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venerdì 31 marzo 2017

Ricerca Parametrale n. 524. Notizie del 31 marzo 2017

 Newsletter : G7 all'italiana, Onu e patrimonio culturale, Corea
Newsletter n° 524 , 31 marzo 2017

L'Italia vive un 2017 da protagonista, fra Onu, Ue e 
Grandi: dopo avere cominciato l'anno da membro 
non permanente del Consiglio di Sicurezza e avere
 celebrato in Campidoglio i 60 anni dei Trattati di Roma
s'avvia adesso verso il prossimo appuntamento internazionale,
 il Vertice del G7 di fine maggio a Taormina. Mentre alle
 Nazioni Unite si registra un successo tricolore, con
 l'adozione della prima risoluzione sulla difesa del 
patrimonio culturale minacciato dai conflitti armati, 
iniziano, a Firenze, proprio dal dossier Cultura,
 gli incontri settoriali in preparazione del summit
 dei Grandi. Proseguiranno con il vertice dei
 responsabili dell'Energia, chiamati a tutelare 
l'Accordo di Parigi sull'ambiente dalle minacce
 provenienti dall'altra costa dell'Atlantico, dove 
Trump manda in soffitta l'eredità di Obama in 
tema di lotta al cambiamento climatico. E mentre
 l'Italia scommette su innovazione e alte 
tecnologie con Leonardo, Taormina 
riuscirà a puntare i riflettori pure sulle turbolenze
 in Corea?, e sulla lotta all'Isis tra Iraq e Siria?

In vista del vertice italiano sui Balcani occidentali
 che si terrà a Trieste il 12 luglio 2017, lo IAI
 organizza una conferenza internazionale su 


Successo italiano
Onu mobilitata per tutela patrimonio culturale
Marina Mancini
30/03/2017
 più piccolopiù grande
È frutto di un'iniziativa italo-francese la prima risoluzione del Consiglio di Sicurezza (CdS) dell’Onu interamente dedicata al tema della protezione dei beni culturali in situazioni di conflitto armato. Adottata all'unanimità il 24 marzo, la risoluzione n. 2347 era stata proposta dalla Francia e dall'Italia, che nell'anno in corso è membro non permanente del CdS.

Innanzitutto, la risoluzione condanna la distruzione, il saccheggio e il traffico di beni culturali durante i conflitti armati, in particolare da parte di gruppi terroristici, facendo espresso riferimento all'Isis, ad Al-Qaida e ai loro affiliati. Nella loro delirante visione del mondo, questi gruppi si accaniscono contro siti, edifici e monumenti che rappresentano l'eredità dell'intera umanità.

Basti pensare alla distruzione dei siti archeologici di Palmira in Siria e di Nimrud in Iraq da parte degli uomini di Al-Baghdadi. D'altra parte, il traffico di reperti archeologici è un'importante fonte di finanziamento per il Califfato ed Al-Qaida.

Il CdS ricorda anche che l'attacco contro monumenti storici, siti archeologici ed edifici dedicati alla religione, all'istruzione, alle arti e alle scienze può costituire un crimine di guerra. Crimine per il quale nel settembre 2016 la Corte penale internazionale ha condannato a nove anni di reclusione il maliano Al Faqi Al Mahdi, giudicato colpevole per la distruzione nel 2012 di dieci mausolei e moschee a Timbuktu, all'epoca sotto il controllo di Ansar Dine e di Al-Qaida nel Maghreb Islamico.

Misure da adottare
La risoluzione esorta gli Stati membri che non ne siano ancora parti ad aderire alle convenzioni internazionali pertinenti, tra cui la Convenzione dell'Aja del 1954 sulla protezione del patrimonio culturale in caso di conflitto armato e i suoi due Protocolli. Il secondo di essi, entrato in vigore nel 2004, prevede, tra l'altro, un regime di protezione rafforzata per i beni culturali "della più grande importanza per l'umanità" e si applica sia nei conflitti internazionali che in quelli interni. Né la Siria né l'Iraq ne sono parti.

Il CdS raccomanda poi agli Stati membri l'adozione di un articolato complesso di misure tra cui: la sottoposizione al Comitato delle sanzioni nei confronti dell'Isis e di Al-Qaida dei nomi di individui ed enti ad essi affiliati coinvolti nel traffico di beni culturali; l'instaurazione di ampie forme di cooperazione nella lotta al traffico in questione; la messa a punto di misure preventive per la salvaguardia del rispettivo patrimonio culturale, incluso l'allestimento di "rifugi sicuri" nel rispettivo territorio; la predisposizione di inventari, possibilmente digitalizzati, di detto patrimonio; l'emanazione di una regolamentazione efficace sull'importazione ed esportazione dei beni culturali, inclusa la previsione di un certificato di provenienza; e la creazione di unità specializzate nel contrasto al commercio illegale di beni culturali.

Su quest'ultimo punto l'Italia ha molto da insegnare, essendo stato costituito già nel 1969 il Comando Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale, come illustrato nella riunione del CdS.

Operazioni di peacekeeping
Infine, il CdS per la prima volta afferma in via generale che il mandato delle forze di peacekeeping dell'Onu può comprendere l'assistenza delle autorità nazionali, su loro richiesta, nella protezione del patrimonio culturale in situazioni di conflitto armato, in collaborazione con l'Unesco.

Finora soltanto alla Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite in Mali (Minusma) è stato affidato questo compito. La Missione, istituita nel 2013 e tuttora in corso, è incaricata tra l'altro di assistere le autorità maliane nella tutela da attacchi dei siti storici e culturali del Paese, in collaborazione con l'Unesco.

La risoluzione non fa espresso riferimento al Cap. VII della Carta Onu come propria base giuridica e non impone di per sé obblighi agli Stati membri. Ciononostante, è stata giustamente salutata dalla direttrice generale dell'Unesco, Irina Bokova, come una risoluzione storica che esprime la presa di coscienza del ruolo del patrimonio culturale per la pace e la sicurezza internazionale.

È di tutta evidenza, infatti, che la distruzione e il saccheggio di beni culturali, cancellando le radici storiche di interi gruppi umani e negando la diversità culturale, contribuiscono ad esacerbare i conflitti armati ed ostacolano la riconciliazione nazionale dopo la cessazione delle ostilità. Il commercio illegale di beni culturali, inoltre, alimenta i conflitti, costituendo un canale di finanziamento per gruppi insurrezionali come l'Isis.

Italia protagonista di risoluzione storica
La risoluzione n. 2347 è certamente un successo italiano, oltre che francese. Il nostro Paese si conferma così protagonista nella mobilitazione della comunità internazionale per il rafforzamento della protezione del patrimonio culturale in situazioni di conflitto armato.

È da ricordare che, nel febbraio 2016, l'Italia è stata il primo Stato a concludere con l'Unesco un accordo sull'invio all'estero, nell'ambito della Coalizione "Unite 4 Heritage", di una task force di esperti e componenti del Comando Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale, con il compito di assistere i Paesi sconvolti da conflitti armati o disastri naturali, su richiesta di questi ultimi.

Finora, tuttavia, l'unica missione dei membri della task force, impropriamente soprannominati "caschi blu della cultura", è stata in casa, nelle zone terremotate dell'Italia centrale.

Il 30 e 31 marzo, inoltre, il nostro Paese ha organizzato a Firenze il cosiddetto G7 della Cultura, la prima riunione dei Ministri della Cultura degli Stati del G7, con l'obiettivo di promuovere la cultura come strumento di dialogo tra i popoli.

Come le iniziative appena citate, la risoluzione n. 2347 dà lustro all'Italia, consentendole di ritagliarsi un ruolo di guida in un ambito delle relazioni internazionali di crescente importanza alla luce degli avvenimenti degli ultimi anni. È da auspicare che il nostro Paese continui ad essere in prima fila in questo settore, quando dalle parole bisognerà passare ai fatti!

Marina Mancini è professore associato di Diritto internazionale nel Dipartimento di Giurisprudenza ed Economia dell'Università Mediterranea di Reggio Calabria e docente di Diritto internazionale penale nel Dipartimento di Giurisprudenza della LUISS Guido Carli.
 
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La vera guerra di civiltà è contro la memoria, Giuseppe Cucchi

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martedì 28 marzo 2017

Ricerca Parametrale 523. Notizie del 28 marzo 2017

Newsletter : Londra sotto attacco, armi nucleari al bando, Macedonia
Newsletter n° 523 , 28 marzo 2017

L'Europa riparte dal Campidoglio, dopo la 
celebrazione dei 60 anni dei Trattati di Roma 
e la firma della Dichiarazione sul futuro a 27, 
ma guarda doppiamente a Westminster, in attesa
 del formale avvio della Brexit, previsto per domani, 
e rispondendo unita alla minaccia terrorista che la 
settimana scorsa ha trafitto al cuore la democrazia
 di Londra. Ma c'è anche l'immediato vicinato a
 preoccupare l'Ue: la crisi istituzionale in Macedonia
 potrebbe degenerare in scontro etnico, e
 Bruxelles valuta il ricorso a sanzioni per 
i responsabili dello stallo nel Paese. Intanto, 
sono iniziati ieri all'Onu i negoziati per la messa al
 bando delle armi nucleari: l'Italia rivedrà la propria posizione, 
dopo aver votato contro in Assemblea generale 
lo scorso dicembre?

Per seguirci costantemente, visita il nostro sito
dove troverai un ricco archivio di articoli, Speciali,
 recensioni di novità librarie, notizie in tempo reale dall'agenzia AGI. 

Proposta austriaca
Armi nucleari: Onu discute se abolirle
Natalino Ronzitti
26/03/2017
 più piccolopiù grande
È possibile abolire completamente le armi atomiche? Si, secondo una proposta austriaca. La proposta, frutto dell’iniziativa sull’impatto umanitario delle armi nucleari, è ormai approdata alle Nazioni Unite dopo essere stata discussa nell’ambito di tre conferenze internazionali.

Questi i passaggi: una risoluzione (la 258) è stata adottata dall’Assemblea generale (AG) delle Nazioni Unite il 23 dicembre 2016, preceduta da un testo adottato in prima commissione; la risoluzione ha incaricato le Nazioni Unite di convocare una conferenza nel 2017 della durata di quattro settimane: 27-31 marzo e 15 giugno-7 luglio.

Il 16 febbraio ha avuto luogo la prima sessione organizzativa, con l’elezione del presidente della conferenza e l’agenda provvisoria dei lavori. Alla conferenza potranno partecipare non solo gli Stati membri, ma anche le organizzazioni internazionali e i rappresentanti della società civile. Lo scopo, come precisato nel paragrafo 8 della risoluzione 258, è “di negoziare uno strumento giuridicamente vincolante che proibisca le armi nucleari e conduca alla loro totale eliminazione”. Vasto programma, per dirla con il Generale de Gaulle!

La risoluzione è stata adottata con 113 voti a favore, 35 contrari e 13 astensioni. Gli Stati nucleari, dichiarati e non, hanno votato contro, tranne Cina, India e Pakistan, che si sono astenuti. La Corea del Nord, che aveva votato a favore in prima commissione, non ha partecipato al voto in plenaria.

La posizione dell’Unione europea
A parte la manifesta contrarietà degli Stati nucleari dichiarati, tranne la Cina, l’atmosfera non è delle più propizie. La Russia intende procedere ad un riarmo nucleare, come del resto la nuova amministrazione Usa. I rumors di un possibile intervento militare contro la Corea del Nord si fanno ogni giorno più assordanti.

Secondo uno studio della Carnegie, le tentazioni isolazioniste americane in materia di difesa hanno solleticato le pulsioni atomiche di frange nazionaliste tedesche, nonostante la Germania sia obbligata dal Tnp e dal Trattato sulla riunificazione del 1990 (il 2+4) a non avere armi atomiche. Ma dal Tnp si può recedere.

Al solito l’Ue, di fronte alle grandi questioni di politica estera, procede in ordine sparso. Il Parlamento europeo aveva votato a stragrande maggioranza il 27 ottobre 2016 una risoluzione di sostegno all’iniziativa austriaca. Ma i membri Ue non hanno tenuto una posizione univoca in AG. Austria, Cipro, Irlanda, Malta e Svezia hanno sponsorizzato la risoluzione 258 e votato a favore; Finlandia e Olanda si sono astenute; gli altri hanno votato contro. Peraltro l’Ue parteciperà alla conferenza come osservatore.

La posizione dell’Italia
L’Italia, in quanto Paese Nato, aveva votato contro in prima commissione. In AG ha votato a favore. Ciò aveva incrementato gli ardori pacifisti di talune forze politiche. Ma si è trattato di una pia illusione. Interrogato in proposito in seno alla Camera dei Deputati, il 2 febbraio, il viceministro Giro ha risposto che il delegato italiano si era sbagliato, probabilmente a causa dell’ora tarda della votazione. L’Italia ha successivamente indicato che intendeva votare contro (stesso errore commesso dall’Estonia).

La votazione elettronica e l’ora tarda possono giocare brutti scherzi, tanto che nella successiva votazione sulla risoluzione 259, sull’iniziativa per un trattato volto a bandire la produzione di materiale fissile per le armi nucleari, l’Italia ha votato contro, insieme al Pakistan, trovandosi completamente isolata. Anche questa volta si è dovuto rettificare e dire che s’intendeva votare a favore!

Tralasciando gli episodi più o meno coloriti, la questione dei Paesi Nato, membri del Tnp come Stati non nucleari, nasconde un problema serio. Tali Paesi (Belgio, Germania, Italia, Olanda, Turchia) hanno armi nucleari tattiche Usa nel loro territorio. Il problema della compatibilità con il Tnp è stato in qualche modo superato con il sistema della doppia chiave, secondo cui l’arma nucleare può essere usata solo dagli Stati Uniti, ma con il consenso dello Stato territoriale.

Ovviamente la partecipazione ad un trattato per l’abolizione completa delle armi nucleari renderebbe lo stazionamento delle armi nucleari tattiche completamente illegittimo. L’astensione olandese sulla risoluzione 258 è un primo segnale di rottura di un fronte che sembrava sufficientemente compatto.

Partecipare/non partecipare
I cinque Paesi nucleari dichiarati non dovrebbero partecipare alla Conferenza di New York. Anche la Cina, che il 16 febbraio ha dichiarato che avrebbe partecipato, ha successivamente cambiato opinione, affermando il 20 marzo che non avrebbe preso parte alla conferenza, nonostante l’astensione al momento dell’adozione della risoluzione 258.

E l’Italia? Il viceministro Giro nella sua risposta all’interrogazione precedentemente citata non ha preso una posizione nettamente contraria, quantunque dal tono della risposta emerga la volontà di non partecipare.

A nostro parere la non partecipazione è un errore per più motivi.In primo luogo perché si darebbe un falso segnale all’opinione pubblica, schierandoci dalla parte degli Stati che non vogliono il disarmo nucleare. In secondo luogo perché solo attraverso la negoziazione si può influire sul contenuto delle clausole del futuro trattato, in particolare per quanto riguarda le verifiche e i rimedi da prendere nei confronti dei trasgressori.

In terzo luogo perché la partecipazione al negoziato non implica che siamo obbligati a firmare e ratificare il relativo trattato, e quindi possiamo tranquillamente mantenere le armi atomiche tattiche. In quarto luogo perché, in quanto membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza, occorre dare un segnale forte di discontinuità agli altri membri delle Nazioni Unite, senza lasciare l’iniziativa alla sola Olanda (che parteciperà), con cui dividiamo il biennio come membri non permanenti del CdS.

Conclusioni e conseguenze
La negoziazione di un trattato sull’abolizione completa delle armi nucleari non sarà una passeggiata. Gli ostacoli tecnici da superare sono molteplici. A cominciare dal numero delle ratifiche occorrenti e dalla necessità di avere delle ratifiche “qualificate”, cioè di Stati di soglia o già in possesso di armi nucleari, per la sua entrata in vigore.

A quanto pare i promotori del trattato non intendono cadere nella trappola delle ratifiche qualificate, per non pregiudicare una sollecita entrata in vigore del trattato. Ma si rischia di concludere uno strumento che resterà lettera morta.

Preme inoltre rilevare che, contrariamente a quanto viene da alcuni affermato, un trattato sull’abolizione completa delle armi nucleari non finirà per sminuire il valore del Tnp, di altri trattati non ancora entrati in vigore (come quello sulla cessazione completa delle armi nucleari), o l’iniziativa per il negoziato di un trattato per la non produzione di materiale fissile in materia di armi nucleari. Tali trattati possono coesistere con quello sull’abolizione completa delle armi nucleari, in attesa che questo entri in vigore e sia universalmente accettato.

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (Luiss Guido Carli) e consigliere scientifico dello IAI.

martedì 21 marzo 2017

Ricerca Parametrale n. 521. Notizie del 21 marzo 2017

Oggetto Newsletter : EU60, Francia, Turchia
Newsletter n° 521 , 21 marzo  2017

Manca appena un mese al primo turno delle presidenziali
 francesi e ieri sera si è tenuto il primo dibattito televisivo 
fra i cinque principali candidati. Marine Le Pen ed Emmanuel 
Macron manterranno il loro vantaggio rispetto ai candidati
 dei partiti che hanno finora mandato un presidente all'Eliseo? 
Mentre le forze politiche d'Oltralpe si dividono sulle politiche
 della sicurezza, a impensierire l'Ue è un'altra consultazione
 elettorale imminente, stavolta ai suoi confini: il referendum 
in Turchia sulla riforma costituzionale che, se approvata,
 consoliderebbe il potere di Erdogan. Che sviluppi avrà
 uno scontento reciproco a lungo covato, mentre l'Unione
 vive la settimana della celebrazione dei sessant'anni dei
 Trattati di Roma? L'integrazione differenziata, verso cui
 paiono orientati i Paesi fondatori, nonostante l'opposizione
 del blocco centro-orientale, troverà riferimento nel testo della 
Dichiarazione che sarà siglata venerdì? Una Dichiarazione a
 27, mentre Londra annuncia che quattro
 giorni dopo attiverà formalmente la Brexit.

Ricerca Parametrale n. 520. Notizie del 17 marzo 2017

Oggetto Newsletter : Olanda, Serbia, Wto
Newsletter n° 520 , 17 marzo 2017

In Olanda, l'alta affluenza frena l'onda nazionalpopulista. 
Il primo appuntamento elettorale del 2017 in uno dei Paesi
 fondatori fa tirare un sospiro di sollievo all'Ue, a meno di 
 Romae dà nuovo slancio alle proposte per il futuro dell'Unione. 
Arginato Wilders, e con i laburisti in picchiata e i Verdi nuova 
stella del firmamento politico, che governo metterà insieme
 Mark Rutte, alla sua terza volta da premier? In attesa del 
voto in Francia e Germania, Bruxelles rivolge l'attenzione
 anche alle urne dei Paesi vicini: mentre gli Stati dei 
Balcani si incontrano a Sarajevo (presente anche l'Italia)
 per rafforzare la cooperazione regionale, la Serbia si 
prepara alle presidenziali con un occhio all'Ue. 
La cancelliera tedesca Angela Merkel, intanto, 
vola a Washington, dove oggi incontrerà per la 
prima volta Donald Trump: dal bilaterale arriveranno
 segnali distensivi per il commercio internazionale?

Formule europee
#EU60: prematuro parlare di Federazione
Riccardo Perissich
21/03/2017
 più piccolopiù grande
Un articolo appassionato di Giuliano Amato, a proposito di un interessante libro di Sergio Fabbrini, riprende con forza un tema che serpeggia nel dibattito italiano sull’Europa: quello della necessità di pensare a un nucleo integrato secondo linee federali all’interno di un’Unione più larga il cui collante resterebbe il mercato unico.

Il tema sembra essere rilanciato dalle recenti allusioni di Angela Merkel, poi riprese dai quattro maggiori governi dell’euro-zona, di un’Europa a più velocità. Alla base ci sarebbe la convinzione che c’è in Europa una frattura fondamentale e insanabile sulle finalità stesse dell’Unione. Non vorrei che la discussione fosse almeno in parte basata su un equivoco.

Equivoci e interpretazioni
In primo luogo, non mi sembra legittimo interpretare in questo senso tutti gli appelli degli europei che chiedono o propongono “più Europa”. Chi, come Emmanuel Macron in Francia, propone un Parlamento della zona euro non lo fa all’interno di un disegno federalista.

Del resto, anche se così fosse, la parola “federalismo” sarebbe oggi declinata in modo molto diverso e in parte incompatibile in francese, italiano, tedesco e probabilmente anche spagnolo. Fra la concezione tedesca di un “governo delle regole” con un esecutivo debole e quella francese di un esecutivo forte (non importa se intergovernativo o federale), c’è ancora un abisso.

In secondo luogo, la distinzione fra gestione del mercato e compiti del preconizzato nucleo federale, è molto più complicata di come alcuni pensano. Si è già visto nel caso britannico che il punto più delicato e del resto non completamente risolto nel negoziato condotto con David Cameron, fu proprio il rapporto fra mercato dei capitali e gestione dell’euro-zona.

Come Amato rileva nel suo articolo, il mercato unico è ancora oggi, assieme al ruolo delle Bce nella gestione della moneta, il settore dove sono presenti i maggiori elementi “federali”. Un mercato unico non strettamente interconnesso, anche dal punto di vista istituzionale, con settori oggetto di differenziazione sarebbe ben poca cosa; al massimo una zona di libero scambio come quella che tenteremo di negoziare con la Gran Bretagna.

In terzo luogo,ricordo bene come nacque all’inizio degli Anni ’80 il concetto di “differenziazione”. Non fu certo per astratte ragioni istituzionali. Era ormai diffusa la convinzione che la Gran Bretagna non sarebbe stata disponibile per progressi decisivi oltre l’approfondimento del mercato e si voleva trovare una strada per progredire anche senza Londra.

Come sappiamo il principio è stato applicato per l’euro e per Schengen. Se oggi ne parliamo di nuovo, vuol dire che abbiamo in mente i Paesi scandinavi e l’Europa orientale. Il problema dei primi non merita francamente che si spenda troppo tempo in architetture complesse. Sono popoli eminentemente pragmatici con cui troveremo sempre un modus vivendi. Da un punto di vista pratico, la Danimarca fa già parte dell’euro. La differenza fra la proposta di cui parliamo e la differenziazione fin qui praticata, è che si tratterebbe di una scelta radicale fra modelli d’integrazione.

L’Europa orientale più difficile della Gran Bretagna
Proprio da qui sorge il mio dubbio più importante. L’Europa orientale paradossalmente presenta difficoltà maggiori della Gran Bretagna. Tutti sappiamo quanto l’evoluzione recente di alcuni di quei Paesi sia fonte di preoccupazione. Da questo punto di vista è comprensibile l’irritazione che spinge a pensare a una minaccia di esclusione.

Trovo tuttavia sorprendente che Paesi come la Francia e l’Italia sembrino dimenticare che l’arco d’instabilità che va dal Baltico ai Balcani, da cui sono nate le due guerre mondiali che hanno portato il continente sull’orlo del suicidio, è ancora oggi il ventre molle dell’Europa.

La Germania sembra oggi l’unica ad essere cosciente dell’importanza strategica e geopolitica di quei paesi e della necessità vitale che l’Europa in un modo o nell’altro contribuisca alla loro stabilizzazione. Solo chi ha scarsa memoria può pensare che sia un obiettivo facile da raggiungere.

Con la Gran Bretagna, Paese sicuramente democratico e nostro stabile alleato, anche dopo Brexit troveremo una forma di proficua collaborazione. Lo stesso non è necessariamente vero a Oriente, soprattutto nel momento in cui assistiamo a una nuova minaccia russa.

Con quei Paesi bisogna quindi adottare una strategia più abile che limitarci a dire “Decidete: ‘Dentro o fuori’”. Non dimentichiamo che fino a poco tempo fa la Polonia era considerata uno dei grandi successi dell’allargamento. Non possiamo nemmeno pensare che il rapporto con loro si possa ridurre a un legame commerciale. Deve invece essere politico e comprendere una dimensione di difesa che non possiamo più abbandonare interamente alla Nato. Una ragione per rallentare la corsa di chi vuole andare avanti? Certamente no, ma ci vorrà una strategia molto articolata.

Portare avanti la costruzione ibrida
Per queste ragioni penso che la saggezza consista nel proseguire pazientemente sulla strada perseguita negli ultimi sessant’anni: aggiungere progressivamente e rafforzare elementi federali in una costruzione ibrida. Almeno per il prevedibile futuro, Ventotene continuerà a essere un faro ma è destinata a restare un’isola italiana. Nel frattempo, si può usare la differenziazione come uno stimolo e come uno strumento per evitare i veti, ma senza dimenticare l’unità a 27.

Mi sembra che questo sia il senso delle prese di posizione prima del Benelux, poi della Germania e ora anche dell’Italia. Evito per carità di patria di ricordare che chi di là dalle Alpi parla di velocità plurime ha a volte in mente anche un “caso italiano”.

Certo, il prezzo da pagare in termini di trasparenza e comprensione del processo, è elevato. Amato lo rileva giustamente e uno sforzo di spiegazione è indispensabile. Più ancora della trasparenza del sistema, per battere i populisti è necessario oggi chiudere il divario fra le aspettative, gli annunci e le realizzazioni concrete. La risposta a questa esigenza deve venire dalle politiche e non dagli assetti istituzionali.

C’è un altro aspetto su cui invece concordo con, mi sembra, il pensiero implicito di Amato e di Fabbrini. La costruzione evolutiva e barocca in cui ci situiamo è eminentemente instabile. Com’è dimostrato dal caso britannico, il momento di scegliere “dentro o fuori” arriverà inevitabilmente. È però nostro interesse che il momento della verità intervenga il più tardi possibile e per il minor numero di Paesi.

Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore.

lunedì 20 marzo 2017

Ricerca Parametrale 519. Notizie del 14 marzo 2017

Oggetto Newsletter : Trump, Nato, Egitto, Smart Cities
Newsletter n° 519 , 14 marzo 2017

Il disgelo fra Stati Uniti e Cina comincia a Mar-a-Lago?
 È nel resort della Florida di sua proprietà che Donald 
Trump dovrebbe ricevere a inizio aprile il leader cinese
 Xi Jinping, come anticipato ieri da alcune fonti di stampa 
Usa. Ma sul rilancio delle relazioni fra Washington e
 Pechino pesa la deriva protezionista delle politiche 
della nuova Casa Bianca. A Occidente, gli Alleati non
 se la passano meglio: il Montenegro attende il via
 libera americano per diventare il 29o Stato membro 
di una Nato impegnata a proiettare la sua azione 
verso il fianco meridionale. E in Egitto continuano 
le violenze contro i cristiani copti, nel silenzio delle
 istituzioni. Un futuro meno tetro lo promettono
 le 'smart cities', che in Italia tardano. 


Effetto Trump
Montenegro e Nato: un valzer per l’accesso
Cristian Barbieri
11/03/2017
più piccolopiù grande
Il Montenegro nei prossimi mesi potrebbe diventare il 29° Stato membro dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord al Vertice in programma il 25 maggio a Bruxelles.

Il condizionale resta però d’obbligo, in quanto sebbene il 2 dicembre 2015, sotto la spinta dell’Amministrazione statunitense a guida Barack Obama, il Montenegro sia stato invitato dal segretario generale Jens Stoltenberg ad entrare nell’Organizzazione,e il 19 maggio 2016 sia stato firmato il protocollo di accesso del Montenegro alla Nato, l’elezione di Donald Trump a 45° presidente degli Stati Uniti ha rallentato questo processo.

Le ratifiche del protocollo di adesione
L’articolo 10 del Trattato di Washington contempla la possibilità di adesione all’Organizzazione di nuovi Stati europei, previo assenso unanime di tutti gli Stati membri. Dopo la ratifica da parte del Parlamento canadese della scorsa settimana, mancano ancora le ratifiche di Spagna, Paesi Bassi e Stati Uniti, mentre l’Italia ha ratificato ed eseguito il protocollo di accesso lo scorso 9 novembre.

Le Cortes spagnole approveranno nelle prossime settimane il protocollo. Invece, per la ratifica dei Paesi Bassi si dovranno aspettare le elezioni del 15 marzo, ma la legge di approvazione era già stata discussa e approvata in prima lettura senza intoppi.

La più importante, e probabilmente ultima, ratifica dovrà arrivare dal Senato degli Stati Uniti d’America.La conferma del protocollo di accesso da parte del Senato, che sembrava una semplice formalità prima delle elezioni del novembre scorso, si potrebbe trasformare in un bivio sostanziale per le politiche del presidente Trump nei riguardi della Nato e dei Balcani.

Il disimpegno in Europa proclamato in campagna elettorale, si è poi trasformato in una più realistica rivalutazione di condivisione di costi e responsabilità sostenuta dalla risoluzione del Senato del 7 febbraio sul “fermo impegno” degli Stati Uniti nella Nato. Questa politica dovrebbe, teoricamente, andare contro un allargamento dell’Organizzazione.

Se un’azienda vuol spendere meno, è raro che il proprio amministratore decida di ampliarla. Immaginando il magnate americano come nuovo Ceo degli Stati Uniti, l’ampliamento parrebbe un paradosso. È per questo motivo che il Senato, il 12 gennaio, nell’esprimere parere favorevole all’ingresso di Podgorica nell’Organizzazione, ha posto come condizione che questo accesso non debba comportare ulteriori costi per gli Stati Uniti.

Uno Stato così piccolo, un dilemma così grande
Il reale rallentamento del processo, però, pare derivare più da ragioni politiche ed in particolare dai rapporti con la Russia. Mosca aveva già condannato il tentativo di influenza americano nella regione all’indomani dell’invito all’entrata del 2 dicembre 2015. minacciando ritorsioni.

Le pacifiche relazioni che Trump voleva tessere con Putin si scontrano, e potrebbero essere minate, dall’ingresso del piccolo Paese mediterraneo nella Nato. D’altro canto un roll-back degli interessi americani nei Balcani potrebbe lasciare un via libera a quelli russi.

Gli interessi russi in Montenegro sono evidenti: si va dai grandi investimenti economici privati sulle coste, dove casinò e hotel a 5 stelle di proprietà russa la fanno da padrone, fino alla posizione geostrategica posseduta da un Paese di stesse tradizioni religiose e linguistiche (ortodossia ed uso ufficiale dell’alfabeto cirillico) e con sbocco sul Mar Adriatico.

A questo quadro si aggiunga poi una spy-story, in pieno stile balcanico (si veda Francesco Ferdinando), che vedrebbe coinvolti agenti russi nel tentativo di assassinio del leader del partito Democratico dei Socialisti del Montenegro promotore dell’avvicinamento all’Occidente, Milo Đukanović, durante le elezioni parlamentari dell’ottobre 2016. Accuse ritenute infondate dal governo russo, ma che hanno fatto molta notizia in Europa, specialmente nei Balcani.

Đukanović è una figura ambigua della politica montenegrina: informalmente alla guida del Paese dal 1991, da quando ricopriva il ruolo di primo ministro nell’allora ex-Jugoslavia, è alla guida del partito di governo dal 1998 e si presenta come il promotore vincente del referendum sull’indipendenza del 2006. È considerato l’uomo più potente del Montenegro ed è accusato da più parti di gestire il Paese come un’azienda di famiglia con annesse ripetute accuse di corruzione.

Pro e contro l’adesione alla Nato
Un paese di 600.000 abitanti, con un esercito di sole 7.000 unità, quattro elicotteri a disposizione e 14 unità navali militari: la domanda viene spontanea, che benefici trarrebbe l’Alleanza dall’ingresso del Montenegro? Da un punto di vista strettamente numerico ben pochi. Ma basta guardare all’’ultimo allargamento del 2009, il sesto nella storia dell’Organizzazione, con l’adesione di Croazia e Albania, per trovare una prima risposta; la chiara vocazione balcanica dell’Organizzazione è insita in queste ultime due adesioni che sottolineano l’importanza strategica della regione nello scacchiere europeo.

Il Montenegro nell’Organizzazione significherebbe una chiusura del fianco sud-est europeo e adriatico a possibili influenze russe. La gestione dell’Adriatico sarebbe resa più fluida dal porto di Bar, l’antica Antibari, che già i romani fondarono con lo scopo di controllare meglio questo mare: lì, l’ampia profondità delle acque rende possibile l’approdo di grandi navi militari.

In più, l’accesso del Montenegro darebbe una rinnovata spinta alla politica di ampliamento dell’Alleanza, riportando in discussione l’entrata della Macedonia già inserita nel Membership Action Plan (MAP) dal vertice di Washington del 1999 e la cui adesione è bloccata solo dalla Grecia per la questione del nome, e una possibile integrazione futura del Kosovo, dove peraltro le truppe Nato sono già presenti con la missione Kfor.

Infine un Montenegro membro della Nato significherebbe un altro passo di Podgorica verso l’Europa, come sottolineato dall’ultimo rapporto della Commissione europeasul Paese del 2016. I preparativi per il matrimonio sono in dirittura d’arrivo: se lo sposo (o, almeno, gli Stati Uniti) non si tirerà indietro all’ultimo momento, le nozze saranno celebrate il 25 maggio al vertice di Bruxelles, con buona pace della Russia.

Cristian Barbieri è Assistente alla Ricerca del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter @Barbiericr).

venerdì 17 marzo 2017

Ricerca Parametrale.n. 518. Notizie del 10 marzo 2017

Oggetto Newsletter : Libia, Nato, Cina
Newsletter n° 518 , 10 marzo 2017

Mentre l'Ue alle prese con l'integrazione differenziata 
designa per la prima volta non all'unanimità un
 presidente del Consiglio europeo (il riconfermato 
polacco Donald Tusk, osteggiato proprio dal suo Paese), 
incomprensioni parallele serpeggiano anche fra gli Alleati
 delle due sponde dell'Atlantico. Per gli Stati Uniti di Trump i
 conti non tornano: gli europei dovrebbero investire di
 più nella Nato. Mentre l'Alleanza proietta la sua azione
 nel Mediterraneo, centrale nei traffici commerciali della
 Cina e nel progetto di una nuova Via della Seta. In Libia,
 intanto, continua, anche a causa di un approccio 
internazionale inadeguato, la guerra per i pozzi di
 petrolio, con la Russia che si muove cauta fra l'est 
di Haftar e l'ovest di Sarraj.

Gran Bretagna
Débâcle laburista: la lezione dei seggi dimenticati
David Ellwood
08/03/2017
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È stato il celebre regista Ken Loach ad offrire i commenti più incisivi sui risultati delle elezioni suppletive tenutesi il 23 febbraio in due circoscrizioni fin qui considerate del tutto marginali nello scenario politico inglese: Copeland in Cumbria, nell’estremo nord-ovest del Paese, e Stoke, nei vecchi Midlands industriali.

Entrambi i collegi erano considerati da sempre roccaforti del partito laburista: negli ‘80 anni di vita del seggio, Copeland ha sempre mandato un laburista a Westminster; mentre la sinistra ha sempre avuto a Stoke decine di migliaia di voti di vantaggio.

Ebbene, se stavolta Copeland ha optato per una signora borghese appartenente al partito conservatore di Theresa May, a Stoke il candidato laburista ha prevalso, ma con un margine di appena 2.600 voti, sul rivale dell’Ukip di Nigel Farage (e con un’affluenza ridotta al 36%).

Non solo colpa di Corbyn
Sul Guardian, in un raro intervento pubblicato su un quotidiano, Loach (regista che di recente ha diretto I, Daniel Blake, eloquente denuncia della spietatezza del sistema di welfare oggi nel confronto dei suoi tipici ‘clienti’) ha insistito che questi risultati non dipendono solo dalle presunte insufficienze del leader laburista Jeremy Corbyn.

Avendo visitato di persona i luoghi delle due “battaglie” (unica personalità di spicco del mondo dei media a farlo), Loach ha concluso che i nuovi scenari politici sono l’eredità perfetta di quella subalternità congenita del New Labour di Tony Blair, Gordon Brown e compagnia verso la filosofia, le priorità e i metodi del thatcherismo.

Quindi privatizzazioni, liberalizzazioni, commercializzazioni; le presunte preferenze per il ‘mercato’ e il business a dominare tutto, e il disprezzo per tutto quello che potesse chiamarsi pubblico (sanità, trasporti, case, scuole…).

Scrive Loach: ‘Sì,Stoke è stata solidamente laburista da sempre, con i suoi deputati e consiglieri comunali; ma, dopo anni così, il risultato è che in quella città ci sono 60.000 persone che vivono sotto la soglia della povertà, 3.000 famiglie che dipendono dalle organizzazioni caritatevoli per mangiare, 25 milioni di sterline di tasse locali non pagate. Lì, l’Ukip è il secondo partito. E lo stesso può dirsi per Copeland: le vecchie industrie (acciaio, miniere, chimiche) sono scomparse, e non c’è neanche l’ombra di un progetto per sostituirle’.

Quindi, non è solo a causa del personaggio Corbyn se i Labour finiscono male in queste località, dice Loach. Aggiunge pure, giustamente, che la Scozia è stata persa dalla sinistra ben prima dell’avvento di Corbyn.

Ma le ricette vecchio stile non pagano
In realtà, le due circoscrizioni sono totalmente diverse l’una dall’altra, ed è impossibile immaginare come potrebbero riprendersi con le ricette proposte da Corbyn/Loach e ispirate dal laburismo vecchio stile: più Stato dappertutto, più tasse sui ricchi, nazionalizzazioni, centralizzazione.

Copeland è una zona prevalentemente rurale, al bordo occidentale del parco nazionale del Lake District, tutta laghi, boschi e pecore, ma con la singolare peculiarità di ospitare sulla sua costa, da più da 60 anni, una vasta installazione nucleare, ormai dedita al riciclaggio delle scorie nucleari. Questo impianto è il maggiore datore di lavoro di tutta l’area, e perciò la gente del luogo lo difende a tutti i costi. Corbyn, naturalmente, è sempre stato contro il nucleare.

Stoke, al contrario, è il prodotto della vecchia industrializzazione classica (quindi carbone, acciaio, pneumatici, ma soprattutto ceramica): è stato il perno di tutta la grande industria nazionale in questi settori, conosciuto in tutto l’impero. Si presenta quindi come una città uguale a tante altre nel Regno Unito: Glasgow, Newcastle, Liverpool, Birmingham; realtà governate da sempre dal Labour, e con i problemi di degrado sociale ed economico identici a quelli di Stoke.

Loach ha ragione da vendere quando incolpa il New Labour per l’aggravarsi delle condizioni politiche in queste zone, e quando si preoccupa per il futuro della loro rappresentanza politica. Negli Stati Uniti, sono città come Stoke ad aver favorito l’affermazione di Donald Trump; e proprio in Gran Bretagna ad aver spinto per la Brexit (a Stoke quasi il 70% ha scelto il Leave).

Qui, però, l’Ukip non ha la minima forza né capacità organizzativa dei repubblicani d’America, e di ciò i laburisti dovrebbero essere grati. Nonostante tutto il rumore creato in questi anni (e il suo “trionfo” nel referendum sull’uscita dall’Ue), l’unico rappresentante dell’Ukip in Parlamento è un transfugo dei Tories, attualmente in rotta con la leadership del partito.

Gli errori della sinistra
A guastare tutto lo schieramento laburista (senza distinzione fra gli amici e i nemici di Corbyn) è la forma storica, mai contrastata, del loro populismo: un pragmatismo dogmatico che li convince che l’unica cosa che conta è venire incontro a quello che preoccuperebbe ogni giorno la ‘loro’ gente (lavoro, scuola, ospedali, case, pensioni, trasporti).

Non si vede quindi l’ombra della capacità intellettuale di fare un passo indietro, e di riflettere sulle cause di fondo delle situazioni che hanno determinato l’evoluzione storica e recente di questi settori. Loach e compagni danno tutta la colpa all’abbraccio del New Labour del dogma del libero mercato, ma Glasgow, Stoke, Newcastle e le altre località hanno cominciato il loro declino ben prima del thatcherismo, anche se l’Iron Lady ha fatto di tutto per accelerare la deindustrializzazione del paese.

Proprio come non ha voluto elaborare un proprio discorso sulla transizione verso la società post-industriale, sull’integrazione europea, sulla globalizzazione, sul radicalismo economico e sociale, il partito laburista non è stato neppure capace di fare autocritica sul declino del sistema di governo locale, sulla disgregazione sociale anche nelle “sue” città, e nemmeno sui risultati dei tre governi a guida Blair e Brown.

È giusto affermare, come fa Loach, che il problema Corbyn non è quello determinante, anche se nessun leader laburista è mai stato così impopolare tra l’elettorato in generale. Ma senza una radicale riflessione critica sui suoi tanti anni di governo locale e nazionale, nessuna delle proposte specifiche del Labour per affrontare le questioni di oggi, sia quelle immediate sia le versioni più profonde, avranno un minimo di credibilità; e le umiliazioni tipo Copeland e Stoke si moltiplicheranno.

David Ellwood, Johns Hopkins University, SAIS Bologna Center.

mercoledì 8 marzo 2017

Ricerca Parametrale n. 517 Notizie del 7 Marzo 2017

Oggetto Newsletter : EU60, elezioni Olanda, Cina nei Balcani
Newsletter n° 517 , 7 marzo 2017

Dall'Europa a più velocità all'Unione politica: i modelli
 per rilanciare il futuro dell'Ue sono formulati nel Libro
 Bianco presentato dal presidente della Commissione
 europea Jean-Claude Juncker e finiti dritti sul tavolo 
dei leader di Italia, Francia, Germania e Spagna, riuniti 
a Versailles ieri sera in preparazione delle celebrazioni 
del 60o anniversario dei Trattati di Roma, che cade il 25 
marzo prossimo. Tra una settimana, toccherà intanto agli 
olandesi dire la loro, nelle urne delle legislative: l'onda
 nazionalista prevarrà. E mentre i salvataggi nel 
Mediterraneo toccano i livelli più alti degli ultimi tre 
anni, Bruxelles volge lo sguardo ai Balcani, dov'è
 terminata una lunga visita dell'Alto rappresentante
 Federica Mogherini. Ma l'Ue non è la sola: quali 
sono gli interessi cinesi nella regione?



#EU60 re-founding Europe
Con orgoglio sportivo sotto la bandiera europea
Carlo Musso
04/03/2017
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Mi è difficile immaginare un cittadino di un qualunque Stato membro dell’Unione europea, Ue che si emozioni stando in piedi davanti alla bandiera blu, o che si commuova ascoltando l’inno europeo. Penso che questo non accade perché mancano le condizioni adeguate.

Facciamoci una semplice domanda: ai nostri giorni, quand’è che le persone si sentono più orgogliose di appartenete alla propria nazione? Principalmente in occasione di eventi sportivi quando, dopo un’epica vittoria o anche una sconfitta frutto di una prestazione memorabile, un profondo senso di appartenenza comune si diffonde tra individui che non si conoscono fra loro, ma, quasi magicamente, si sentono concittadini di un stessa patria.

Lo sport non è solo questione di come impiegare piacevolmente il tempo libero. È molto più di questo. Non è una storia il fatto che nell’antica Grecia, in occasione dei giochi Olimpici, si deponevano le armi e si interrompevano le guerre, per dare modo agli atleti di città nemiche di radunarsi all’ombra del tempio di Zeus e competere lealmente nei sacri giochi. È storia.

L’influenza e l’esempio dello sport
E anche in tempi recenti gli eventi sportivi hanno avuto impatti non trascurabili sulle attività umane. Nel 1948 l’Italia stava ancora riemergendo dalle rovine della Seconda Guerra Mondiale e ricostruendo il Paese dopo venti anni di fascismo. Il 14 luglio il segretario del Partito comunista italiano, Palmiro Togliatti, fu ferito gravemente da un estremista di destra: immediatamente scoppiarono scontri di piazza e l’Italia fu sull’orlo di una nuova guerra civile.

Fortunatamente, negli stessi giorni, al di là della Alpi, Gino Bartali ottenne una serie di epiche vittorie sulle montagne del Tour de France, conquistò la maglia gialla e la portò fino a Parigi. Come per magia, in Italia la gente si radunò attorno alle radio da nord a sud e un senso di orgoglio nazionale riprese forza, sciogliendo le tensioni sociali come neve al sole (1).

Nel 1995 Nelson Mandela puntò gran parte della sua credibilità personale sull’improbabile vittoria degli Springboks nella terza Coppa del Mondo di rugby, ospitata dal Sudafrica, per aiutare la ricostruzione della Nazione Arcobaleno e dare impulso al processo di riconciliazione dopo oltre quarant’anni di apartheid. E la vittoria arrivò, nel modo più affascinante e improbabile, che nemmeno il miglior giallista avrebbe immaginato, con un drop negli ultimi minuti dei tempi supplementari di una finale contro gli eterni rivali All Blacks.

C’erano 63.000 spettatori allo stadio, e 62.000 di loro erano bianchi. Francois Pienaar, il capitano Springbok, ricorda che “Mandela entro all’Ellis Park di fronte a una folla quasi esclusivamente bianca, in gran parte Afrikaner, indossando uno springbok (2) sul cuore, ed essi urlarono: ‘Nelson, Nelson, Nelson!’, perché ciò che aveva promesso lo aveva mantenuto. E al fischio finale il Paese cambiò per sempre” (3). E questi sono solo due esempi di quanto lo sport può influire sulla dimensione politica e culturale della società.

La nazionale europea che non c’è e i Lions del rugby
Per quanto ne so, non c’è una sola competizione sportiva in cui l’Ue schieri una sua squadra sotto la bandiera blu (c’è per la verità la Ryder Cup, un trofeo biennale di golf disputato tra una squadra degli Stati Uniti e una europea, ma non dell’Ue vera e propria (4)).

Non sarebbe possibile una cosa del genere? Anche in presenza di tradizioni solide e profonde in ogni sport a livello nazionale, non potrebbe essere realistico pensare a una squadra dell’Ue in grado di unire le passioni e le speranze di tutti gli europei sotto la stessa bandiera? Potrebbe. L’esempio migliore viene dal rugby. Le quattro nazionali britanniche - Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda - condividono alcune tra le più profonde e antiche rivalità nello sport mondiale.

Scozia vs Inghilterra - il primo match internazionale della storia nel 1871 - ogni anno ripropone il ricordo di secoli di lotte e inimicizia, come testimonia chiaramente l’inno Flower of Scotland, che richiama la battaglia di Bannockburn del 1314, quando Robert Bruce sconfisse “prood Edward's airmy, an sent him hamewart, tae 'hink again” (5).

Inoltre, ogni volta che il Galles affronta l’Inghilterra, i giocatori gallesi sono pienamente consapevoli che non sono coinvolti in una semplice partita di rugby, ma in qualcosa di molto più grosso, come chiarì il capitano del Galles, Phil Bennet, nel suo discorso pre-partita prima di affrontare l’Inghilterra nel 1977: “Look what these bastards have done to Wales. They've taken our coal, our water, our steel. They buy our homes and live in them for a fortnight every year. What have they given us? Absolutely nothing. We've been exploited, raped, controlled and punished by the English – and that's who you are playing this afternoon”(6).

E che dire dell’Irlanda? Anche durante i giorni più oscuri della guerra civile e la lunga lotta fratricida tra i nazionalisti repubblicani e gli unionisti britannici, ogni anno i giovani irlandesi si riunivano “from the mighty Glens of Antrim, from the rugged hills of Galway, from the walls of Limerick and Dublin Bay, from the four proud provinces of Ireland [... to] answer Ireland’s call” (7) per affrontare l’Inghilterra nel Cinque Nazioni.

Anche quelle tra Galles, Irlanda e Scozia sono piuttosto battaglie che non semplici partite di rugby, dato che in palio c’è il riconoscimento della supremazia tra le tre nazioni celtiche. E tuttavia, nonostante queste feroci e radicate rivalità, dal 1888 in avanti, periodicamente, giocatori inglesi, gallesi, scozzesi e irlandesi sono sempre stati desiderosi e fieri di indossare la medesima maglia dei British & Irish Lions e andare oltremare per tenere alto il nome del rugby britannico contro le nazioni dell’emisfero Sud (8).

Chiunque in Gran Bretagna, anche fra i più giovani, sente un brivido lungo la schiena se chiedete dei Lions di John Dawes, che per la prima - e finora unica - volta nel 1971 sconfissero gli All Blacks in una serie a casa loro, o degli undefeated di Willie John McBride, che vinsero la serie contro gli Springboks in Sudafrica nel 1974.

Cominciamo da Olimpiadi e atletica leggera
E ora torniamo all’Europa. Perché questa idea non rimanga una semplice speculazione, bisogna fare qualche proposta concreta. Chiediamoci da quale sport potrebbe essere meglio cominciare, con l’obiettivo di schierare una squadra dell’Unione europea capace di raccogliere la passione di milioni di tifosi europei in vista di un traguardo comune.

Il calcio non è proponibile. Proviamo ad immaginare una Coppa del Mondo senza Germania, Italia, Francia, e Spagna, che mettono insieme 10 vittorie, la metà del totale… Questo toglierebbe ogni interesse alla competizione. Considerazioni simili valgono per altri sport di squadra, ove molti Paesi europei rivestono ruoli di grande rilievo.

Secondo me, una buona scelta potrebbe essere l’atletica leggera. L’atletica è un insieme di molte discipline diverse, ove le nazioni europee hanno diverse eccellenze e la competizione da parte degli altri continenti è forte e largamente distribuita: ad esempio, l’Africa prevale nelle corse di media e lunga distanza, mentre le squadre caraibiche dominano sulle distanze brevi, e i Paesi asiatici sono forti nei concorsi di lancio e getto. Perciò, schierare una singola squadra europea di atletica alle Olimpiadi o ai Campionati mondiali non impoverirebbe troppo le competizioni.

Allo stesso tempo, l’atletica è uno sport molto popolare, praticato in tutti i Paesi europei da migliaia di ragazze e ragazzi fin dalle scuole primarie e secondarie, e quindi l’interesse per questa disciplina è assai diffuso nella società. In questo modo, i Campionati europei potrebbero diventare ancora più interessanti, perché costituirebbero una sorta di selezione per la squadra dell’Unione europea.

Ora, proviamo a immaginare milioni di europei riuniti attorno a milioni di schermi, in piedi di fronte alla bandiera blu che sventola nel cielo, mentre ascoltano l’Inno alla gioia e guardano un’atleta europea con la medaglia d’oro al collo, con gli occhi umidi e un senso di orgoglio per il fatto di essere tutti europei…

E che dire di un quartetto di sprinter provenienti da quattro diverse nazioni europee, che corrono veloci come la squadra guidata da Usain Bolt e che magari alla fine perdono per una manciata di centimetri sul filo di lana, ma sono felicemente consapevoli di aver portato l’Europa sul tetto del mondo…

Sogni da sognare insieme
Sono sicuro - assolutamente sicuro - che cose del genere possono toccare il cuore degli europei molto più in profondità che non il condividere la stessa moneta o anche votare per lo stesso Parlamento. Se vogliamo costruire un’Unione europea della gente e per la gente, dobbiamo avere dei sogni da sognare insieme, dei traguardi comuni per cui sperare, delle emozioni da condividere e ricordare.

Qualcosa di simile è già stato sperimentato con successo nel passato, quando dai tardi anni ’60 fino alla fine del secolo scorso Giochi senza Frontiere ha contribuito in modo rilevante a sviluppare e rafforzare una conoscenza e una comprensione reciproca fra i cittadini europei (9). Ma era una competizione interna. Ora dobbiamo uscire fuori e competere con altri Paesi e altre squadre come una Nazione e una squadra.

In definitiva, non so se la mia proposta specifica sia la migliore e quella più percorribile (l’atletica è solo una delle possibili opzioni, altre potrebbero essere il nuoto, i tuffi, la ginnastica artistica e ritmica, l’equitazione, e così via).

Quello che so e che, se vogliamo che la nostra gente - specialmente le giovani generazioni - si entusiasmi dell’Europa, lo sport deve assolutamente entrare nel quadro generale come uno dei pilastri su cui costruire una vera e sentita identità europea.

(1) Si veda European Heroes. Myth, identity, sport, Ed. P. Lanfranchi, R. Holt, J.A. Mangan (Routledge, 2013), p. 136.
(2) Lo springbok è un’antilope sudafricana, simbolo della nazionale di rugby.
(3) Su questa storia si legga il libro Playing the enemy: Nelson Mandela and the game that made a Nation, J. Carlin (Penguin Press, 2008) e si veda il bellissimo film “Invictus” di Clint Eastwood (2009).
(4) La Ryder Cup, istituita nel 1927, originariamente era disputata tra Gran Bretagna e Stati Uniti. Nel 1979 si decise di includere golfisti dell’Europa continentale, in particolare di Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Spagna e Svezia. Per maggiori informazioni si veda www.rydercup.com. (5) “L’armata del superbo Edoardo, e lo mandò a casa, a ripensarci su”. Per una migliore comprensione delle implicazioni della rivalità tra le due nazioni dentro e fuori dal campo, anche in tempi recenti, si veda l’intrigante libro The grudge, di T. English (Random House UK, 2010).
(6) “Guardate cosa hanno fatto questi bastardi al Galles. Hanno preso il nostro carbone, la nostra acqua, il nostro acciaio. Comprano le nostre case e ci vivono due settimane all’anno. Cosa ci hanno dato? Assolutamente nulla. Siamo stati usati, violentati, controllati e puniti dagli inglesi – ed è contro di loro che giocate oggi pomeriggio”.
(7) “Dalle forti valli di Antrim, dalle aspre colline di Galway, dalle muraglie di Limerick e della Baia di Dublino, dalle quattro fiere province d’Irlanda [… per] rispondere alla chiamata dell’Irlanda”. Ireland’s call è l’inno composto nel 1995 da Phil Coulter per l’Irish Rugby Football Union ed è eseguito quando una nazionale irlandese rappresenta In qualsiasi sport sia la Repubblica d’Irlanda che l’Irlanda del Nord.
(8) Per una lettura completa si veda Behind the Lions: Playing Rugby for the British & Irish Lions, di S. Jones, T. English, N. Cain e D. Barnes (Kindle Edition).
(9) Giochi senza Frontiere è stato uno show televisivo su base europea, nato da un’idea del Presidente francese Charles de Gaulle, trasmesso dal 1965 al 1982 e dal 1988 al 1999.


Carlo Musso è membro del Comitato Esecutivo dell’Istituto Affari Internazionali.

martedì 7 marzo 2017

Ricerca Parametrale n. 516. Notizie del 3 marzo 2017

Oggetto Newsletter : EU60 e difesa, Trump, minacce ibride
Newsletter n° 516 , 3 marzo  2017

Nel primo discorso di fronte al Congresso riunito, Donald Trump
 smorza i toni, ma non rinuncia al suo mantra "America First".
 È però la Russia a farla da protagonista nelle ore immediatamente
 successive, dopo le rivelazioni relative agli incontri, 
in campagna elettorale, fra il neoprocuratore generale
 Jeff Sessions (ai tempi consigliere di Trump) e
 l'ambasciatore di Mosca a Washington. Con
 il fantasma dell'isolazionismo e l'ombra di Putin
 all'orizzonte, come cambieranno le relazioni
 transatlantiche sotto Trump? L'Europa se lo chiede,
 mentre si prepara alle celebrazioni dei 60 anni dei 
Trattati di Roma, il 25 marzo prossimo: un momento
 ri-fondativo per lanciare con decisione una difesa
 Ue, proprio mentre si scopre che l'uscita della
 Gran Bretagna dall'Unione comporta pure l'uscita
 dall'Euratom. 

Minacce ibride
Ue: proposta riforma Regolamento Dual Use
Manuel Venuti
01/03/2017
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Negli ultimi anni la situazione della sicurezza nell'Unione europea, Ue è cambiata radicalmente. Le grandi sfide alla pace e alla stabilità nel vicinato orientale e meridionale dell'Ue continuano a mettere in evidenza la necessità, per l'Unione, di adattare e aumentare le sue capacità come garante della sicurezza, mettendo fortemente l'accento sulla stretta relazione fra la sicurezza esterna ed interna.

Le principali preoccupazioni dei Paesi occidentali, sulla falsariga dello scenario bipolare della guerra fredda, sono oggi volte soprattutto ad impedire che attori non statali abbiano accesso a materiali sensibili.

Assistiamo, inoltre, a un assottigliamento sempre maggiore tra il settore civile e quello della difesa, che sta modificando la storica dinamica top-down, dove il top era rappresentato da un settore della difesa trainante, trasformandolo in un flusso ormai circolare, se non addirittura bottom-up.

Questo insieme di mutamenti soggettivi ed oggettivi, che interessano, cioè, sia l’identità dei soggetti nei confronti dei quali limitare il trasferimento del know-how tecnologico e dei beni sensibili, sia la forma in cui tale know-how si manifesta, ha portato la Commissione europea a elaborare una proposta di riforma del Regolamento 428/2009 rientrante tra le iniziative dell'Ue intese a contrastare le minacce ibride.

Il 28 settembre 2016, infatti, è stata pubblicata una proposta per la modernizzazione del suddetto regolamento, risalente ormai al 5 maggio 2009 e che ha istituito il regime comunitario di controllo delle esportazioni, del trasferimento, dell’intermediazione e del transito di prodotti a duplice uso ancora oggi in vigore.

Cyber security e diritti umani
Una tra le principali novità proposte riguarda l’introduzione del concetto della “prevenzione degli abusi dei sistemi digitali di sorveglianza e antintrusione, che danno adito a violazioni dei diritti umani". Una tale dimensione di sicurezza ha lo scopo di legittimare l’estensione del controllo delle esportazioni sulle diverse tecnologie di cyber-sorveglianza che potrebbero essere utilizzate, da una parte per commettere serie violazioni dei diritti umani da Paesi terzi, dall’altra per sferrare attacchi informatici nei confronti dell’Ue.

L’introduzione di una novità che mira ad ampliare lo spettro di azione della normativa ci costringe a una riflessione sulla dinamica estremamente complessa, e sempre attuale nel settore industriale, relativa al necessario bilanciamento che deve essere tenuto in considerazione tra sicurezza - interna ed esterna appunto - e competitività dei comparti della Difesa e dell’Aerospazio (principalmente ma non solo).

Il solito dilemma: sicurezza o competitività?
Nonostante la Commissione cerchi di “tranquillizzare” gli esportatori, assicurando che i nuovi controlli saranno appositamente concepiti per garantire che l'effetto economico negativo sia strettamente limitato e incida solo su un volume molto esiguo di scambi, il rischio che la prassi futura provochi un aumento dell’alea di incertezza, già ampiamente denunciata dal mercato dei beni dual-use, è estremamente concreto.

Per far fronte a queste contrapposte esigenze, la chiave che sta cercando di utilizzare la Commissione è quella di differenziare il livello dei controlli, concentrando quelli più stringenti sulle transazioni più “sensibili”, identificandole attraverso i criteri della tipologia di materiale, tipologia di transazione, Paese e utilizzatore finale.

La strada del diritto doganale 
Una interessante ulteriore spinta per la competitività, potrebbe presentarsi nel caso in cui gli studi portati avanti dal Gruppo di Coordinamento sui prodotti a Duplice Uso, il così detto Gdcu, concretizzasse l’attività del sottogruppo tecnico misto (con le autorità doganali), che ha esaminato la potenziale convergenza tra i programmi doganali degli "operatori economici autorizzati" (Aeo, da Authorized Economic Operator) e i "programmi di conformità interna" dei controlli delle esportazioni (meglio conosciuti con l’acronimo Pci).

Nel momento in cui l’affidabilità a livello doganale, attraverso l’istituto dell’Aeo, fosse eletto come metro di giudizio utilizzato per il riconoscimento dei Pci, non solo le grandi società potrebbero riuscire ad aumentare il livello della loro competitività, ma ne trarrebbero ampi benefici anche e soprattutto le piccole e medie imprese, tessuto economico tipico del panorama nostrano.

Manuel Venuti è consulente pianificazione fiscale e doganale per l’internazionalizzazione delle aziende. Doganalista Senior Consultant presso lo Studio Legale Tributario di EY.