Unione europea Brexit means Brexit - è ammesso il pentimento oppure no? Gian Luigi Tosato 30/11/2016
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Il Governo britannico assume che la notifica di recesso non sia revocabile, una volta inoltrata ai sensi del noto art. 50. È questo il senso dell’affermazione di Theresa May, secondo la quale “Brexit means Brexit”. Il referendum deve seguire il suo corso senza deviazioni: prima la notifica (entro marzo 2017) e poi l’uscita dall’Unione (due anni dopo, al più tardi).
Di questa inderogabile sequenza si è fatto interprete il difensore del Governo nel caso Miller (1), aderendo senza riserve alla tesi di controparte circa la irrevocabilità della notifica di recesso. Ed è questa verosimilmente la ragione per cui il punto è dato per pacifico (common ground) nella recente sentenza dell’Alta Corte inglese.
Londra avrebbe il diritto di dire sorry? La questione può tuttavia riproporsi in appello davanti alla Corte Suprema. Non è precluso al Governo di farlo, anche se lo schema di ricorso (skeleton) già pubblicato non ne fa parola; o potrebbe farlo la stessa Corte di sua iniziativa, ove ritenesse la questione rilevante ai fini del decidere (si discute delle prerogative dell’Esecutivo e del Parlamento).
Nel silenzio dell’art. 50, il punto è controverso fra gli studiosi. A sostegno della revocabilità si fa valere che in materia contrattuale gli atti unilaterali sono sempre revocabili fino a che non producono effetti definitivi; che lo stesso principio è accolto in diritto internazionale a proposito dei trattati (art. 67 della Convenzione di Vienna sui trattati); che il sistema intende favorire la permanenza degli Stati membri nell’Unione; infine che, nel caso di mutato orientamento dello Stato recedente (a seguito, ad esempio, di nuove elezioni o di nuovo referendum), si evita l’irragionevole conseguenza di dover attendere il decorso di due anni per poi procedere a una nuova adesione. Questi argomenti sono stati riproposti anche in un recente intervento su questa rivista.
Come interpretare l’articolo 50? I sostenitori della tesi contraria replicano che, pur in difetto di una previsione esplicita, elementi significativi si possono trarre dallo stesso dettato normativo: solo i termini dell’accordo di recesso sono negoziabili, non la scadenza dei due anni, derogabile solo con il consenso unanime del Consiglio europeo (art. 50, nn. 2 e 3); è espressamente stabilito che lo Stato recedente, per essere riammesso, deve passare attraverso una nuova procedura di adesione (art. 50, n.5); è escluso che la notifica di recesso possa utilizzarsi per ottenere particolari concessioni (opting-outs),aggirando l’apposita disciplina di revisione dei Trattati.
Come si vede non mancano argomenti seri nelle due direzioni. Pare allo scrivente che, ai fini della questione in esame, sia importante stabilire nell’interesse di chi sia stabilito il termine dei due anni.
Non c’è dubbio che serve a tutelare la natura unilaterale della decisione di recedere: uno Stato che intende uscire dall’Unione è sicuro di conseguire questo risultato, non potendo la sua decisione essere bloccata dagli altri Stati membri o dalle istituzioni della Ue. Ma quel termine è unicamente nell’interesse dello Stato recedente o anche dei soggetti da ultimi menzionati?
Jus poenitendi: cui prodest? È chiaro che, in punto di diritto, nel primo caso si consolida la tesi della revocabilità, nel secondo quella contraria; in punto di fatto, nel primo caso si rafforza la posizione negoziale dello Stato recedente, nel secondo quella dell’Unione e degli altri Stati membri.
Che dire? La decisione di uno Stato di uscire dall’Unione mette in moto al suo interno una serie di tensioni e reazioni: l’attuale vicenda della Brexit ne è testimone. Il tipo e l’esito del negoziato sul recesso (solo le condizioni del divorzio, o anche i rapporti successivi) costituiscono un precedente di peso; e ancor di più l’eventuale revocabilità della notifica una volta comunicata.
Si rischia di aprire la strada verso un modello di Europa a la carte, o comunque di dare un senso di precarietà, fungibilità e parcellizzazione dell’appartenenza alla Ue: tutto all’opposto dell’obiettivo di “un’unione sempre più stretta” solennemente ribadito nei Trattati.
Pare dunque delinearsi un interesse anche degli altri Stati membri (per non dire delle istituzioni europee) a vedere rispettato l’iter del recesso, a evitare o comunque contenere i contraccolpi che ne conseguono, a mantenere saldo il senso di marcia dell’integrazione europea.
A ben vedere, la questione della revocabilità del recesso evoca la tematica più generale del modello di Europa da perseguire: ora e in prospettiva, nei rapporti interni ed esterni, è preferibile un’Europa unitaria e concentrata ovvero flessibile e differenziata?
Si badi bene che l’uscita dall’Unione alla scadenza dei due anni non è assolutamente inderogabile. Già l’art. 50 prevede che il termine sia suscettibile di proroga con il consenso unanime del Consiglio europeo.
Si può pensare anche a qualche forma semplificata di revisione dei Trattati o, forse anche, a una mera dichiarazione interpretativa in sede di Consiglio europeo (salvo contestazioni davanti alla Corte di giustizia). Il punto da dirimere è se quella scadenza, nel senso di mantenerla o di derogarvi, sia nella disponibilità unilaterale dello Stato recedente o richieda, nel caso di deroga, il necessario concorso degli altri Stati membri.
Lo scrivente tende a preferire la seconda opzione, a escludere dunque un vero e proprio ius poenitendi (revocabilità del recesso) entro i due anni, ma - come detto - la questione è controversa.
(1) Il difensore del Governo nel caso Miller richiede ai giudici di pronunciarsi sulla necessità o meno che, per avviare la Brexit, il Governo abbia bisogno di una autorizzazione parlamentare: in prima istanza, lo scorso 3 novembre, la High Court ha statuito a favore del Parlamento, contro il Governo. Si attende l’appello (ndr).
Gian Luigi Tosato è Professore Emerito di Diritto dell’Unione Europea, Università “Sapienza” di Roma.
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