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venerdì 27 gennaio 2017

Ricerca parametrale n. 506. Notizie del 27 gennaio 2017

Oggetto Newsletter : Trump-Messico, Brexit, Libia, Egitto
Newsletter n° 506 , 27 gennaio 2017

Donald Trump non indietreggia rispetto alle promesse elettorali: 
il muro con il Messico si farà. Il neopresidente degli Stati 
Uniti ha firmato gli ordini esecutivi per costruire una barriera
 al confine con il Paese centroamericano e per rafforzare 
i controlli alla frontiera. Una decisione controversa che
 arriva pochi giorni prima dell'incontro con l'omologo
 messicano Enrique Peña Nieto, che ha cancellato la
 visita e assicurato: "Non pagheremo per il muro e
 proteggeremo i nostri immigrati negli Stati Uniti. 
Oggi alla Casa Bianca sarà invece la premier britannica 
Theresa May, che in questi giorni fa i conti con la sentenza
 della Corte Suprema del Regno Unito che rimette al 
Parlamento l'attivazione della Brexit. Nei primi bilaterali
 dell'era Trump si parlerà anche di intese commerciali,
 nel clima di diffidenza generale creato dalla Trumpnomics. 
Il cambio a Washington influenzerà anche la stabilità in Libia, 
mentre il generale Haftar riconquista terreno a Bengasi? 
E quale sarà la politica dell'amministrazione repubblicana 
nei confronti dell'Egitto? 

Economia Usa
Trumpnomics, crescita e rischi di lungo termine 
Marco Magnani
24/01/2017
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Con la mano sinistra posata sulla Bibbia, venerdì 20 gennaio Donald Trump ha prestato giuramento sulla scalinata ovest di Capitol Hill, la sede del Congresso, diventando il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Uno scenario fino a qualche tempo fa imprevedibile. Altrettanto difficile è immaginare oggi come saranno i prossimi quattro anni.

L’incertezza sulle mosse del neopresidente non ha precedenti. Alcune delle sue dichiarazioni - e molti dei suoi tweet - su questioni di politica estera, immigrazione, alleanze e accordi internazionali sono fonte di ansia, negli Stati Uniti e nel mondo. Sull’economia, invece, prevale un certo ottimismo.

Le aspettative positive sulla Trumpnomics sono essenzialmente dovute a tre motivi. La promessa di semplificare e ridurre le aliquote fiscali e, al tempo stesso, di fare forti investimenti in infrastrutture e difesa stimolerà la crescita (si stima un incremento di ulteriori due punti di Pil).

In secondo luogo, Trump è nel complesso percepito come business-friendly. Per diversi motivi. Un esempio significativo è la probabile riduzione della tassazione d’impresa che, tra l’altro, dovrebbe favorire il rimpatrio negli Stati Uniti di circa 1,4 trilioni di profitti di multinazionali americane ora parcheggiati all’estero.

Un flusso di denaro importante che si tradurrà in investimenti o dividendi. Infine, alcuni settori - energia, difesa, infrastrutture, in parte il farmaceutico - dovrebbero beneficiare del nuovo corso. Ciò ha già determinato rialzi in borsa e potrebbe tradursi in investimenti e occupazione.

Timori di dazi e guerra commerciale
Il generale ottimismo sull’economia è solo in parte attenuato dalla possibilità che siano imposti dazi doganali. Tale promessa è stata efficace in campagna elettorale ma è complicata da realizzare perché una guerra commerciale danneggerebbe anche gli Stati Uniti.

Basti pensare che, tra 2010 e 2014, General Motors ha venduto più auto in Cina che negli Usa. Inoltre, in un mondo caratterizzato dalla divisione della produzione all’interno delle catene globali del valore, molte importazioni provenienti da Cina e Messico - come acciaio, componenti automobilistiche, plastiche industriali - rappresentano materie prime o beni intermedi per gli esportatori americani.

Paradossalmente, quindi, i dazi su certe importazioni si tradurrebbero in una tassa sull’export americano. I consiglieri economici di Trump, e gran parte del Congresso, ne sono consapevoli e cercheranno di contenere l’aggressività della politica commerciale. Ci sarà spazio per qualche schermaglia simbolica con Cina e Messico, per questioni d’immagine, ma è difficile che gli Stati Uniti scatenino guerre commerciali dalle conseguenze imprevedibili.

Tassi d’interesse e debito pubblico
Tutto bene quindi? Nel breve termine, probabilmente sì. Si avranno benefici su crescita, profitti delle imprese e occupazione. Ma nel medio-lungo periodo la situazione è più complessa e presenta non pochi rischi.

Innanzitutto, è possibile che lo stimolo alla crescita sia meno efficace e duraturo del previsto. Per due motivi. I tassi d’interesse in aumento rafforzano il dollaro rendendo meno competitive le esportazioni americane nel mondo. Inoltre, con un tasso di disoccupazione già molto basso - l’attuale 4,9% è considerato vicino alla piena occupazione - le manovre espansive hanno un impatto ridotto.

Un serio rischio di medio-lungo termine è dato dal fatto che tutte le manovre previste da Trump comportano un ulteriore aumento del già enorme debito pubblico. Dimensioni del debito e tassi d’interesse in aumento renderanno sempre più oneroso servirlo e finanziarlo. Un’altra bomba a orologeria è il sistema di previdenza sociale - nel lungo periodo non sostenibile -, per il quale il Trump non prevede alcuna riforma.

Altra incognita rilevante è la gestione dell’exit strategy da parte della Fed, che dopo anni di politica monetaria espansiva ha invertito la tendenza. Una frenata troppo brusca potrebbe risvegliare la paura di recessione; una troppo blanda potrebbe alimentare timori d’inflazione.

Vi è poi il rischio che i molti capitali che stanno rientrando negli Stati Uniti attratti da tassi di interesse in aumento determinino la sopravvalutazione di alcuni asset o settori finanziari, formando nuove bolle speculative (di cui l’ultima crisi finanziaria ha mostrato le possibili disastrose conseguenze).

Sfide strategiche
Il vero punto debole della Trumpnomics è la scarsa attenzione rispetto ad alcune questioni strategiche per l’economia americana nel medio-lungo periodo. Il focus della nuova amministrazione repubblicana, in termini di stimolo a crescita e occupazione, sembra riguardare i settori tradizionali, come l’automotive e le altre produzioni manifatturiere. Il motivo è evidente: molti lavoratori di questi settori hanno votato per Trump l’8 novembre.

Ma sono questi i settori strategici su cui gli Stati Uniti devono puntare? I motori di crescita con maggiori prospettive nel lungo termine sono altri. Sono quelli caratterizzati da innovazione, creatività e conoscenza, quelli ad alta concentrazione di capitale umano, che investono in ricerca e attraggono persone con elevati livelli d’istruzione. Tuttavia, al di là di una riunione con i vertici di alcune aziende della Silicon Valley, Trump non sembra avere un piano per questi settori.

È infine importante segnalare che l’agenda di Trump non prevede alcuna misura per gestire l’aumento delle disparità di reddito, ricchezza e istruzione. Un paradosso, perché proprio il malessere diffuso generato dall’aumento della diseguaglianza è stato un fattore decisivo nella vittoria elettorale del magnate.

È possibile che, nel corso del suo mandato, il presidente aggiusti il tiro e introduca interventi in questo senso. Non affrontare questi fenomeni può avere conseguenze molto negative, non solo sulle prossime elezioni ma più in generale sull’economia e la società americane.

Ottimismo sulle ricette economiche 
Un certo ottimismo di breve termine sulla Trumpnomics non è infondato. I rialzi di borsa degli ultimi mesi sembrano confermarlo. È probabile che la politica economica di Trump favorisca alcuni anni di crescita negli Stati Uniti. Sarebbe tuttavia miope sottovalutare alcuni importanti rischi di lungo termine. L’economia americana, seppur in condizioni migliori di quella europea, mostra infatti preoccupanti fragilità.

Marco Magnani è Fellow allo IAI e Senior Research Fellow alla Harvard Kennedy School. Ha pubblicato “Sette Anni di Vacche Sobrie” (Utet), “Creating Economic Growth” (PalgraveMamillan), “Terra e Buoi dei Paesi Tuoi” (Utet) e collabora con IlSole24Ore. Insegna Monetary Policy, Economic Growth and International Affairs a Scienze Politiche della Luiss (www.magnanimarco.com, twitter @marcomagnan1).

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