ALBO D'ORO NAZIONALE DEI DECORATI ITALIANI E STRANIERI DAL 1792 AD OGGI - SITUAZIONE

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Palazzo Salviati. La Storia

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sabato 31 dicembre 2016

Buon 2017!


Un 2017 denso di incognite




L’America di Trump
L’approccio del neo eletto presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, alla politica estera, di difesa, al Medioriente, ai problemi di clima ed energia
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Verso il referendum
Referendum e politica estera. Il profilo europeo della riforma costituzionale. L’intesse internazionale per la riforma. Il potere estero dello stato nella costituzione. Le ragioni del sì e quelle del no.
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Usa 2016, dalla campagna al voto
Primarie repubblicane, presidenziali, elezioni del Congresso, finanziamento, organizzazione, strategie, priorità
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MOvER-Migration in Europe
Europa e Italia al giro di boa?
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Mediterraneo, mar morto
Lo scenario dell'immigrazione, Operazioni Mare Nostrum e Triton, Sicurezza marittima europea, Lotta al traffico di esseri umani
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Brexit e futuro dell'Ue
Referendum Gran Bretagna, strumenti giuridici per accordo con Ue, posizione Polonia, posizione Italia
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venerdì 23 dicembre 2016

Ricerca Parametrale n. 4988. Notizie del 31 dicembre 2016

Oggetto Newsletter :
Buone Feste 
da AffarInternazionali
Newsletter n° 498 , 29 dicembre 2016
2016 al traguardo: tempo di bilanci. 
Che lo si consideri annus horribilis, 
di svolte potenzialmente rivoluzionarie o
 “tragicamente interessante”, è importante
 appuntare quanto accaduto. 
Guardando quanto ci lasciamo alle spalle 
e che cosa ci possiamo aspettare dal 2017, 
con questa newsletter AffarInternazionali 
augura a tutti i suoi lettori Buone Feste, 
dandovi appuntamento al prossimo anno.

#USA 2016 e GOLPE DI SCENA
Svolte inattese a inizio anno per la vicenda marò 
e per la fine ufficiale della politica del figlio unico 
in Cina. Podio per la Turchia, con il tentato (e fallito) 
golpe contro Erdogan, ma in classifica anche

Il primato della categoria va però di diritto a 
Trump che dopo una campagna al vetriolo
 e i sondaggi contro, la spunta nella Corsa
 alla Casa Bianca. E non si fa problemi ad 
alzare la cornetta con Taiwan.

URNE CONTRO L’EUROPA
Vecchio Continente da fibrillazione elettorale con la
 Merkel bocciata in tre Land tedeschi, l’inaspettato doppio 
 e il referendum ungherese che rischiava di
 passare in sordina causa Brexit, cavallo
 rampante della categoria referendaria 2016 
(sul quale, chiaro, la Scozia non avrebbe puntato). Ah, e ovviamente il 4 dicembre tricolore.

FRONTI E FRONTIERE
Il Medioriente fronte caldo anche per il 2016 con l’entrata 
delle forze governative a Sirte nella guerra al califfato, 
l’inizio della controffensiva per la liberazione di Mosul 
e il fallimento dei cessate il fuoco in Yemen ad Aleppo.
 Migliaia le persone in fuga dalla Siria, con il ricollocamento 
previsto dall’ accordo tra Europa e Turchia che fatica a 
decollare e il Mediterraneo crocevia delle carrette del mare
 che si riconferma sempre più, purtroppo, “mare mortuum”.

TERRORISMO, L’UE IN DIFESA?
Gli attacchi terroristici del 2016 hanno riportato in primo
 piano le questioni relative alla sicurezza dei cittadini
 europei, al contrasto dei foreign fighters e alla
 cooperazione continentale in materia di sicurezza. 
ùsettembre, alla presentazione dell’European Defence
 Action Plan, inscritto nella Strategia Globale a firma

C’È SEMPRE UNA PRIMA VOLTA 
Nella categoria Hillary si aggiudica il gradino più alto 
come prima candidata donna alla presidenza statunitense, 
a dire il vero giocandosi il testa a testa con la prima visita
 sindaco londinese musulmano, doppia di diritto 
Papa Bergoglio con la prima intervista concessa a
 un giornale asiatico.

POSTUMI 2016, QUO VADIS?
Appuntamenti attesi sono i sessant’anni dalla
 firma dei Trattati di Roma e il cinquantenario della 
 anche un anno di inaspettati "post": - Brexit, con
 una partita ancora tutta aperta dopo la sentenza 
dell’Alta Corte britannica; - Renzi, con i riflettori puntati
 sul cambio di guardia alla Farnesina, la prossima presidenza 
- USA 2016, con Trump che non perde occasione di cambiare le 
carte in tavola nella questione Nord Coreana, nei 
rapporti statunitensi con la Cina di Jingpin, e nella 
potenziale intesa con il sanzionato Putin. E anche in casa, fa pensare per la nomina del seggio vancante alla Corte Suprema.



giovedì 22 dicembre 2016

Ricerca Parametrale n. 497. Notizie del 27 dicembre 2016

Oggetto Newsletter : Cyber sicurezza, se populismo è
 populista, 2017, Accade domani
Newsletter n° 497 , 27 dicembre 2016

Il 2016 è stato l'anno in cui la cybersicurezza è
 tornata agli onori della cronaca: merito in parte
 dell'ombra degli hacker russi su Usa 2016, ma
 anche di alcune sentenze epocali nel settore.
 Tra big data, cyberattacchi e inevitabili gap legislativi,
 che cosa riserva il cyberspazio per il 2017? In vista
 del nuovo anno, oltre a suggerirvi gli eventi in agenda
 da tenere d'occhio, iniziamo a mettere ordine su un
 termine, populismo, di cui tanto si continuerà a parlare.
 Il termine è stato spesso etichetta per una palette che
 comprende dal Front National, all'Alternativa tedesca; 
dai True Finss finlandesi ai pentastellati italiani.
 Sono davvero tutti populisti?

Populismi
Populisti europei, a nessuno entra la scarpetta di cristallo
Eleonora Poli
22/12/2016
 più piccolopiù grande
Se è certo che i partiti populisti stanno emergendo sempre di più nella scena politica europea, non è chiaro che cosa li accomuni. Che si tratti di movimenti, attivisti o gruppi politici veri e propri, non c’è una definizione generale di populismo in grado di contenere le loro diverse sfumature.

Come suggerito dal filosofo britannico Isaiah Berlin, i ricercatori o gli accademici che cercano di definire il populismo cadono tutti nel paradosso teorico della scarpetta di Cenerentola. Per quanto il loro artefatto concettuale sembri perfetto, ogni volta che si cerca di farlo calzare a qualche partito, quest’ultimo risulta essere troppo piccolo o troppo grande, proprio come la scarpetta di cristallo della famosa fiaba.

Definire il populismo in base alle modalità di azione politica non è impossibile. Ad esempio, tutti i partiti populisti tendono a semplificare la realtà fornendo risposte uniche a domande complesse, dividono la società tra cittadini onesti da proteggere ed élite corrotte da combattere e ricercano la propria legittimità politica tramite un sostegno quasi assoluto a forme di democrazia diretta, in grado di esprimere al meglio la volontà del popolo.

Tuttavia, i partiti populisti hanno narrative diverse e possono adottare una o più delle modalità d’azione sopra riportate. Da non dimenticare che anche i partiti tradizionali possono, molto spesso per questioni di convenienza politica, adottare una dialettica o un modus operandi di stampo populista.

Eurocritici ed euroscettici
Al di là della classificazione sviluppata da Tamás Boros, su come l’Unione europea, Ue, sia divisa da una cortina di ferro tra nord - dominato da populisti di destra - e sud, - di sinistra - (il Movimento 5 Stelle è al di fuori di questi schemi) i partititi populisti sono stati anche classificati a seconda della loro inclinazione più o meno sfavorevole verso l’Ue.

I partiti populisti eurocritici sostengono la necessità di riformare, non distruggere, l’Ue, mentre i partiti euroscettici sono più propensi a smantellare l’Unione per riaffermare la propria sovranità nazionale.Tuttavia, questa stessa definizione è stata abusata più volte e partiti che per loro natura sembrano essere più antieuropei si sono a volte definiti eurocritici o euroscettici soft per raccogliere il sostegno degli elettori più moderati.

Risposte populiste all’immigrazione 
Anche quest’ultima catalogazione non è però esaustiva. Per un’analisi più affidabile conviene studiare le posizioni dei principali partiti populisti riguardo alle politiche comuni europee.

I temi caldi su cui si attanagliano le campagne dei partiti populisti sono quelli chiave per definire l’assetto dell’Ue: le politiche di migrazione e sicurezza, il libero movimento intra-europeo ela governance economica e monetaria.

La crisi migratoria è stata un forte strumento di propaganda usato da diversi partiti populisti. In particolare il Partito di Diritto e Giustizia (Pis) in Polonia, l’Alleanza Civica Ungherese (Fidesz) in Ungheria, che sono entrambi al governo, hanno più volte affermato che i loro Paesi non accoglieranno quote di richiedenti asilo da ricollocare, come deciso dalla Commissione europea.

Per il Pis, il problema si basa sull’incompatibilità culturale, che non permetterebbe ai migranti, soprattutto quelli provenienti da Paesi a maggioranza musulmana, di integrarsi, ma anche su una questione di sicurezza nazionale, posizione quest’ultima, pienamente condivisa da Fidesz.

Sebbene il Front National Francese e l’Alternativa per la Germania assieme anche alla Lega Nord sostengano una prospettiva analoga, quest’ultimi, assieme al Movimento 5 Stelle, hanno anche adottato forme di nazionalismo economico, affermando che prima di provvedere ai migranti, è imperativo affrontare le situazioni di indigenza nazionali.

Invece, partiti populisti come Podemos in Spagna e Syriza in Grecia hanno adottato un tipo di retorica inclusiva e si dichiarano a favore di politiche di integrazione dei migranti e richiedenti asilo.

Allo stesso tempo, il Front National, l’Alternativa per la Germania, Afd, ma anche i True Finns della Finlandia, il Partito della Libertà Olandese (Pvv) e il Partito della Libertà austriaco non sono favorevoli a Schengen, mentre i partiti populisti provenienti da Paesi membri meno economicamente forti, sia a Sud che ad Est, puntano alla chiusura delle frontiere esterne, ma al mantenimento della libertà di circolazione interna per assicurare ai loro cittadini accesso a mercati del lavoro più promettenti in altri Paesi membri.

In questo senso per fornire una mappa più realistica delle tendenze populiste europee, non solo si deve tenere in considerazione la divisione ideologica, che vede i partiti di destra avere un nazionalismo più accentuato, ma anche le diversità relative alle condizione socio economiche dei Paesi di riferimento. Ad esempio, partiti come il Pis e il Fidesz si definiscono euroscettici soft proprio per il loro sostegno alla libertà di movimento intra-europea e la loro retorica nazionalista ed anti-europea si scontra con la volontà di rimanere membri dell’Ue.

Euro e dilemma populista
Un trend simile caratterizza le questioni legate alle politiche monetarie ed economiche. Ad esempio, il Movimento 5 Stelle e la Lega Nord sostengono un referendum sull’euro. Similmente, anche il Front National, l’Afd e il Pvv si dichiarano contro la moneta unica. Tuttavia, per l’Italia e la Francia, la questione della sovranità monetaria è legata alla possibilità per i due Paesi di svalutare la propria moneta e far pronte, almeno nel breve periodo, alla crisi economica.

Per l’Afd e il Pvv invece, il rafforzamento dell’eurozona è problematico perché indebolisce la sovranità nazionale. In effetti, soprattutto nel caso della Germania, la moneta unica ha garantito più competitività, maggiori esportazioni e un accesso più facile ai mercati dei Paesi membri. Per questo motivo, l’Afd è meno vocale nel dichiarare il suo intento a far uscire il proprio Paese dall’euro. È invece convinto che la Grecia dovrebbe essere forzata ad uscirne, al fine di salvaguardare l’economia nazionale tedesca.

Podemos e Syriza invece, puntano a un maggior coordinamento delle politiche economiche e monetarie in riflesso ai bisogni sociali. In realtà, quest’ultimo punto è anche sostenuto dai 5 Stelle che hanno più volte dichiarato la necessità di introdurre un reddito di cittadinanza in Italia sul modello già adottato da diversi Paesi membri.

Al di là dell’ideologia politica, i populismi in Europa nascono e sono alimentati da quella che viene percepita come una mancata risposta europea alle necessità dei propri cittadini che si sentono traditi dai partiti politici tradizionali, incapaci di garantire la sicurezza ed un’equa redistribuzione del welfare.

Ridurre la divisone di partiti populisti tra euroscettici e eurocritici può facilitare una macro categorizzazione, ma di fatto non aiuta a individuare quelle che siano le istanze rappresentate da ognuno di questi partiti, sulla base delle quali l’Ue e i partiti tradizionali devono costruire delle contro-risposte credibili.

Eleonora Poli è ricercatrice dello IAI.

mercoledì 21 dicembre 2016

Oggetto Newsletter : Trump e l'Oriente, Cina nel Mediterraneo, Difesa
Newsletter n° 495 , 16 dicembre 2016

Oltre alla conversazione con Taiwan, a complicare
 le relazioni tra Washington e Pechino - sempre più
 interessata al Mediterraneo - spunta anche un
 progetto di legge a firma del senatore repubblicano
 Marco Rubio. La data dell'insediamento intanto
si avvicina. Dal 20 gennaio, l'America di Trump dovrà
 vedersela anche con una nuova ondata di antiamericanismo arabo 
di rimbalzo pungolata dagli hate speech della sua campagna elettorale. 
Il tutto, mentre si prepara a nominare un nuovo giudice della Corte
 Suprema. L’elefante repubblicano tornerà nella cristalleria dei diritti civili?


Unione europea
Il Consiglio rimette la Difesa al centro
Cosimo Risi
13/12/2016
 più piccolopiù grande
Il Consiglio europeo del 15 dicembre 2016 è chiamato a dare il via a tre iniziative in materia di sicurezza e difesa: piano d’azione per la difesa europea, attuazione della strategia globale nell’ambito della sicurezza e della difesa, attuazione della dichiarazione congiunta Ue-Nato di Varsavia.

Se a queste si aggiungiamo il piano d’azione per la difesa europea (Edap – European Defence Action Plan), abbiamo la rappresentazione, se non completa, quanto meno coerente della politica europea. Sappiamo cosa l’Unione pensa di fare in una materia a lungo negletta su cui, dal remoto 1954, è calato il silenzio.

Il Trattato di Lisbona aveva infatti illuminato il cono d’ombra con disposizioni innovative riguardo alla politica comune di sicurezza e difesa. Solo che dal 2009 tali disposizioni sono rimaste allo stato virtuale. La prossima uscita del Regno Unito dall’Ue incoraggia una discussione serrata sul “che fare” di leniniana memoria in materia di Psdc, proprio mentre le dichiarazioni del Presidente statunitense eletto mettono in discussione verità che sembravano acquisite una volta per tutte.

In principio fu Jean Monnet
Riavvolgiamo il nastro della memoria per cercare di comprendere il perché dell’oblio e partiamo dagli anni quaranta del XX secolo. Perché “in principio è Jean Monnet, un costruttore dell’Europa unita” (Cosimo Risi e Alfredo Rizzo, con Vincenzo Camporini, L’Europa della sicurezza e della difesa, Napoli, 2016).

Nel 1940, quando l’avanzata tedesca in Europa pare incontenibile, Monnet pone il problema di difendere “la giustizia e la libertà contro l’asservimento ad un sistema che riduce l’umanità alla condizione di robot e schiavi” (Pascal Fontaine, Jean Monnet, actualité d’un bâtisseur de l’Europe unie, Paris-Lausanne, 2013).

La civiltà europea è in pericolo e solo lo sforzo congiunto delle democrazie può salvarla. Unirsi o perire, questo è il dilemma che Monnet pensa di risolvere in positivo: propugnando la necessità di un’Unione di Francia e Gran Bretagna, e cioè dei paesi che, diversi politicamente, condividono il medesimo patrimonio ideale. Una volta debellata la minaccia nazi-fascista, l’Unione franco-britannica è destinata ad essere il prodromo di un’unione talmente vasta da abbracciare buona parte del Continente. Tale è la visione dell’uomo di Cognac.

Monnet lancia il progetto di Dichiarazione d’Unione franco-britannica (Londra, 1940), in base alla quale: Francia e Gran Bretagna “non saranno più, all’avvenire, due nazioni, ma una sola Unione”; istituiranno organi comuni per la difesa e la direzione della politica estera; istituiranno un comune gabinetto di guerra; definiranno a termine l’unione politica e l’unione economica e finanziaria.

La costruzione promana dall’alto verso il basso, il processo è il frutto di una visione elitaria e di emergenza, i popoli parteciperanno all’Unione non direttamente ma tramite le rappresentanze dei rispettivi parlamenti nazionali. La cittadinanza comune sarà riconosciuta ai popoli, talché “ogni cittadino francese godrà immediatamente della cittadinanza in Gran Bretagna e ogni suddito britannico diverrà cittadino di Francia”.

Ceca promossa, Ced bocciata
L’Unione franco-britannica, che pure riceve il parere favorevole di Londra e Parigi, non decolla. La Francia corre verso la disfatta. Il Primo Ministro Paul Reynaud dovrebbe ricevere a Concarneau il collega britannico per siglare l’intesa, ma alla vigilia è messo in minoranza in seno al suo governo, si dimette dall’incarico a favore di un nuovo Gabinetto che si appresta a trattare l’armistizio con la Germania.

Resta di quel periodo l’idea che la costruzione europea si fonda sulla cooperazione (meglio: l’unione) in materia di difesa e politica estera e che su questo pilastro si edifica l’unione economica e finanziaria.

La stessa visione porterà Monnet a concepire, dopo la guerra, la creazione della Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) e della Ced (Comunità europea di difesa). La prima comunità ha successo ed i sei stati membri (Francia, Germania, Benelux, Italia) ratificano senza soverchie difficoltà, salvo che in Francia. La seconda finisce nelle secche del dibattito parlamentare francese e viene bocciata dalla convergenza di forze antitetiche (sinistra e destra) ma analogamente “sovraniste”, come oggi si direbbe.

L’Europa della Difesa imboccherà la pista giusta?
Dal 1954, l’anno della bocciatura della Ced, il percorso dell’unione di sicurezza e difesa finisce sotto traccia per riaffiorare a varie riprese senza il reale convincimento di procedere. Resta da vedere se in questo scorcio del XXI secolo l’Europa stia per imboccare la pista giusta.

Il vertice del 15 dicembre non sarà certamente l’ultimo sull’argomento, il dibattito in seno all’Unione si trova alle battute poco che più che preliminari. I nodi da sciogliere sono numerosi e complessi: il rapporto con la Nato dopo Brexit, il rapporto con la Russia, soprattutto l’ammontare delle risorse da investire nella difesa. L’ultimo punto è rubricato sotto il nome asettico di burdensharing, ma politicamente non è asettico affatto.

Cosimo Risi è docente di Relazioni internazionali.

Ricerca Parametrale n. 494. Notizie del 13 dicembre 2016

Oggetto Newsletter : Nord Corea, Trump e i bitcoin, Putin dice no all'Aja
Newsletter n° 494 , 13 dicembre 2016

Si avvicina il 2017, anno della presidenza tricolore al G7:
 Roma potrebbe cogliere l'attimo per assumere un ruolo 
più deciso nella questione nord coreana, all'ordine del 
giorno anche alla Casa Bianca. L'agenda Trump
 prevede inoltre il (meno noto) nodo dei bitcoin,
 cybervaluta attualmente priva di controllo,
 protagonista dei finanziamenti alla sua campagna. 
Sarà il Tycoon a regolamentarla?



Corte penale internazionale
La Russia sbatte la porta in faccia all’Aja
Cono Giardullo
08/12/2016
 più piccolopiù grande
La Russia non vuole far parte della Corte Penale Internazionale, Cpi. Questo almeno quanto mostra la firma, il 16 novembre scorso, da parte del presidente Vladimir Putin del decreto n° 361 sull’intenzione della Federazione Russa di non diventare parte dello Statuto di Roma.

Secondo il comunicato ufficiale del Ministero degli Esteri, il motivo risiede nel fallimento della Corte ad assumere il ruolo di tribunale internazionale autorevole e indipendente che si era prospettato inizialmente.

La vera ragione, però, si ritrova nella pubblicazione, lo scorso 14 novembre, del Rapporto Annuale sulle attività delle indagini preliminari della Cpi, in cui per la prima volta, il Procuratore generale ha indicato “che la situazione nel territorio di Crimea e Sebastopoli è pari a un conflitto armato internazionale tra Ucraina e Federazione Russa.

Gli occhi del procuratore generale della Cpi sulla crisi ucraina 
Ogni anno, l’ufficio del Procuratore generale della Cpi pubblica un rapporto che riassume le indagini preliminari riguardo a quei casi che sono portati alla sua attenzione da parte di individui e associazioni non governative, ma anche da uno Stato parte, dal Consiglio di Sicurezza Onu o da quegli Stati, come l’Ucraina, che hanno accettato la giurisdizione della Corte, secondo l’articolo 12, comma 3, dello Statuto di Roma.

Il caso ucraino si trova nella fase delle indagini preliminari sin dal 25 aprile 2014, e l’ufficio del Procuratore generale ha ricevuto quasi 70 comunicazioni relative a presunti crimini di sua competenza commessi sul territorio sin dal 21 novembre 2013, giorno in cui sono iniziate le proteste di piazza Maidan.

Nel caso in cui si tratti di presunti crimini commessi nel contesto di conflitti armati, la valutazione riguardo la giurisdizione della Corte implica anche l’analisi del contesto in cui tali reati siano stati commessi: quello di un conflitto armato internazionale o non-internazionale.

Secondo il suddetto rapporto, le informazioni disponibili suggeriscono che la situazione nella penisola di Crimea sia equiparabile a un conflitto armato internazionale tra Ucraina e Russia, almeno sin dal 26 febbraio 2014, quando la Russia spiegò le sue truppe per conquistare questa regione del territorio ucraino senza il consenso del governo di Kiev.

Tra l’altro, la legge sui conflitti armati internazionali si continua tutt’ora ad applicare dato che la situazione in tali territori rimane di fatto quella di uno stato continuo di occupazione.

Inoltre, il Procuratore si pronuncia anche a riguardo della situazione nell’Est del Paese, il Donbass, dove secondo le informazioni disponibili, almeno sin dal 30 aprile 2014 le ostilità tra il governo ucraino e le forze anti-governative hanno raggiunto un livello tale da innescare l’applicazione della legge sui conflitti armati.

Ma le ulteriori comunicazioni ricevute dal Procuratore indicano che i combattimenti in corso tra le forze di Kiev e quelle di Mosca siano tali da suggerire l’esistenza di un conflitto armato internazionale parallelo al conflitto armato non-internazionale.

Russia in affanno a trovare alleati nei consessi internazionali multilaterali
L’anno scorso, la Corte Costituzionale russa ha stabilito che le decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo saranno rispettate solo qualora non entrino in contrasto con la Costituzione. Questo è uno tra i tanti segnali mostrati da una Russia sempre più in affanno a trovare alleati nei consessi internazionali multilaterali.

La Cpi è solo l’ultima istituzione a configurare l’intervento russo in Ucraina come aggressione, facendo seguito alla risoluzione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa nell’ottobre scorso, che valuta le conseguenze politiche dell’intervento russo, e alla risoluzione del Terzo Comitato dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, approvata in novembre, che riconosce la Russia come “potenza occupante” in Crimea e sollecita Mosca a porre immediatamente fine agli abusi dei diritti umani commessi nella penisola.

Mosca come Washington
Dal canto suo, la Russia mira anche a proteggere i suoi cittadini da possibili indagini e azioni penali avviate dalla Cpi in futuro, dato che la manifesta intenzione di non divenire parte dello Statuto di Roma libera lo Stato dagli obblighi discendenti dallo stesso. Ciononostante, restano assoggettabili alla giurisdizione della Cpi tutti quei cittadini russi che commettono un crimine internazionale nel territorio di uno stato parte dello statuto di Roma

Nulla di più simile a quanto fecero gli Stati Uniti nel maggio 2002, quando durante la presidenza di George W. Bush, si espresse il desiderio di non voler ratificare lo Statuto di Roma - che era invece stato firmato dall’amministrazione Clinton nel 2000.

Il Presidente Bush si affrettò a siglare un elevato numero di Accordi bilaterali di immunità per proteggere i suoi cittadini dalla giurisdizione della Corte, e fece pressione sul Consiglio di Sicurezza Onu affinché approvasse una serie di risoluzioni che vietassero alla Cpi di indagare i possibili reati commessi dalle forze di peacekeeping di Stati non parte dello Statuto.

La Russia non ha mai integrato la Cpi come Stato parte, ma l’annuncio di non volere più ratificare lo Statuto di Roma - dichiarazione con la quale vengono meno i pochi obblighi che il diritto internazionale ricollega alla firma - mira a indebolire ulteriormente la Corte che vive la più grave crisi di adesioni della sua breve storia.

Non resta che allinearsi alle parole della Presidente della Cpi, il giudice argentino Silvia Fernandez de Gurmendi, che ha ricordato come l’obiettivo della giustizia penale internazionale sia un progetto a lungo termine, ma che deve rimanere una priorità per tutti gli Stati del mondo per porre fine all’impunità, principio basilare dello Statuto di Roma.

Cono Giardullo lavora in Ucraina con l’Osce (Twitter: @conogiardullo).

Imglesi a recuperare il late versato

Unione europea
Brexit means Brexit - è ammesso il pentimento oppure no?
Gian Luigi Tosato
30/11/2016
 più piccolopiù grande
Il Governo britannico assume che la notifica di recesso non sia revocabile, una volta inoltrata ai sensi del noto art. 50. È questo il senso dell’affermazione di Theresa May, secondo la quale “Brexit means Brexit”. Il referendum deve seguire il suo corso senza deviazioni: prima la notifica (entro marzo 2017) e poi l’uscita dall’Unione (due anni dopo, al più tardi).

Di questa inderogabile sequenza si è fatto interprete il difensore del Governo nel caso Miller (1), aderendo senza riserve alla tesi di controparte circa la irrevocabilità della notifica di recesso. Ed è questa verosimilmente la ragione per cui il punto è dato per pacifico (common ground) nella recente sentenza dell’Alta Corte inglese.

Londra avrebbe il diritto di dire sorry?
La questione può tuttavia riproporsi in appello davanti alla Corte Suprema. Non è precluso al Governo di farlo, anche se lo schema di ricorso (skeleton) già pubblicato non ne fa parola; o potrebbe farlo la stessa Corte di sua iniziativa, ove ritenesse la questione rilevante ai fini del decidere (si discute delle prerogative dell’Esecutivo e del Parlamento).

Nel silenzio dell’art. 50, il punto è controverso fra gli studiosi. A sostegno della revocabilità si fa valere che in materia contrattuale gli atti unilaterali sono sempre revocabili fino a che non producono effetti definitivi; che lo stesso principio è accolto in diritto internazionale a proposito dei trattati (art. 67 della Convenzione di Vienna sui trattati); che il sistema intende favorire la permanenza degli Stati membri nell’Unione; infine che, nel caso di mutato orientamento dello Stato recedente (a seguito, ad esempio, di nuove elezioni o di nuovo referendum), si evita l’irragionevole conseguenza di dover attendere il decorso di due anni per poi procedere a una nuova adesione. Questi argomenti sono stati riproposti anche in un recente intervento su questa rivista.

Come interpretare l’articolo 50?
I sostenitori della tesi contraria replicano che, pur in difetto di una previsione esplicita, elementi significativi si possono trarre dallo stesso dettato normativo: solo i termini dell’accordo di recesso sono negoziabili, non la scadenza dei due anni, derogabile solo con il consenso unanime del Consiglio europeo (art. 50, nn. 2 e 3); è espressamente stabilito che lo Stato recedente, per essere riammesso, deve passare attraverso una nuova procedura di adesione (art. 50, n.5); è escluso che la notifica di recesso possa utilizzarsi per ottenere particolari concessioni (opting-outs),aggirando l’apposita disciplina di revisione dei Trattati.

Come si vede non mancano argomenti seri nelle due direzioni. Pare allo scrivente che, ai fini della questione in esame, sia importante stabilire nell’interesse di chi sia stabilito il termine dei due anni.

Non c’è dubbio che serve a tutelare la natura unilaterale della decisione di recedere: uno Stato che intende uscire dall’Unione è sicuro di conseguire questo risultato, non potendo la sua decisione essere bloccata dagli altri Stati membri o dalle istituzioni della Ue. Ma quel termine è unicamente nell’interesse dello Stato recedente o anche dei soggetti da ultimi menzionati?

Jus poenitendi: cui prodest?
È chiaro che, in punto di diritto, nel primo caso si consolida la tesi della revocabilità, nel secondo quella contraria; in punto di fatto, nel primo caso si rafforza la posizione negoziale dello Stato recedente, nel secondo quella dell’Unione e degli altri Stati membri.

Che dire? La decisione di uno Stato di uscire dall’Unione mette in moto al suo interno una serie di tensioni e reazioni: l’attuale vicenda della Brexit ne è testimone. Il tipo e l’esito del negoziato sul recesso (solo le condizioni del divorzio, o anche i rapporti successivi) costituiscono un precedente di peso; e ancor di più l’eventuale revocabilità della notifica una volta comunicata.

Si rischia di aprire la strada verso un modello di Europa a la carte, o comunque di dare un senso di precarietà, fungibilità e parcellizzazione dell’appartenenza alla Ue: tutto all’opposto dell’obiettivo di “un’unione sempre più stretta” solennemente ribadito nei Trattati.

Pare dunque delinearsi un interesse anche degli altri Stati membri (per non dire delle istituzioni europee) a vedere rispettato l’iter del recesso, a evitare o comunque contenere i contraccolpi che ne conseguono, a mantenere saldo il senso di marcia dell’integrazione europea.

A ben vedere, la questione della revocabilità del recesso evoca la tematica più generale del modello di Europa da perseguire: ora e in prospettiva, nei rapporti interni ed esterni, è preferibile un’Europa unitaria e concentrata ovvero flessibile e differenziata?

Si badi bene che l’uscita dall’Unione alla scadenza dei due anni non è assolutamente inderogabile. Già l’art. 50 prevede che il termine sia suscettibile di proroga con il consenso unanime del Consiglio europeo.

Si può pensare anche a qualche forma semplificata di revisione dei Trattati o, forse anche, a una mera dichiarazione interpretativa in sede di Consiglio europeo (salvo contestazioni davanti alla Corte di giustizia). Il punto da dirimere è se quella scadenza, nel senso di mantenerla o di derogarvi, sia nella disponibilità unilaterale dello Stato recedente o richieda, nel caso di deroga, il necessario concorso degli altri Stati membri.

Lo scrivente tende a preferire la seconda opzione, a escludere dunque un vero e proprio ius poenitendi (revocabilità del recesso) entro i due anni, ma - come detto - la questione è controversa.

(1) Il difensore del Governo nel caso Miller richiede ai giudici di pronunciarsi sulla necessità o meno che, per avviare la Brexit, il Governo abbia bisogno di una autorizzazione parlamentare: in prima istanza, lo scorso 3 novembre, la High Court ha statuito a favore del Parlamento, contro il Governo. Si attende l’appello (ndr).

Gian Luigi Tosato è Professore Emerito di Diritto dell’Unione Europea, Università “Sapienza” di Roma.
 
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Ricerca Parametrale n. 491. Notizie del 2 dicembre 2016

Oggetto Newsletter : Referendum, Austria al voto, Primarie francesi
Newsletter n° 491 , 2 dicembre 2016

Oltre al referendum, sul quale Affarinternazionali ha
realizzato uno Speciale, il 4 dicembre a tornare alle 
urne saranno anche gli austriaci per il ballottaggio
 presidenziale tra l'ex-leader dei Verdi Alexander
 van der Bellen e Norbert Hofer della destra nazionalista.
 Sarà l'ennesima vittoria del nazionalismo euroscettico?
 E in Francia, la vittoria alle primarie della destra di Fillon
 può sbarrare la strada a Marine Le Pen?


Elezioni in Europa

Francia
Con Fillon la destra cerca la riconquista dell’Eliseo
Jean-Pierre Darnis
29/11/2016
 più piccolopiù grande
François Fillon, già primo ministro francese di Nicolas Sarkozy nel 2010, si è aggiudicato le primarie della destra in Francia. Un successo che rappresenta anche una sorpresa: era infatti il ‘terzo uomo’, che certamente pochi si aspettavano di veder trionfare su Sarkozy, e su Alain Juppé, attualmente sindaco di Bordeaux e già ministro degli affari esteri ed europei proprio sotto la presidenza Sarkozy.

A determinare l’esito della corsa sono stati diversi fattori: in primis il voto negativo dell’elettorato, avverso all’ex presidente; la gestione capillare sul territorio della campagna elettorale e l’attenzione prestata alle istanze presentate dalle associazioni cattoliche; ma anche la finestra d’opportunità creata proprio dalla battaglia fra i due favoriti, Sarkozy e Juppé.

È la prima volta che la destra francese organizza delle primarie. Con un’affluenza di più di 4 milioni d’elettori si può parlare di un vero e proprio successo, nettamente superiore ai 2,6 milioni registrati dalle primarie della sinistra nel 2011.

Fillon, conservatore di rottura
Con l’archiviazione di Sarkozy, la destra francese volta pagina e sceglie con Fillon un candidato molto piu “classico”. Fillon è infatti un puro prodotto della provincia francese con un fortissimo radicamento nella regione della Sarthe, di cui è originario. Dallo stile diretto, molto apprezzato dai suoi elettori, Fillon offre l’immagine di un impeccabile notabile di provincia, cattolico praticante, dai toni estremamente pacati.

Una compostezza che non preclude la sua grande capacità di rappresentare il Paese reale, rivolgendosi direttamente ai ceti produttivi, artigiani e piccole aziende.

Il rapporto diretto con questo elettorato è in grado di spiegare anche le proposte più radicali del suo programma economico, che riprendono quelle istanze di semplificazione e di abbassamento della pressione fiscale profondamente sentite nella Francia industriale - quella che, ad esempio, organizzava le proteste in Bretagna, una zona che si è particolarmente mobilitata per il candidato. Fillon è anche sinonimo del ritorno alla destra classica, portatrice di valori che mal si conciliano con la personalità e la vita privata di Sarkozy.

Con questa commistione fra tradizionalismo e rottura, Fillon si è aperto una strada diretta verso l’elezione a presidente della Repubblica. Ma alcuni interrogativi rimangono. Fillon offre infatti un mix fra ideologia di rottura (l’imprinting di un certo liberalismo di ispirazione thatcheriana con richiami a scelte d’ispirazione cattolica conservatrice) e un forte attaccamento al territorio e ai valori tradizionali.

Se la destra torna in corsa perl’Eliseo
Il successo nelle primarie equivale all ritorno della destra classica- gollista e centrista - nella corsa all’Eliseo come alternativa ad un quinquennio di gestione socialista percepita in modo catastrofico.

Se da un lato l’offerta ideologica di Fillon potrebbe creare una linea compatta contro il partito di Marine Le Pen, il Front National, con una proposta accattivante sia per i valori (conservativismo cattolico) che per le proposte radicali in ambito economico, lo scenario risulta tuttavia ancora lontano dall’essere completamente definito, per una serie di ragioni.

All’interno del Front National è forte la tendenza - ben illustrata da Florian Philippot - ad attrarre il voto popolare, dei ceti operai ed impiegatizi colpiti della crisi e sensibili alle problematiche di identità.

Nella situazione di grande disordine in cui versa la sinistra francese, al momento non si vedono opportunità di raggruppamento dei socialisti e dei loro potenziali alleati attorno ad un candidato in grado di passare il primo turno delle presidenziali.

A sinistra esiste un forte desiderio di sbarazzarsi di Francois Hollande, come a destra c’era la voglia di eliminare Sarkozy, ma Hollande, in quanto presidente, rimane fulcro del gioco e sembra difficile scavalcarlo completamente. Un’impasse che per la sinistra potrebbe anche comportare un notevole ritardo sul calendario elettorale.

“Fronte Repubblicano” vs Front National?
Esiste quindi il rischio che la sinistra si presenti in ordine sparso e venga spazzata via dopo il primo turno della corsa all’Eliseo. In questo caso Fillon rappresenterebbe l’unico candidato di un “fronte repubblicano” che dovrebbe opporsi a Le Pen.

In assenza di un candidato socialista con forte legittimità che chiami gli elettori a confluire su Fillon, al secondo turno si potrebbe assistere a una netta dispersione dei voti di sinistra, che, nella loro parte anti-sistema, potrebbero parzialmente convogliare al Front National. Questa, la cosiddetta questione del “serbatoio di voti al secondo turno” è fondamentale per Fillon, che deve assolutamente allargare il suo bacino di votanti. Sembra che abbia mobilitato molto bene il campo della destra classica,ma questo non sembra ulteriormente estendibile.

Sono molte infatti le componenti della società francese fuori del raggio del voto Fillon; fra di esse i giovani dei centri urbani e i francesi immigrati o di origini immigrate. Una Francia decisamente moderna o addirittura post moderna, sfaccettata sia nelle origini che nei modelli di organizzazione familiare, che non si può ritrovare istantaneamente nella faccia pulita del fillonismo.

Rimane quindi in salita il percorso del nuovo leader della destra francese, che dovrebbe paradossalmente augurarsi un ricompattamento della sinistra, garanzia importante della tenuta di fronte ai populismi rappresentati dal Front National.

Jean-Pierre Darnis è professore associato all'università di Nizza e direttore del Programma di ricerca su sicurezza e difesa dello IAI (Twitter: @jpdarnis).
Dopo gli tsunami Brexit e Trump, il prossimo appuntamento con la marea populista è quello del 4 dicembre in Austria (in Italia il populismo c'è, eccome, sia a destra che a sinistra e anche al centro, ma non fornisce la chiave di lettura dell'esito del prossimo referendum).

Una consultazione, quella austriaca, dalle conseguenze infinitamente meno sconvolgenti, e tuttavia significativa in quanto misurerà l'incidenza di quegli stessi fattori socio-culturali - rivolta contro l'establishment, sfida al politically correct, paura dell'immigrazione incontrollata, insofferenza contro l'Unione europea - anche in un Paese di vecchia democrazia dell'Europa centrale.

Come alcuni ricorderanno si tratta della ripetizione del ballottaggio per l'elezione del Capo dello stato tenutosi in maggio, vinto dal candidato di sinistra con un margine di soli trentamila voti e poi annullato per irregolarità di poco conto, del tutto irrilevanti ai fini dell'esito del voto.

Al primo turno gli elettori avevano voluto dare uno schiaffo ai due partiti tradizionali (tuttora al governo in una poco armoniosa “grosse Koalition”) eliminando i loro candidati e consegnando il ballottaggio a due outsider: l'ex-leader dei Verdi Alexander van der Bellen e il numero due dei “libertari” (destra nazionalista) Norbert Hofer.

Un nuovo rinvio, questa volta dovuto a un difetto tecnico delle schede già ristampate, ha prolungato di altri tre mesi la vacanza della più alta carica della repubblica.

Effetto populismo in Austria
Chi aveva previsto la rimonta nello sprint finale dei leavers inglesi e poi di Donald Trump, intuendo che i sondaggi sottovalutavano l'effetto “populismo” (anti-politica, gusto dello schiaffo anonimo, nazionalismo) prevede ora per analoghe ragioni una vittoria di Hofer, pur in svantaggio di due punti negli opinion polls.

Durante la campagna della primavera scorsa l'esponente della Fpoe aveva indicato una propensione ad interpretare in modo estensivo la funzione del Capo dello stato, che nella costituzione materiale, o prassi, è analoga a quella del nostro Presidente della repubblica, ma secondo la Costituzione scritta comprende il potere di licenziare il governo.

Ultimamente ha messo in sordina questa velleità interventista e puntato invece sull'immagine di padre di famiglia, giovane, sorridente, moderato, rassicurante, in grado di rappresentare degnamente il Paese all'estero.

Al futuro di Hofer è legato quello di Strache 
Se eletto, non sarà in grado di riorientare la politica estera dell'Austria; ma, nel giro di un paio di anni, potrebbe facilitare in qualche misura l'avvento del ben più battagliero Strache alla Cancelleria (verosimilmente in coalizione con i “popolari”, cioè i cristiano-democratici).

Questa sarebbe, sì, una svolta preoccupante. Non nel senso di un rigurgito di vecchie ideologie autoritarie, fascistoidi, razziste (come all'estero alcuni commentatori solo superficialmente informati non mancheranno di sostenere), ma di una affermazione della retorica nazionalista ed euro-scettica, unita al rifiuto di subire l'ondata migratoria. Un'involuzione, insomma, simile a quella della Polonia e dell'Ungheria.

Kurz, l’uomo per scongiurare l’allineamento con il gruppo di Visegrad 
Le speranze di chi teme questa prospettiva di allineamento con il gruppo di Visegrad si appuntano non tanto sul socialdemocratico Kern, Cancelliere da alcuni mesi, con solide credenziali di manager ma visto come incarnazione della continuità; bensì sul giovane e dinamico Sebastian Kurz, astro in ascesa del partito democristiano OeVP e Ministro degli Esteri.

Kurz ha fatto inarcare qualche sopracciglio, anche da noi, non esitando a dire quello che molti pensano, ma per lo più non osano esprimere, sull'incompatibilità della Turchia di Erdogan con i valori dell'Ue e sulla necessità di frenare (non vietare del tutto) l'afflusso di rifugiati e migranti. Ma quel che conta è che offre una credibile alternativa di centro-destra alla destra di Strache, una alternativa europeista alla deriva populista, lepeniana, anti-europea.

Francesco Bascone è Ambasciatore d’Italia.

domenica 18 dicembre 2016

Ricerca Parametrale n. 492. Notizie del 6 Dicembre 2016

Oggetto Newsletter : America Latina e Trump, Difesa, Balcani
Newsletter n° 492 , 6 dicembre 2016

Il Sud America promette di essere un'area calda per i prossimi tempi. 
Se a Cuba tramonta il mito di Castro, prospettando
 l'inizio di un'era di cambiamento, in Venezuela è la
 sospensione del referendum di revoca per il mandato 
di Maduro ad allarmare i vicini del Mercosur. 
È in atto un colpo di stato, come riferito
dall'opposizione? E come si evolveranno
 i rapporti con il Nord America di Trump?
 Intanto nel Vecchio Continente, 
scongiurata la vittoria di Hofer, i dubbi 
convergono sulla tenuta dell'accordo Ue-
Turchia sui migranti e sul futuro dello Stivale
 che boccia il referendum costituzionale. 

venerdì 9 dicembre 2016

Ricerca Parametrale n. 493 Notizie del 9 dicembre 2016

Oggetto Newsletter : Entourage di Trump, Difesa comune europea, Golfo
Newsletter n° 493 , 9 dicembre 2016

Nuovi nomi arrivano nella rosa dei prescelti da
 Donald Trump, ma in ballo resta ancora la poltrona
 di Segretario di Stato. Quali sono i candidati in lizza?
 E chi sono tutti gli uomini (e le donne) del presidente?
 Intanto nel Vecchio Continente si registrano due 
segnali notevoli: il primo è la bocciatura del populismo 
in Austria, il secondo è il piano comune europeo
in materia di difesa firmato il 30 novembre. Siamo 
sulla strada di una "Schengen della difesa”?

 E a parlare di progetti di difesa collettiva
 sono anche i Paesi del Golfo che si riuniscono a 
Manama. Il progetto di un’Unione regionale riuscirà a decollare?

giovedì 1 dicembre 2016

Ricerca parametrale n. 490. Notizie del 1 Dicembre 2016

Capire il Referendum: le conseguenze internazionali
Newsletter n° 490 , 1 dicembre 2016

A tre giorni dal voto, Affarinternazionali offre ai suoi lettori 
un approfondimento su un aspetto cruciale,
 anche se poco discusso, della riforma: il profilo
 europeo e internazionale. Come cambierebbero
 i rapporti fra Unione europea, Italia e regioni?
 In ambito internazionale, che competenze il
 testo al voto affida al Senato riformato? 
E che impatto avrà il risultato della
 consultazione fuori dai confini del nostro Paese? 
Tra #iovotono e #bastaunsì, lo speciale
 di Affarinternazionali vuole fornire informazioni 
analitiche, approfondite ed equilibrate per
 dare risposta agli interrogativi di ogni (e)lettore.
L’intero Speciale è visitabile sulla nostra rivista.

Per seguirci costantemente, visita il nostro sito,
 dove troverai un ricco archivio di articoli, Speciali,
 recensioni di novità librarie, notizie in tempo reale 
dall'agenzia AGI. 

mercoledì 30 novembre 2016

Ricerca parametrale n- 488. Notizie del 25 novembre 2016

Oggetto Newsletter : Adieu, Obama! Cina
 nella era Trump, Islam politico
Newsletter n° 488 , 25 novembre 2016

Giro conclusivo di saluti per Obama. Al vertice 
di Berlino, con i leader europei, e al tavolo dell'Apec,
 in Perù, cui ha preso parte anche una Cina
 determinatissima a difendere il commercio
 del Pacifico dai dazi prospettati dal neo-eletto 
tycoon. Come si sta preparando il Dragone all'era Trump? 

Per seguirci costantemente, visita il nostro sito
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recensioni di novità librarie, notizie in tempo reale
 dall'agenzia AGI e in particolare lo Speciale su

Ricerca parametrale n. 487. Notizie del 22 novembre 2016

Oggetto Newsletter : Trump in Medio Oriente, Elezioni in Kuwait, Brexit
Newsletter n° 487 , 22 novembre 2016

Continuano le nomine in casa Trump: da Jeff Sessions,
 senatore del fronte repubblicano notoriamente anti-immigrazione,
 a Mike Pompeo, membro della lobby delle armi.
 A temere le dichiarazioni islamofobiche sono in 
primis gli immigrati musulmani, contro i quali si registra 
una crescita di violenza. In Medio Oriente intanto, una
 delle incognite più pressanti della presidenza Trump
 sarà proprio il rapporto con Israele. Come potrebbero 
cambiare le dinamiche della regione nell’era del tycoon? 
Ne parla Lorenzo Kamel, vincitore del Palestinian 
Book Award 2016.

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