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giovedì 26 gennaio 2017

Ricerca parametrale 504. Notizie del 20 Gennaio 2017

È la settimana in cui i cicloni politici del 2016 assestano
 i primi colpi. Mentre Donald Trump si appresta a giurare 
a Capitol Hill come 45° presidente degli Stati Uniti
 - oggi alle 18 italiane -, la premier britannica 
Theresa May detta le linee guida del governo per la Brexit:
 un taglio netto nei rapporti con l'Ue che porterà
 il Regno Unito fuori dal mercato unico
 (ma i parlamentari di Westminster avranno la possibilità di dire la loro). 
Come reagirà l'Unione europea, stretta fra i nuovi
 corsi di Washington e Londra? A rispondere alla 
domanda sarà chiamato anche Antonio Tajani, 
neoeletto presidente del Parlamento europeo
 in quota popolare: è il primo italiano ad arrivare
 al vertice dell'Assemblea di Strasburgo da quando
 è eletta direttamente dai cittadini dell'Ue. Fra le priorità 
in agenda anche le politiche migratorie, mentre l'Italia si dà nuove regole. 



Parlamento europeo
Tajani, presidente italiano per salto di qualità
Gianni Bonvicini
19/01/2017
 più piccolopiù grande
Malgrado qualche titolo in più sui giornali per la (ri-) elezione del proprio presidente, il Parlamento europeo continua ad essere un oggetto misterioso e lontano dagli interessi dei cittadini.

Certamente l’Italia può essere soddisfatta di avere finalmente portato sul più alto scranno dell’Assemblea di Strasburgo un proprio rappresentante. Era dal lontano 1979 (prime elezioni dirette) che si attendeva questo evento. Ciò avviene per di più in un momento in cui il paese è tornato ad essere marginale e a subire pressioni da parte di Bruxelles sui propri conti pubblici e perfino sul software di controllo delle emissioni su alcune vetture della Fiat-Chrysler.

Ma al di là di questo successo rimane l’interrogativo di fondo, valido per l’intera Unione europea, Ue, sul senso di queste elezioni di “mid term”.Lo scambio di presidenze fra i due maggiori raggruppamenti europei, popolari e socialisti, nel bel mezzo della vita parlamentare ha il sapore di qualcosa di artificioso e in qualche modo ‘burocratico’.

Un Parlamento che per tutti i cinque anni della legislatura non può essere sciolto da nessuno e che per di più sceglie i propri presidenti sulla base di un semplice accordo di alternanza per fare contenti i due maggiori partiti fa nascere almeno qualche dubbio sulla sua valenza politica.

L’anomalia politica dell’Assemblea europea
È questo un vecchio discorso, che però continua a denunciare una certa anomalia del Pe rispetto ai modelli nazionali che i cittadini europei sono abituati a conoscere. Vero che la costruzione dell’Ue non ha caratteri federali ed è quindi lontana dai sistemi politici dei singoli Paesi. Purtuttavia il Parlamento europeo rappresenta, o dovrebbe rappresentare, una rottura nella struttura essenzialmente intergovernativa del sistema decisionale dell’Unione.

Dovrebbe, in teoria, essere l’istituzione politica per eccellenza, dove il gioco delle parti si esprime attraverso gli orientamenti ideologico-politici di ciascun raggruppamento, mentre la presidenza dell’Assemblea spetterebbe alla maggioranza parlamentare espressa attraverso le elezioni. Invece, questa spartizione delle responsabilità nel corso della legislatura inquina parzialmente la lotta politica a vantaggio dei compromessi e delle grandi coalizioni fra gli stessi partiti.

La minaccia degli euroscettici
La ragione, si dice, è che le forze politiche tradizionali devono difendersi dai movimenti euroscettici che minacciano la vita stessa del Parlamento. Ma se questo può essere vero oggi, non lo era anni fa quando nel Parlamento l’unica, o quasi, eccezione partitica controcorrente era rappresentata dai conservatori inglesi che facevano gruppo a parte. Eppure lo scambio di presidenze si faceva ugualmente.

Per di più, in questa legislatura la prassi dell’alternanza alla presidenza ha subìto un’ulteriore anomalia. Pur avendo vinto le elezioni del 2014, il Partito popolare europeo ha ceduto il primo turno della presidenza al socialista Martin Schulz: la ragione va ritrovata nella sperimentazione del meccanismo degli “spitzencandidaten” per la nomina alla presidenza della Commissione.

Con la vittoria dei popolari e la conseguente cooptazione da parte del Consiglio europeo del candidato leader, il popolareJean Claude Juncker, alla testa della Commissione, si è ben pensato di mettere alla presidenza del Pe il candidato dei socialisti, sconfitto nella corsa alla Commissione e rappresentante della minoranza parlamentare. Insomma un gioco di poltrone che risponde sempre alla logica di condivisione di compiti e responsabilità.

L’illusione degli ‘spitzencandidaten’
Peccato davvero, perché ci si era illusi che il meccanismo degli ‘spitzencandidaten’ avesse la forza di politicizzare molto di più sia la Commissione e il suo presidente, sia il Parlamento europeo, aprendo la strada ad un confronto duro fra maggioranza e opposizione nel controllare le azioni politiche di Juncker. Nulla di tutto ciò è avvenuto e le vecchie prassi compromissorie all’interno del Pe sono continuate senza alcun vero cambiamento.

Ad essere sinceri, la candidatura del socialista Gianni Pittella in contrapposizione al popolare Antonio Tajani aveva il significato di rompere questo anomalo accordo e di fare emergere una logica politica normale di gara per l’elezione del presidente del Parlamento. Si è voluto quindi dare il segnale che le cose possono cambiare e che le vecchie prassi compromissorie non sono scritte nella pietra.

Detto questo, la sfida che il nuovo presidente dovrà affrontare nei prossimi due anni e mezzo sarà principalmente politica. Il problema da risolvere non è tanto quello di contrastare i gruppi euroscettici all’interno del Parlamento, ma piuttosto di dare maggiore enfasi alla volontà del Pe di occuparsi delle politiche dell’Unione, di orientarle e controllarle usando al meglio i pochi ma significativi poteri a disposizione.

La lotta politica va portata quindi all’esterno dell’Assemblea, moltiplicando i rapporti con i Parlamenti nazionali e cercando sempre di più il contatto con i cittadini ormai profondamente disamorati di un’Unione lontana e incomprensibile. Azione politica che non può prescindere dalla crisi interna dell’Ue, ma neppure dal radicale modificarsi dello scenario internazionale di cui l’elezione di Donald Trump è l’ultima manifestazione.

Il Pe e il suo nuovo presidente hanno quindi il dovere di occuparsi meno delle logiche interne e molto di più di escogitare nuove forme di lotta e di un diverso modo di operare per rifondare un’Unione che di procedure e meccanismi anomali può morire. Ci vuole davvero un salto di qualità nel ruolo e nell’immagine del Pe ed è questa la vera sfida che Antonio Tajani dovrà lanciare nella seconda parte di questa legislatura.

Gianni Bonvicini è vicepresidente vicario dello IAI.

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