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venerdì 27 gennaio 2017

Ricerca parametrale n. 506. Notizie del 27 gennaio 2017

Oggetto Newsletter : Trump-Messico, Brexit, Libia, Egitto
Newsletter n° 506 , 27 gennaio 2017

Donald Trump non indietreggia rispetto alle promesse elettorali: 
il muro con il Messico si farà. Il neopresidente degli Stati 
Uniti ha firmato gli ordini esecutivi per costruire una barriera
 al confine con il Paese centroamericano e per rafforzare 
i controlli alla frontiera. Una decisione controversa che
 arriva pochi giorni prima dell'incontro con l'omologo
 messicano Enrique Peña Nieto, che ha cancellato la
 visita e assicurato: "Non pagheremo per il muro e
 proteggeremo i nostri immigrati negli Stati Uniti. 
Oggi alla Casa Bianca sarà invece la premier britannica 
Theresa May, che in questi giorni fa i conti con la sentenza
 della Corte Suprema del Regno Unito che rimette al 
Parlamento l'attivazione della Brexit. Nei primi bilaterali
 dell'era Trump si parlerà anche di intese commerciali,
 nel clima di diffidenza generale creato dalla Trumpnomics. 
Il cambio a Washington influenzerà anche la stabilità in Libia, 
mentre il generale Haftar riconquista terreno a Bengasi? 
E quale sarà la politica dell'amministrazione repubblicana 
nei confronti dell'Egitto? 

Economia Usa
Trumpnomics, crescita e rischi di lungo termine 
Marco Magnani
24/01/2017
 più piccolopiù grande
Con la mano sinistra posata sulla Bibbia, venerdì 20 gennaio Donald Trump ha prestato giuramento sulla scalinata ovest di Capitol Hill, la sede del Congresso, diventando il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Uno scenario fino a qualche tempo fa imprevedibile. Altrettanto difficile è immaginare oggi come saranno i prossimi quattro anni.

L’incertezza sulle mosse del neopresidente non ha precedenti. Alcune delle sue dichiarazioni - e molti dei suoi tweet - su questioni di politica estera, immigrazione, alleanze e accordi internazionali sono fonte di ansia, negli Stati Uniti e nel mondo. Sull’economia, invece, prevale un certo ottimismo.

Le aspettative positive sulla Trumpnomics sono essenzialmente dovute a tre motivi. La promessa di semplificare e ridurre le aliquote fiscali e, al tempo stesso, di fare forti investimenti in infrastrutture e difesa stimolerà la crescita (si stima un incremento di ulteriori due punti di Pil).

In secondo luogo, Trump è nel complesso percepito come business-friendly. Per diversi motivi. Un esempio significativo è la probabile riduzione della tassazione d’impresa che, tra l’altro, dovrebbe favorire il rimpatrio negli Stati Uniti di circa 1,4 trilioni di profitti di multinazionali americane ora parcheggiati all’estero.

Un flusso di denaro importante che si tradurrà in investimenti o dividendi. Infine, alcuni settori - energia, difesa, infrastrutture, in parte il farmaceutico - dovrebbero beneficiare del nuovo corso. Ciò ha già determinato rialzi in borsa e potrebbe tradursi in investimenti e occupazione.

Timori di dazi e guerra commerciale
Il generale ottimismo sull’economia è solo in parte attenuato dalla possibilità che siano imposti dazi doganali. Tale promessa è stata efficace in campagna elettorale ma è complicata da realizzare perché una guerra commerciale danneggerebbe anche gli Stati Uniti.

Basti pensare che, tra 2010 e 2014, General Motors ha venduto più auto in Cina che negli Usa. Inoltre, in un mondo caratterizzato dalla divisione della produzione all’interno delle catene globali del valore, molte importazioni provenienti da Cina e Messico - come acciaio, componenti automobilistiche, plastiche industriali - rappresentano materie prime o beni intermedi per gli esportatori americani.

Paradossalmente, quindi, i dazi su certe importazioni si tradurrebbero in una tassa sull’export americano. I consiglieri economici di Trump, e gran parte del Congresso, ne sono consapevoli e cercheranno di contenere l’aggressività della politica commerciale. Ci sarà spazio per qualche schermaglia simbolica con Cina e Messico, per questioni d’immagine, ma è difficile che gli Stati Uniti scatenino guerre commerciali dalle conseguenze imprevedibili.

Tassi d’interesse e debito pubblico
Tutto bene quindi? Nel breve termine, probabilmente sì. Si avranno benefici su crescita, profitti delle imprese e occupazione. Ma nel medio-lungo periodo la situazione è più complessa e presenta non pochi rischi.

Innanzitutto, è possibile che lo stimolo alla crescita sia meno efficace e duraturo del previsto. Per due motivi. I tassi d’interesse in aumento rafforzano il dollaro rendendo meno competitive le esportazioni americane nel mondo. Inoltre, con un tasso di disoccupazione già molto basso - l’attuale 4,9% è considerato vicino alla piena occupazione - le manovre espansive hanno un impatto ridotto.

Un serio rischio di medio-lungo termine è dato dal fatto che tutte le manovre previste da Trump comportano un ulteriore aumento del già enorme debito pubblico. Dimensioni del debito e tassi d’interesse in aumento renderanno sempre più oneroso servirlo e finanziarlo. Un’altra bomba a orologeria è il sistema di previdenza sociale - nel lungo periodo non sostenibile -, per il quale il Trump non prevede alcuna riforma.

Altra incognita rilevante è la gestione dell’exit strategy da parte della Fed, che dopo anni di politica monetaria espansiva ha invertito la tendenza. Una frenata troppo brusca potrebbe risvegliare la paura di recessione; una troppo blanda potrebbe alimentare timori d’inflazione.

Vi è poi il rischio che i molti capitali che stanno rientrando negli Stati Uniti attratti da tassi di interesse in aumento determinino la sopravvalutazione di alcuni asset o settori finanziari, formando nuove bolle speculative (di cui l’ultima crisi finanziaria ha mostrato le possibili disastrose conseguenze).

Sfide strategiche
Il vero punto debole della Trumpnomics è la scarsa attenzione rispetto ad alcune questioni strategiche per l’economia americana nel medio-lungo periodo. Il focus della nuova amministrazione repubblicana, in termini di stimolo a crescita e occupazione, sembra riguardare i settori tradizionali, come l’automotive e le altre produzioni manifatturiere. Il motivo è evidente: molti lavoratori di questi settori hanno votato per Trump l’8 novembre.

Ma sono questi i settori strategici su cui gli Stati Uniti devono puntare? I motori di crescita con maggiori prospettive nel lungo termine sono altri. Sono quelli caratterizzati da innovazione, creatività e conoscenza, quelli ad alta concentrazione di capitale umano, che investono in ricerca e attraggono persone con elevati livelli d’istruzione. Tuttavia, al di là di una riunione con i vertici di alcune aziende della Silicon Valley, Trump non sembra avere un piano per questi settori.

È infine importante segnalare che l’agenda di Trump non prevede alcuna misura per gestire l’aumento delle disparità di reddito, ricchezza e istruzione. Un paradosso, perché proprio il malessere diffuso generato dall’aumento della diseguaglianza è stato un fattore decisivo nella vittoria elettorale del magnate.

È possibile che, nel corso del suo mandato, il presidente aggiusti il tiro e introduca interventi in questo senso. Non affrontare questi fenomeni può avere conseguenze molto negative, non solo sulle prossime elezioni ma più in generale sull’economia e la società americane.

Ottimismo sulle ricette economiche 
Un certo ottimismo di breve termine sulla Trumpnomics non è infondato. I rialzi di borsa degli ultimi mesi sembrano confermarlo. È probabile che la politica economica di Trump favorisca alcuni anni di crescita negli Stati Uniti. Sarebbe tuttavia miope sottovalutare alcuni importanti rischi di lungo termine. L’economia americana, seppur in condizioni migliori di quella europea, mostra infatti preoccupanti fragilità.

Marco Magnani è Fellow allo IAI e Senior Research Fellow alla Harvard Kennedy School. Ha pubblicato “Sette Anni di Vacche Sobrie” (Utet), “Creating Economic Growth” (PalgraveMamillan), “Terra e Buoi dei Paesi Tuoi” (Utet) e collabora con IlSole24Ore. Insegna Monetary Policy, Economic Growth and International Affairs a Scienze Politiche della Luiss (www.magnanimarco.com, twitter @marcomagnan1).

giovedì 26 gennaio 2017

Ricerca Parametrale n. 505. Notizie del 24 gennaio 2017

Oggetto Newsletter : Siria, Trump, Brexit
Newsletter n° 505 , 24 gennaio 2017

Nella prima settimana alla Casa Bianca, Donald Trump si appresta
 a ricevere - venerdì prossimo - la premier britannica 
Theresa May: sul tavolo, il rilancio delle relazioni
 bilaterali con la Brexit all'orizzonte. E per
 oggi è attesa nel Regno Unito la sentenza della
 Corte Suprema sul soggetto legittimato a dare il
 via al recesso dall'Ue: toccherà al governo, come 
insiste la premier, o al Parlamento (che la May 
cerca invece di coinvolgere il più tardi possibile)?
 Ad Astana, intanto, Russia, Iran e Turchia mettono
 attorno a un tavolo ribelli e filo-governativi per cercare
 soluzione al conflitto siriano. Usa e Ue grandi assenti,
 mentre la Cina a Davos prende in mano la torcia di 
paladino della globalizzazione. 

Ricerca parametrale 504. Notizie del 20 Gennaio 2017

È la settimana in cui i cicloni politici del 2016 assestano
 i primi colpi. Mentre Donald Trump si appresta a giurare 
a Capitol Hill come 45° presidente degli Stati Uniti
 - oggi alle 18 italiane -, la premier britannica 
Theresa May detta le linee guida del governo per la Brexit:
 un taglio netto nei rapporti con l'Ue che porterà
 il Regno Unito fuori dal mercato unico
 (ma i parlamentari di Westminster avranno la possibilità di dire la loro). 
Come reagirà l'Unione europea, stretta fra i nuovi
 corsi di Washington e Londra? A rispondere alla 
domanda sarà chiamato anche Antonio Tajani, 
neoeletto presidente del Parlamento europeo
 in quota popolare: è il primo italiano ad arrivare
 al vertice dell'Assemblea di Strasburgo da quando
 è eletta direttamente dai cittadini dell'Ue. Fra le priorità 
in agenda anche le politiche migratorie, mentre l'Italia si dà nuove regole. 



Parlamento europeo
Tajani, presidente italiano per salto di qualità
Gianni Bonvicini
19/01/2017
 più piccolopiù grande
Malgrado qualche titolo in più sui giornali per la (ri-) elezione del proprio presidente, il Parlamento europeo continua ad essere un oggetto misterioso e lontano dagli interessi dei cittadini.

Certamente l’Italia può essere soddisfatta di avere finalmente portato sul più alto scranno dell’Assemblea di Strasburgo un proprio rappresentante. Era dal lontano 1979 (prime elezioni dirette) che si attendeva questo evento. Ciò avviene per di più in un momento in cui il paese è tornato ad essere marginale e a subire pressioni da parte di Bruxelles sui propri conti pubblici e perfino sul software di controllo delle emissioni su alcune vetture della Fiat-Chrysler.

Ma al di là di questo successo rimane l’interrogativo di fondo, valido per l’intera Unione europea, Ue, sul senso di queste elezioni di “mid term”.Lo scambio di presidenze fra i due maggiori raggruppamenti europei, popolari e socialisti, nel bel mezzo della vita parlamentare ha il sapore di qualcosa di artificioso e in qualche modo ‘burocratico’.

Un Parlamento che per tutti i cinque anni della legislatura non può essere sciolto da nessuno e che per di più sceglie i propri presidenti sulla base di un semplice accordo di alternanza per fare contenti i due maggiori partiti fa nascere almeno qualche dubbio sulla sua valenza politica.

L’anomalia politica dell’Assemblea europea
È questo un vecchio discorso, che però continua a denunciare una certa anomalia del Pe rispetto ai modelli nazionali che i cittadini europei sono abituati a conoscere. Vero che la costruzione dell’Ue non ha caratteri federali ed è quindi lontana dai sistemi politici dei singoli Paesi. Purtuttavia il Parlamento europeo rappresenta, o dovrebbe rappresentare, una rottura nella struttura essenzialmente intergovernativa del sistema decisionale dell’Unione.

Dovrebbe, in teoria, essere l’istituzione politica per eccellenza, dove il gioco delle parti si esprime attraverso gli orientamenti ideologico-politici di ciascun raggruppamento, mentre la presidenza dell’Assemblea spetterebbe alla maggioranza parlamentare espressa attraverso le elezioni. Invece, questa spartizione delle responsabilità nel corso della legislatura inquina parzialmente la lotta politica a vantaggio dei compromessi e delle grandi coalizioni fra gli stessi partiti.

La minaccia degli euroscettici
La ragione, si dice, è che le forze politiche tradizionali devono difendersi dai movimenti euroscettici che minacciano la vita stessa del Parlamento. Ma se questo può essere vero oggi, non lo era anni fa quando nel Parlamento l’unica, o quasi, eccezione partitica controcorrente era rappresentata dai conservatori inglesi che facevano gruppo a parte. Eppure lo scambio di presidenze si faceva ugualmente.

Per di più, in questa legislatura la prassi dell’alternanza alla presidenza ha subìto un’ulteriore anomalia. Pur avendo vinto le elezioni del 2014, il Partito popolare europeo ha ceduto il primo turno della presidenza al socialista Martin Schulz: la ragione va ritrovata nella sperimentazione del meccanismo degli “spitzencandidaten” per la nomina alla presidenza della Commissione.

Con la vittoria dei popolari e la conseguente cooptazione da parte del Consiglio europeo del candidato leader, il popolareJean Claude Juncker, alla testa della Commissione, si è ben pensato di mettere alla presidenza del Pe il candidato dei socialisti, sconfitto nella corsa alla Commissione e rappresentante della minoranza parlamentare. Insomma un gioco di poltrone che risponde sempre alla logica di condivisione di compiti e responsabilità.

L’illusione degli ‘spitzencandidaten’
Peccato davvero, perché ci si era illusi che il meccanismo degli ‘spitzencandidaten’ avesse la forza di politicizzare molto di più sia la Commissione e il suo presidente, sia il Parlamento europeo, aprendo la strada ad un confronto duro fra maggioranza e opposizione nel controllare le azioni politiche di Juncker. Nulla di tutto ciò è avvenuto e le vecchie prassi compromissorie all’interno del Pe sono continuate senza alcun vero cambiamento.

Ad essere sinceri, la candidatura del socialista Gianni Pittella in contrapposizione al popolare Antonio Tajani aveva il significato di rompere questo anomalo accordo e di fare emergere una logica politica normale di gara per l’elezione del presidente del Parlamento. Si è voluto quindi dare il segnale che le cose possono cambiare e che le vecchie prassi compromissorie non sono scritte nella pietra.

Detto questo, la sfida che il nuovo presidente dovrà affrontare nei prossimi due anni e mezzo sarà principalmente politica. Il problema da risolvere non è tanto quello di contrastare i gruppi euroscettici all’interno del Parlamento, ma piuttosto di dare maggiore enfasi alla volontà del Pe di occuparsi delle politiche dell’Unione, di orientarle e controllarle usando al meglio i pochi ma significativi poteri a disposizione.

La lotta politica va portata quindi all’esterno dell’Assemblea, moltiplicando i rapporti con i Parlamenti nazionali e cercando sempre di più il contatto con i cittadini ormai profondamente disamorati di un’Unione lontana e incomprensibile. Azione politica che non può prescindere dalla crisi interna dell’Ue, ma neppure dal radicale modificarsi dello scenario internazionale di cui l’elezione di Donald Trump è l’ultima manifestazione.

Il Pe e il suo nuovo presidente hanno quindi il dovere di occuparsi meno delle logiche interne e molto di più di escogitare nuove forme di lotta e di un diverso modo di operare per rifondare un’Unione che di procedure e meccanismi anomali può morire. Ci vuole davvero un salto di qualità nel ruolo e nell’immagine del Pe ed è questa la vera sfida che Antonio Tajani dovrà lanciare nella seconda parte di questa legislatura.

Gianni Bonvicini è vicepresidente vicario dello IAI.

mercoledì 25 gennaio 2017

Ricerca parametrale n. 503. Notizie del 17 gennaio 2017

Oggetto Newsletter : Immigrazione, l'America di Trump, Brexit
Newsletter n° 503 , 17 gennaio 2017

Domani arriva nel Parlamento italiano il pacchetto immigrazione. 
A presentarlo - di rientro da un tour internazionale - 
sarà il ministro dell'Interno Marco Minniti, che ha annunciato
 la riapertura di venti Centri di identificazione ed espulsione 
(Cie) al massimo da cento posti ciascuno. A Washington
 si prepara intanto l'inaugurazione della presidenza Trump,
 mentre il magnate etichetta la Nato come "obsoleta",


L’America di Trump
Se le aziende gringas pensano al rimpatrio
Carlo Cauti
13/01/2017
 più piccolopiù grande
Il presidente-eletto Donald Trump non ha ancora prestato giuramento a Washington e già sembra che parte delle promesse fatte durante la campagna elettorale si stiano realizzando. Anzi, autorealizzando.

La prima riguarda la nuova fabbrica di autoveicoli che la Ford aveva progettato di costruire in Messico, investendo 1,6 miliardi di dollari. Piano cancellato e fondi dirottati verso lo stabilimento già esistente di Flat Rock, in Michigan, generando 700 nuovi posti di lavoro nel cuore della Rust Belt.

Esultano sindacati e colletti blu della regione considerata come il nuovo cuore del trumpismo, mentre a sud del Rio Grande la notizia è presa come una stangata. Se questo è un piccolo anticipo di quello che accadrà nei prossimi quattro anni, per il Messico, e più in generale per buona parte dell’America Latina, l’orizzonte si preannuncia funereo.

Le grandi di Detroit pensano di invertire il processo di delocalizzazione produttiva
E a nulla è valsa la precisazione della Ford sulla nuova Focus, che verrà comunque prodotta nella fabbrica già esistente di Hermosillo, nello stato di Sonora. La decisione della casa automobilistica di Detroit ha provato per la prima volta che invertire il processo di delocalizzazione produttiva non solo è pensabile, ma anche concretamente possibile.

E non è stato necessario neanche un executive order presidenziale. Nelle scorse settimane numerose altre aziende statunitensi hanno annunciato che rimpatrieranno parte delle proprie attività produttive, o che stanno analizzando questa possibilità. Tra loro anche la Apple. In altri casi, invece, sono stati annunciati nuovi investimenti in fabbriche Usa, come ad esempio per Fiat-Chrysler.

Tuttavia, per i Paesi che maggiormente hanno beneficiato della massiccia delocalizzazione produttiva dagli Usa verso i loro rispettivi territori nazionali, il rischio è la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro e l’impoverimento di intere regioni, che con l’apertura di fabbriche di gringos hanno conosciuto per la prima volta un netto miglioramento delle loro condizioni di vita.

L’economia messicana teme l’arrivo di Trump
In America Latina lo scenario è molto variegato. Brasile, Messico e Argentina sono le tre principali economie della regione, rappresentando il 70% del Pil in America Latina e nei Caraibi. Il Messico è il Paese che subirà il maggiore impatto nel caso in cui le riforme promesse da Trump in campagna elettorale divenissero realtà.

Il presidente-eletto ha promesso di rivedere, o addirittura denunciare, il North American Free Trade Agreement (Nafta), di aumentare pesantemente i dazi doganali, tassare le rimesse dei lavoratori messicani, deportare 11 milioni di immigrati clandestini e obbligare il Paese vicino a pagare per la costruzione di un muro di confine che dovrebbe sigillare la frontiera.

La principale minaccia è naturalmente quella legata al commercio, dato che circa il 90% dell’export messicano ha come destinazione finale gli Usa, corrispondendo al 28% del Pil del Messico.

Per quanto riguarda le rimesse, ogni anno i lavoratori messicani emigrati negli Usa, che con il loro lavoro contribuiscono alla formazione dell'11% del Pil statunitense, inviano circa 24-26 miliardi di dollari alle famiglie rimaste dall’altro lato del confine. Si tratta della seconda fonte di valuta pregiata per il Messico e un reddito fondamentale per centinaia di migliaia di persone, che se intaccato provocherebbe sconquassi sociali.

Infine, la questione del rimpatrio dei migranti e del muro avrebbe un effetto dirompente sul tasso di disoccupazione messicano, oggi al 3,9%. Una percentuale tenuta artificialmente bassa grazie al deflusso di manodopera verso gli Usa e dai disincentivi governativi a iscriversi tra le liste dei disoccupati, potrebbe esplodere se le promesse fatte da The Donald dovessero concretizzarsi.

Lo shock esterno che il Messico rischia di subire nei prossimi mesi è talmente violento che, non a caso, la sera stessa in cui Trump ha vinto le elezioni, l’8 novembre, il peso si è deprezzato di oltre il 13% nei confronti del dollaro. Un tonfo che segue la perdita del 10% accumulata durante il periodo di campagna elettorale. Il giorno dopo la Borsa Valori di Città del Messico ha perso il 3,18% e grandi banche come Citibank, Banorte e JP Morgan hanno tagliato le prospettive di crescita del Pil dal 2,3% all’1,1%.

Tuttavia, il magnate messicano Carlos Slim, tra gli uomini più ricchi del mondo, ha chiarito che il livore verso il Messico espresso da Trump negli ultimi mesi ha risposto alle esigenze immediate della campagna elettorale, mentre le contingenze reali di medio e di lungo periodo potrebbero essere molto diverse.

Modificare il Nafta, infatti, inciderebbe su oltre 7 milioni di posti di lavoro tra Usa e Messico che dipendono dal Trattato, così come sulla fabbricazione di molti prodotti americani realizzati sulla base di manufatti messicani. Un terremoto per l’economia messicana, ma le cui onde d'urto raggiungerebbero gli stessi Usa.

Brasile, effetto Trump sulle merci cinesi
Il Brasile, dal canto suo, sta attraversando una profonda recessione, e l’elezione di Trump mette in dubbio la possibile ripresa prevista per il 2017. Anche se non è tra i principali partner commerciali degli Stati Uniti, il Brasile dipende fortemente dall’interscambio con gli Usa, che rappresentano il 12,4% delle esportazioni brasiliane, il 17,1% delle importazioni e il 14% degli Investimenti diretti esteri (Ide).

La differenza con il Messico è che il Brasile non esporta manufatti, ma principalmente commodities, che per loro stessa natura non minacciano posti di lavoro americani, e che risulterebbero indispensabili nel caso in cui Trump concretizzasse il suo piano di massicci investimenti pubblici in infrastrutture.

Inoltre il commercio bilaterale è fortemente positivo per gli Usa, avendo toccato punte di 11 miliardi di surplus, e la composizione dei beni esportati in Brasile riguarda prodotti ad alto valore aggiunto e ad alta intensità di manodopera. il che tenderebbe ad escludere qualsiasi tentazione protezionistica.

Ma il Brasile potrebbe essere intaccato indirettamente, nel caso in cui Trump dovesse realmente applicare un dazio doganale del 35% sulle merci cinesi. Il probabile rallentamento dell’industria in Cina avrebbe un immediato effetto sulla domanda di commodities prodotte in Brasile, abbattendone il prezzo e riducendone la quantità esportata, e compromettendo così la ripresa brasiliana.

Infine, l’Argentina è probabilmente l’economia che verrà colpita meno direttamente dalla presidenza Trump, visto che gli Usa rappresentano solo il 5,7% dell’export argentino. Tuttavia gli Stati Uniti sono il primo Paese per flusso e stock di Ide in Argentina, che sta scommettendo sul suo recupero economico attraverso un indebitamento estero e che potrebbe essere intaccata dal cambiamento della politica monetaria della Fed, così come dalla riduzione del prezzo delle granaglie, anche in questo caso conseguenza di un possibile rallentamento cinese.

Se i tassi di interesse negli Usa dovessero iniziare a salire, a Buenos Aires avrebbero forti difficoltà per continuare ad attrarre capitali stranieri. E i profondi squilibri macroeconomici argentini potrebbero definitivamente deflagrare.

In conclusione, il periodo di bonanza economica che i Paesi latinoamericani avevano vissuto negli ultimi anni, caratterizzato da una congiuntura esterna favorevole, una traiettoria di crescita, un aumento del flusso di capitali in entrata e un alto prezzo delle commodities esportate sembra definitivamente tramontare con la futura presidenza Trump. La sfida per i governi locali sarà gestire gli inevitabili effetti provocati da questo brusco cambiamento di rotta.

Carlo Cauti è un giornalista italiano di base a São Paulo del Brasile.

lunedì 16 gennaio 2017

Ricerca parametrale n. 502. Notizie del 16 gennaio 2017

Oggetto Newsletter : Trump alla Casa Bianca
Newsletter n° 502 , 16 gennaio 2017

Da una parte il discorso di addio, ma pieno di speranza, di 
Barack Obama, fra le lacrime degli oltre 20 mila del McCormick 
Place di Chicago. Dall’altra la prima - infuocata e senza
 esclusione di colpi - conferenza stampa di Donald Trump
 da quando ha vinto le elezioni, nella Trump Tower di New York. 
Due stili mai così agli antipodi si confrontano alla vigilia del
 passaggio di consegne fra il primo presidente afroamericano 
e il primo inquilino della Casa Bianca che non ha mai ricoperto
 cariche elettive né prestato servizio militare. Tra quattro giorni,
 il 20 gennaio a mezzogiorno (quando in Italia saranno le 6 del pomeriggio), 
Trump giurerà a Capitol Hill come 45esimo presidente degli
 Stati Uniti. Ci prepariamo all’insediamento con il nostro
 speciale sui dossier aperti: futuro della NATO, 
ambiente, conflitto israelo-palestinese, energia, 
Corte Suprema, innovazione, rapporti con Russia,
 Europa, Asia e America Latina. Come sarà
 l’America del tycoon?

Ricerca parametrale n. 501. Notizie del 13 gennaio 2017

Oggetto Newsletter : Missioni italiane all'estero, Cinque Stelle in Europa, Libia
Newsletter n° 501 , 13 gennaio 2017

Con il nuovo anno è entrata in vigore la legge quadro 
sulle missioni militari italiane all'estero: che cosa cambia 
per il nostro Paese? Aspettando l’insediamento di Trump, 
a Bruxelles ultimi giorni di campagna elettorale per i candidati
 alla presidenza del Parlamento europeo. Il nostro tricolore
 la fa da padrone non solo nella corsa (tre candidati su sette
 sono italiani) ma anche nel dibattito con i Cinque Stelle
 fra adesione all'Alde e dietrofront verso l'Efdd. 
Dopo lo schiaffo di Verhofstadt, quale prezzo
 pagherà Grillo per tornare in casa Ukip?

L’America di Trump
Trump, Re Mida dei Bitcoin?
Sabrina Palanza
10/12/2016
 più piccolopiù grande
La recente elezione di Donald Trump alla Casa Bianca ha comportato un immediato calo del valore del dollaro Usa, ma altresì un’impennata del bitcoin, la cripto moneta per eccellenza che viene ormai percepita come una “valuta di rifugio” nei momenti d’incertezza economica e politica (non è un caso che ha registrato una crescita nei giorni successivi alla Brexit, stabilizzando il suo valore intorno ai 600 dollari), quando il sistema finanziario inevitabilmente risente dei più diversi fattori esogeni, tra cui quelli di matrice politica.

Trump, il cyber-liberale
La comunità bitcoin, durante la recente campagna elettorale statunitense, ha avuto modo di schierarsi apertamente con Trump, sostenendolo con una donazione di 1,25 milioni di dollari nel mese di ottobre 2016 e identificandolo come il candidato più vicino al cyber-liberalismo, corrente ideologica nella quale la criptomoneta può essere inserita.

Del resto, lo stesso neo eletto presidente ha dichiarato in diverse interviste che, a suo parere, il governo dovrebbe classificare il Bitcoin (inteso, qui, nella sua tecnologia e rete) come una valuta legale. I legami, quindi, più o meno espliciti, tra Trump e la comunità bitcoin, sembrano conferire una certa coloritura tech al partito repubblicano e al nuovo presidente.

Bitcoin, la moneta Peer-to-peer: cosa sapere
Trump la considera una valuta legale, la Banca centrale europea nel 2012 ha reso nota una relazione dal titolo “Modelli di moneta virtuale”, cercando di classificare i diversi modelli e schemi di moneta virtuale, sempre più persone al mondo la utilizzano, ma nessuno ha mai visto un Bitcoin. Di che stiamo parlando?

Con il termine “Bitcoin” viene indicata la tecnologia delle valute elettroniche, nate nel 2009 e svincolate da qualsiasi organo centrale che ne controlla e ne regola l’immissione nel mercato.

Come ogni moneta, sono un mezzo di pagamento che viene scambiato esclusivamente utilizzando computer e server sparsi nella rete (da qui, la sua natura peer-to-peer), che vengono chiamati wallet. Questo scambio avviene in maniera anonima e crittata, ma tramite un sistema del tutto pubblico, la Blockchain, ossia una sorta di registro in cui vengono archiviate tutte le transazioni effettuate ogni dieci minuti nel mondo.

Questa insita contraddizione rende parzialmente vero il fattore “anonimato”, in quanto le attività di ogni Bitcoinadress, ossia il codice alfanumerico che identifica ogniwallet, possono essere consultate da chiunque, pur non risalendo al nome dell’utente.

Ad ogni modo, affinché si possa registrare ogni transazione sulla Blockchain, e quindi portarla a conclusione, questa viene precedentemente presa in carico da un miners, ossia un “minatore” che, svolgendo una serie complessa di calcoli e decrittazioni, traduce il codice alfanumerico della transazione in Bitcoins, guadagnando per questo servizio 25 Bitcoins, che vanno ad incrementare il numero totale dei Bitcoins presenti nella rete mondiale.

A tal proposito, è stato calcolato che potranno essere “minati” (coniati) solo 21 milioni di Bitcoins, prevedendo così una quantità massima e fissa di “moneta” nel sistema, raggiunta la quale i minatori di Bitcoins saranno probabilmente compensati soltanto da numerose piccole commissioni di transazione.

Moneta globale, valute tradizionali e controllo politico
Stando alla definizione di moneta fornitaci dall’economista Friedrich Hayek “La moneta è quella cosa che non diventa più economica a seguito della concorrenza con le altre valute, al contrario è quel bene il cui punto di forza risiede proprio in tale fattore”; i Bitcoin sembrano essere fedeli a tali principio in quanto non hanno eliminato le valute tradizionali, ma coesistono con loro e svolgono il ruolo di competitor.

Secondo l’economista, un sistema decentralizzato e denazionalizzato riuscirebbe a creare non solo una valuta migliore, ma un sistema più stabile, nel quale i governi non potranno più eccedere nella spesa per stimolare il mercato e l’occupazione, creando instabilità a danno dei cittadini.

Eppure, anche in ciò, vi è una contraddizione insita nel sistema: per “minare” bitcoins ci deve essere una certa “autorità” che ne regoli l’alimentazione, e l’assenza di un intermediario, come una Banca Centrale, genera alcune difficoltà, prima su tutte l’assenza di prestito di denaro.

Inoltre, il mancato controllo sul denaro da parte di un governo potrebbe comportare dei problemi al sistema politico. Ad oggi, per esempio, è possibile monitorare le transazioni finanziare, scoraggiando il riciclaggio di denaro. Con i Bitcoin, tutto ciò diventerebbe complicato, non riuscendo a rintracciare i movimenti di denaro benché, come è stato detto precedentemente, l’anonimato nelle transazioni sia solo parziale.

Secondo Juniper Research, il volume di tutti i Bitcoin andrà ad eccedere i 92 miliardi di dollari entro la fine del 2016, offrendo un salvacondotto per coloro che prevedono possibili disordini in materia economica, in particolare in relazione alle decisioni politiche ed economiche che il nuovo governo statunitense vorrà intraprendere.

Nonostante la giurisprudenza statunitense sia scissa tra il riconoscimento legale o meno della moneta virtuale, occorre ricordare che Trump in campagna elettorale ha dichiarato la sua intenzione di voler riconoscere come valuta legale il Bitcoin.

Da un lato, quindi, l’incertezza che aleggia sulle future politiche economiche sta spingendo sempre più cittadini d’oltreoceano ad investire in Bitcoin, dall’altro lo stesso neo eletto presidente sembra strizzare l’occhiolino al mondo della criptovaluta, con il fine ultimo, forse, di porla sotto il tanto auspicato da alcuni, controllo politico.

Rilevata, quindi, la portata innovativa della criptomoneta e della realizzazione di quanto teorizzato da Hayek, solamente dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca si potrà capire quale futuro si prospetta per la valuta digitale.

Sabrina Palanza, laureata in Relazioni Internazionali presso l'Università degli studi di Perugia, attualmente studia i fenomeni legati alla privacy e agli sviluppi tecnologici da un punto di vista giuridico.





martedì 10 gennaio 2017

Ricerca Parametrale n. 500. Notizie del 10 gennaio 2017

Oggetto Newsletter : I dilemmi di Erdogan, Cybersecurity, Cipro
Newsletter n° 500 , 10 gennaio 2017

Il vertice di Mosca del 27 dicembre scorso ha 
ufficializzato l'accordo di Erdogan con la Russia e
 l'Iran sulla questione siriana. Quali saranno le 
conseguenze al fronte? E quali sono le ragioni della 
svolta? Ankara gioca intanto un'altra partita importante 
quanto alla sua influenza, con i negoziati sulla 
riunificazione di Cipro al via da ieri a Ginevra: riuscirà
 l'isola del Mediterraneo a ricomporre la quarantennale
 frattura fra la comunità greca e quella turca?
 Novità anche oltreoceano, dove la nomina
 di un petroliere e di un negazionista del
 cambiamento climatico rispettivamente come
 segretario di stato e capo dell'agenzia per 
l'ambiente statunitense mettono in dubbio il 
futuro dell'Accordo di Parigi. Quale sarà l'"effetto
 Tillerson" sull'ambiente? Sin dall’inizio si può 
scommettere che nel 2017 si parlerà di cybersicurezza,
 l’Italia, capotavola del G7, riuscirà a dire la sua? 


Mediterraneo 
Cipro 2017: l’anno della riunificazione?
Gabriele Rosana
09/01/2017
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Mustafa Akıncı, presidente della (non riconosciuta) repubblica turca di Cipro del Nord, è fra i 28 personaggi da tenere d’occhio nel 2017, secondo il listone cucinato alla vigilia delle feste da Politico Europe.

E, insieme a lui, anche Cipro, l’isola del Mediterraneo che ha dato i natali ad Afrodite (e continua a darli a risorse naturali d’interesse geostrategico), potrebbe finalmente trovarsi protagonista di un’insperata riunificazione.

Mai come oggi il Paese - che dal 2004 è membro dell’Unione europea, Ue - è stato così vicino alla ricomposizione della sua divisione interna iniziata, oltre 40 anni fa, con l’invasione del nord da parte delle truppe turche.

Lo ripetono in tanti, fra Nicosia e Lefkosa, nella capitale dai due nomi solcata dal filo spinato dal 1974. Ma a dimostrarsi ottimisti sono anche gli interlocutori che nei giorni scorsi hanno aggiornato sul punto il neosegretario generale dell’Onu António Guterres, alla vigilia del nuovo round di negoziati che - dopo la prima, speranzosa fase di metà novembre - si terrà anch’esso sotto l’egida della Nazioni Unite a Ginevra fra il 9 e l’11 gennaio, preceduto da una serie di febbrili scambi fra tutti gli attori coinvolti.

Da due il tavolo s’allargherà a cinque. Giovedì prossimo anche Turchia, Grecia e Regno Unito - i tre Paesi garanti della sicurezza sull’isola secondo i Trattati conclusi per sancire l’indipendenza da Londra, fra 1959 e 1960 - si uniranno alle trattative.

Mustafa e Nikos
Doveva essere la strenna sotto l’albero del 2016, potrebbe rivelarsi una delle pagine più liete di un 2017 piuttosto preoccupante. La storia dell’ultimo tentativo di riunificazione di Cipro è anche un incontro di due uomini, due personalità chiave nelle rispettive comunità: Akıncı e l’omologo che è dal 2013 a capo del sud greco (l’unica entità statale cipriota riconosciuta dalla comunità internazionale), Nikos Anastasiades.

Dopo il faticoso risultato (anche lì, due volte) negoziato dal presidente venezuelano Josè Manuel Santos con i rivoluzionari delle Farc, il 2017 potrebbe già schierare due forti candidature al Nobel per la Pace.

Già da sindaco di Lefkosa, Akıncı aveva lavorato per tentare di appianare le separazioni lungo la linea verde (il tratto demilitarizzato che spezza in due l’isola da est a a ovest), prima di fare della rivitalizzazione delle trattative con i greci del sud la piattaforma politica della sua elezione alla presidenza del nord nel 2014.

Uno sforzo condiviso con il quasi coetaneo Anastasiades: entrambi cresciuti sul litorale di Limassol quando Cipro era ancora un Paese unito e multietnico, nel 2004 i due uomini politici sostennero il tentativo di riunificazione condotto dall’allora segretario generale Onu Kofi Annan (e poi naufragato nelle urne del sud); oggi si considerano alla testa di quello che è l’ultimo tentativo concesso alla loro generazione.

Per preparare il sentiero verso il primo tempo negoziale, i due leader si sono incontrati pressoché settimanalmente per affrontare i dossier più controversi, quelli che hanno poi condotto a un nulla di fatto un mese e mezzo fa.

Fra Erdogan e Tsipras
Dopo un tour a Bruxelles fra Ue e Nato, e poco prima del ritorno a Ginevra per la ripresa del negoziato bilaterale con Anastasiades, Akıncı ha fatto visita ad Ankara al leader turco Recep Tayyip Erdogan, il cui ministro degli Esteri ha detto di non essere stato mai così ottimista rispetto alla risoluzione della questione cipriota.

La Turchia stessa è impegnata in un negoziato parallelo con la Grecia di Alexis Tsipras (che considera questa del 2017 l’ultima chance per una seria riunificazione), e i due leader di Ankara e Atene hanno provato a coordinare le loro (influenti) posizioni rispetto al negoziato. Anastasiades, da par suo, ha fatto tappa sotto il Partenone, a conferma del pesante ruolo di registi che i due Paesi garanti (e riferimento politico-culturale delle due comunità cipriote) hanno rispetto al futuro dell’isola.

I nodi del negoziato 
Le trattative cominciate a metà 2015 si sono arenate lo scorso 22 novembre a causa di dissensi, essenzialmente, rispetto al numero di rifugiati della diaspora che dal sud greco dovrebbe far ritorno nei territori occupati del nord e, di fatto, attorno alla scansione territoriale delle due entità in seno a un futuro stato unitario.

Ad aleggiare nella stanza anche la questione relativa agli stretti legami tra il nord e la Turchia: più di 30mila truppe di Ankara sono ancora di stanza nel settentrione dell’isola (il cui governo si oppone al ritiro totale). Differenze di vedute che hanno suggerito un supplemento di riflessione e di negoziati sottobanco, prima di far ritorno a Ginevra dopo la pausa di fine anno.

A pesare sulla mediazione sono anche le dichiarazioni di Akıncı secondo il quale l’accordo darebbe vita a una nuova creatura costituita dalle due entità, e le rivendicazioni dei greco-ciprioti che vedono invece l’eventuale intesa come un’evoluzione in senso federale della Repubblica di Cipro.

Anastasiades rivendica infatti di essere presente ai negoziati con il duplice cappello di leader della comunità greco-cipriota e di capo dello Stato, riconoscendo alla sua controparte solo la legittimazione di essere il riferimento della collettività turco-cipriota, e non anche di capo politico riconosciuto dalla comunità internazionale.

Come già tredici anni fa (quando appena una settimana prima dell’ingresso nell’Ue il piano Annan fu bocciato da due terzi della comunità greca e promosso da più della metà di quella turca), se anche stavolta le trattative dovessero portare a un accordo, questo dovrebbe comunque essere ratificato con un referendum che potrebbe tenersi, in entrambe le comunità, già in estate. Le previsioni, stavolta, farebbero ben sperare; ma l’anno appena trascorso ha insegnato come i referendum siano l’arte dell’imponderabile.

Se il 2016 sarà ricordato come l’anno durante il quale, con la Brexit, l’Ue si è ristretta a nord, il 2017 potrebbe essere l’anno del riallargamento a sud, con l’ingresso di una nuova porzione di territorio in una neonata Cipro federale, che da spina nel fianco diverrebbe ponte di dialogo privilegiato per l’Unione verso la problematica Turchia.

Gabriele Rosana, giornalista pubblicista e assistente alla comunicazione dello IAI, è LLM Candidate in diritto dell’Ue al Collegio d’Europa di Bruges. (Twitter: @GabRosana).

mercoledì 4 gennaio 2017

Ricerca parametrale n. 499. Notizie del 3 gennaio 2017

Oggetto Newsletter : Un italiano a Strasburgo, Russia, Ue-Nato
Newsletter n° 499 , 3 gennaio  2017

L’anno che marca il 60esimo anniversario della firma dei
Trattati di Roma, istitutivi delle prime Comunità europee,
 ha in calendario già al suo debutto una sfida tutta italiana
 al vertice dell’Ue. Il 17 gennaio infatti, il Parlamento
 europeo eleggerà il successore di Martin Schulz: 
a contendersi la presidenza dell’assemblea di Strasburgo
 sono Antonio Tajani e Gianni Pittella, candidati 
rispettivamente di popolari e socialisti, i due più
 grandi gruppi dell’emiciclo. La Ue è attesa al
 varco anche nei rapporti transatlantici: con l’insediamento
 di Trump alla Casa Bianca in rapido avvicinamento,
 Bruxelles dovrà decidere che profilo dare alle propria 
politica di difesa e ai rapporti con una Nato messa in crisi 
dal tycoon divenuto presidente. La Russia, intanto, confida 
nell’amico Donald e si prepara a vivere un 2017 da protagonista
, a cominciare dal fronte energetico.