facto del processo di adesione della Turchia all’Ue. Inoltre, l’Akp necessita dei voti dei nazionalisti dell’Mhp per l’approvazione parlamentare della riforma costituzionale in senso presidenziale: un “cedimento” su Cipro indebolirebbe quella retorica nazionalista sulla quale Erdogan sta tentando di ricompattare un Paese esposto ormai su troppi fronti.

Data la presenza militare in Siria, è assai improbabile che la Turchia accetti ora di limitare la sua influenza militare e politica su Cipro nord (Famagosta dista solo 170 km da Latakia).

L’Amministrazione Obama si è molto spesa per questo negoziato. Al contrario, la Russia preferirebbe lo status quo per ragioni militari (scongiurare una partnership Nato di Nicosia) ed energetiche (Cipro unita e possibile hub del gas ridurrebbe la dipendenza Ue da Mosca).

Centralità geostrategica e crocevia marittimo
Al di là dell’esito dei negoziati, un dato è certo: Cipro ha assunto una nuova centralità geostrategica nel Mediterraneo orientale. Qui, il quadrante europeo e quello mediorientale s’incrociano, generando dinamiche di sicurezza interdipendenti: il conflitto in Siria, l’instabilità della Turchia, la presenza militare russa nel Mediterraneo orientale, i giacimenti di gas offshore, la crisi dei migranti, il terrorismo transnazionale di matrice jihadista.

La Gran Bretagna (così come i francesi) parte anche dalle sue basi permanenti sull’isola (Akrotiri e Dhekelia, nel sud), così come dalla base sovrana di Paphos, per bombardare il sedicente Stato islamico fra Siria e Iraq. Nel 2015, Russia e RoC hanno firmato un accordo che permette alle navi militari di Mosca l’accesso ai porti ciprioti.

Cipro, crocevia energetico e commerciale tra Europa, Africa e Asia, è sulla rotta della “Nuova Via della Seta” della Cina, specie dopo l’acquisizione cinese del porto del Pireo. Nel 2016, la RoC e l’India hanno siglato un Memorandum di Cooperazione su materie economico-industriali.

Anche il Golfo guarda a Cipro, soprattutto per gli investimenti: nel 2016, Emirati Arabi Uniti e Giordania hanno aperto ambasciate residenti a Nicosia. La “variabile gas” sta incoraggiando la cooperazione, anche militare, fra Cipro, Grecia e Israele: un formato non esclusivo, ma che non comprende Ankara.

Finora, la divisione politica ha bloccato le potenzialità di politica estera di un’isola che ritorna, tuttavia, al centro di molte trame geopolitiche, a prescindere dall’eventuale riunificazione.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente per Aspenia e l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi). Gulf and Eastern Mediterranean Analyst, NATO Defense College Foundation, commentatrice per Avvenire. Autrice di “Cipro: negoziati di pace e ruolo dell’energia”, Osservatorio di Politica Internazionale (Focus Ispi, n° 2, dicembre 2016).