ALBO D'ORO NAZIONALE DEI DECORATI ITALIANI E STRANIERI DAL 1792 AD OGGI - SITUAZIONE

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mercoledì 29 dicembre 2010

A tutti i lettori di questo blog
I più sinceri auguri
di un sereno e di un prospero
2011

giovedì 9 dicembre 2010

Da Affari Internazionali
Roberto Toscano valuta l’impatto politico delle recenti iniziative di Wikileaks, sottolineandone le ripercussioni negative non solo per la diplomazia americana, ma anche per i meccanismi di governo delle relazioni internazionali. Sono fondate le preoccupazioni dell’amministrazione americana per la cooperazione tra Italia e Russia in campo energetico, che emergono anche dalle “rivelazioni” di Wikileaks? Ne discute Nicolò Sartori alla luce delle scelte strategiche compiute dal nostro paese negli ultimi anni. Alberto Clò illustra i motivi a favore del ritorno della tecnologia nucleare in Italia, ma anche gli ostacoli che vi si frappongono e che hanno già prodotto brucianti delusioni negli ultimi decenni.Al Consiglio europeo di metà dicembre si discuterà della riforma del patto di stabilità e la Germania, nota Silvio Fagiolo, sta sempre più dettando l’agenda dell’integrazione europea, contribuendo a definire una nuova gerarchia all’interno dell’Ue. Il superamento dell’emergenza rifiuti in Campania passa per il rispetto delle regole europee e per lo sblocco dei finanziamenti dell’Ue. Monica Frassoni indica cinque condizioni per risolvere in modo strutturale il problema dello smaltimento dei rifiuti nella regione.Dopo il recente attacco della Corea del Nord alla Corea del Sud, Giovanni Andornino valuta le prospettive del rapporto tra i due paesi, con particolare attenzione al ruolo di Washington e Pechino negli equilibri regionali. Inoltre su AffarInternazionali: la Tuchia è sempre più al centro delle rotte che trasportano il gas dall’Asia all’Europa. Alessandra Russo pone l’accento sulla crescente competizione internazionale per la gestione e realizzazione degli impianti energetici. Libro del mese: Luca Einaudi recensisce l’Architettura del mondo nuovo: governance economica e sistema multipolare, di Paolo Guerrieri e Domenico LombardiAffarInternazionali è anche su Twitter. Iscriviti

lunedì 20 settembre 2010

E' uscito il volume:
L'investimento e la presa di Ancona
La conclusione della campagna di annessione delle marche
20 settembre - 8 ottobre 1860
di
Massmo Coltrinari

278 pagine, ill., 20,00, Edizioni Nuova Cultura
è reperibile presso tutte le Librerie d'Italia,
In Ancona, presso la Libreria Canonici, Corso Garibaldi 112
per ordini diretti: ordini@nuovacultura.it, oppure risorgimento23@libero.it

Il volume riporta la presentazione del Sindaco di Ancona,
Prof. Fiorello Gramillano

domenica 29 agosto 2010

E' uscito il n. 4 della Rivista "Il Secondo Risorgimento"
Per richiederlo, inviare una e mail a:
risorgimento23@libero.it
La rivista è on line su www.secondorisorgimemto.it all'indirizzo entra/rivista/indici

lunedì 19 luglio 2010

AMMAESTRAMENTI DELLA BATTAGLIA DI CANNE

SITUAZIONE GENERALE

Al termine della prima guerra punica (264 – 241 a.C.), i confini della zona controllata da Roma coincidevano all’incirca con quelli dell’Italia attuale, tranne la Sardegna e il Trentino Alto Adige. La guerra appena conclusa si era combattuta in Sicilia, in Africa e nel mar Mediterraneo. I romani si erano impadroniti della Sicilia, avevano conquistato la superiorità navale e avevano imposto dure condizioni di pace ai cartaginesi, tra cui onerosi danni di guerra da pagarsi in argento (3.200 lingotti da 25 chili, detti “talenti”) e lo smantellamento pressoché completo della flotta da guerra.
La crisi economica a Cartagine al termine del conflitto era tanto grave che non potendo pagare il soldo arretrato ai mercenari la città dovette fronteggiare una rivolta armata di questi ultimi. Roma ne approfittò e si impadronì della Sardegna che annetté come provincia, i cartaginesi non avendo al momento la forza di reagire, incassarono mestamente il colpo e dedicarono le proprie energie a sedare la rivolta. Amilcare Barca, il più capace ed esperto Generale cartaginese, dopo aver avuto finalmente ragione dei mercenari, propose alla riottosa oligarchia cartaginese di rinunciare ai propri propositi di espandersi in Africa e di rivolgersi piuttosto alla Spagna, i cui giacimenti d’argento avrebbero consentito di pagare i danni di guerra ai romani senza gravare oltremodo sulla stremata economia punica. Ottenuto il consenso del senato ai propri propositi, costui armò un esercito e nel 237 a.C. si spostò in Spagna a Cadice, una base cartaginese, da cui cominciò la conquista della penisola. Con sé Amilcare aveva portato il figlio Annibale, che all’epoca aveva solo nove anni, secondo Polibio [1] il bimbo giurò al padre sull’altare del Dio Baal eterno odio ai romani, questa era la condizione imposta dal genitore per assentire alla sua partecipazione alla spedizione.
Amilcare, approfittando della divisione dei popoli autoctoni della penisola iberica riuscì ad allargare velocemente la sfera di influenza punica, i romani ne furono allarmati e nel 231 a.C. inviarono una delegazione diplomatica a Cartagine, al fine di chiarire le intenzioni dalla città rivale. I cartaginesi riuscirono a persuadere i capitolini delle loro migliori intenzioni di onorare il debito di guerra con Roma utilizzando le risorse minerarie spagnole e furono liberi di proseguire la loro campagna indisturbati. Nel 229 a.C. Amilcare morì affogato guadando un fiume, essendo Annibale troppo giovane, il comando passò a Asdrubale il Bello, marito della sorella di Annibale, che proseguì l’opera iniziata da suo suocero, finché non finì per attirare l’attenzione dei romani, che nel 226 a.C. inviarono una nuova delegazione a chiarire la situazione. In esito agli incontri diplomatici fu stipulato un accordo tra Roma e Cartagine: Roma avrebbe avuto una zona di influenza in Spagna a Nord del fiume Ebro, i Cartaginesi a Sud. Per i romani questa soluzione garantiva la protezione della città di Marsiglia, alleata di Roma, ma lasciava in zona di influenza punica Sagunto, amica di Roma. Il problema tuttavia non si pose immediatamente, intanto nel 221 a.C. Asdrubale il bello fu ucciso in una sedizione e l’esercito cartaginese nominò suo nuovo comandante il venticinquenne Annibale Barca ormai divenuto un esperto generale.
Nel 220 a.C. alcuni alleati dei cartaginesi iniziarono una contesa con i saguntini, Annibale venne in soccorso delle popolazioni amiche, ponendo l’assedio a Sagunto. I romani di rimando inviarono una ambasceria guidata dal senatore Quinto Fabio Massimo, un accorto stratega, per porre un ultimatum ai cartaginesi, che venne tuttavia reso inutile dal precipitare degli eventi: Annibale marciava già verso i territori romani, reclutando ampie formazioni di fanteria mercenaria celtibera, lusitana, e gallica. Il generale cartaginese aveva intenzione di giocare la partita contro i romani sul loro territorio, devastando l’Italia e minando il sistema di alleanze capitolino. In particolare Annibale partendo nel 218 a.C. da Cartagena evitò il tardivo esercito romano di soccorso per Sagunto (che intanto era caduta), lasciò un contingente di presidio al fratello Asdrubale, valicò le Alpi infestate di tribù montanare ostili e giunse nella Pianura Padana con 6.000 cavalieri e 30.000 fanti.
Il primo scontro con i romani fu al fiume Ticino e si risolse a favore di Annibale. Il console romano Scipione quasi rimase ucciso nei combattimenti se non fosse stato per l’intervento del giovane figlio, (che sarebbe in seguito stato chiamato “l’Africano”). I romani di Scipione si fortificarono a Piacenza e quando giunse l’esercito dell’altro console in carica, Tiberio Sempronio, si risolsero ad affrontare nuovamente i cartaginesi al fiume Trebbia con due eserciti consolari, pari a 8 legioni (4 romane e 4 alleate), ma anche stavolta i cartaginesi prevalsero. A questo punto i romani si ritirarono nuovamente a Piacenza per riorganizzarsi rompendo il contatto con Annibale.
I cartaginesi riuscirono a valicare occultamente gli Appennini a Passo Collina verso Pistoia[2], nella primavera dl 217 a.C. e si diressero verso l’Etruria. I consoli in carica nell’anno erano Caio Flaminio e Gneo Sulpicio. Nel mese di giugno Caio Flaminio, nell’intento di difendere l’Etruria si mosse con il grosso delle truppe di fanteria legionaria dei due eserciti consolari riuniti verso il Trasimeno, a distanza rimaneva Gneo Sulpicio con la cavalleria. Annibale sorprese i romani in marcia di trasferimento e circondatoli tra il lago e le truppe puniche nascoste sulle adiacenti colline ne fece strage, caddero 12.000 romani e lo stesso console Caio Flaminio. L’impressione della sconfitta a Roma fu grande, il Senato si affrettò a nominare l’aristocratico Quinto Fabio Massimo dittatore[3], costui appartenente ad una famiglia di grandi tradizioni militari, era deciso a fiaccare i cartaginesi con una accorta strategia di logoramento, sfruttando la lontananza delle basi cartaginesi dalle truppe di Annibale. Proprio il problema logistico spinse in effetti il generale cartaginese ad evitare di assediare Roma e a rivolgersi al saccheggio della fertile Campania. Quinto Fabio Massimo per proteggere l’urbe fece fortificare la strettoia dell’Appia a Terracina[4] e si mosse in modo occulto con un contingente fino Capua per prendere alle spalle i cartaginesi e bloccarli in Campania tra i monti che circondavano la colonia romana di Cales (Calvi) e il fiume Volturno.
Annibale si rese conto del pericolo e decise di sottrarsi alla morsa con uno stratagemma, fece legare durante la notte alle corna di migliaia dei bufali africani che aveva al seguito delle torce accese e li fece sospingere verso i romani, mentre tutto il suo esercito alleggerito delle salmerie sfilava occultamente dal cerchio che i capitolini stavano per chiudere. Quando i romani al mattino si disposero in ordine di combattimento si trovarono di fronte migliaia di bufali e frustrati dall’inganno provvidero a catturarli e distribuirli come riparazione ai coloni romani che avevano subito il saccheggio dei cartaginesi.


SITUAZIONE PARTICOLARE E PROCEDIMENTI TATTICI

Annibale, sprovvisto a questo punto di adeguate salmerie e tallonato dai romani, decise di muovere verso la Puglia lungo l’Appia in direzione della città di Lucera al fine di raggiungere dei grossi depositi di cereali situati nella prossimità dell’abitato di Canne. L’esercito cartaginese (50.000 uomini circa) era afflitto da discordie tra i mercenari, che non essendo stati pagati minacciavano la rivolta, di fronte a questo rischio di implosione del proprio esercito, Annibale era indeciso se fuggire con la cavalleria in Spagna lasciando la fanteria al proprio destino o liquidare con un colpo di mano tutti i mercenari.
Dal canto proprio il Senato, rincuorato dalla manovra di sganciamento di Annibale, che si andava allontanando da Roma, decise di non rinnovare la dittatura di Quinto Fabio Massimo, che era ritenuto troppo prudente, questi pertanto a marzo del 216 a.C. decadde dalla carica. La nuova strategia del senato fu di radunare i due eserciti consolari reclutati nel 217 con i due eserciti consolari appena reclutati del 216 a.C. mettendo insieme per la prima volta nella storia di Roma 4 eserciti consolari, una armata di 16 legioni (8 romane e 8 alleate) per un totale di 85.000 uomini. I due consoli designati per il 216 a. C. furono l’aristocratico Emilio Paolo e il popolare Terenzio Varrone[5], che riunirono i loro eserciti con quelli dei colleghi Gneo Sulpicio (il console sopravvissuto al Trasimeno) e Marco Minucio ex comandante dell’arma di cavalleria eletto in sostituzione del defunto Caio Flaminio. Emilio Paolo, discepolo di Quinto Fabio Massimo era contrario ad ingaggiare una battaglia campale con i cartaginesi, mentre il collega Varrone desiderava eseguire immediatamente l’ordine del Senato di annientare l’esercito di Annibale in uno scontro decisivo.
Anche Annibale, angosciato dal rischio di una rivolta dei mercenari aveva fretta di arrivare ad uno scontro prima che il proprio esercito multinazionale finisse per sfaldarsi. Seppure se in inferiorità numerica ed eterogenea, l’armata punica aveva sui romani il vantaggio dell’unicità di comando, i generali cartaginesi erano infatti quasi tutti membri della famiglia Barca, Asdrubale e Magone erano fratelli di Annibale, Annone ne era il nipote e Maarbale un fraterno amico e compagno d’armi. Le truppe cartaginesi di fanteria erano composte da opliti pesanti cartaginesi, (le fanterie più solide), ausiliari africani ed iberici (truppe flessibili e veloci), fanteria leggera numida (schermigliatori armati di giavellotti corrispondenti ai veliti romani), frombolieri delle Baleari (lanciatori di sassi molto efficaci e precisi) e un cospicuo numero di mercenari celti di varie origini (per lo più celtiberi, lusitani, galli, liguri e veneti). I mercenari celti avevano una tecnica di combattimento d’urto efficace in episodi brevi e molto intensi, in gruppi molto densi e aggressivi tentavano uno sfondamento della linea nemica[6], che se falliva si tramutava inevitabilmente in una rotta disordinata.
Per questa ragione lo schieramento classico dell’età antica era organizzato su più linee, le meno pesanti e affidabili davanti e quelle più solide e affidabili più indietro, per esempio in quest’ordine: fanteria leggera e frombolieri sulla fronte, poi mercenari e ausiliari nel mezzo , fanteria oplitica e veterani sul fondo dello schieramento. Il ruolo della cavalleria era normalmente quello di proteggere i fianchi della fanteria ingaggiando la controparte avversaria e di inseguire il nemico in rotta. A Canne Annibale disponeva di una formazione di cavalleria pesante iberica e celtica (da sfondamento) molto superiore a quella romana e di numerosi cavalieri leggeri numidi (da accompagnamento e schermaglia), la soluzione classica sarebbe stata di costituire due ali composte sia da aliquote pesanti che leggere. Tuttavia in questa situazione contingente Annibale si trovava a fronteggiare un numero quasi doppio di romani pertanto per coprire tutta la fronte fu portato a cercare soluzioni tattiche alternative e rivoluzionarie che già il padre Amilcare aveva con successo testato contro le falangi di Pirro in Sicilia intorno al 280 a.C., (prima della prima guerra punica, quando Cartagine era ancora amica e alleata di Roma). Annibale si risolse pertanto a schierare il suo esercito in una unica linea con le truppe più flessibili al centro e quelle più solide sui lati e a tentare una inedita manovra di cessione preordinata di terreno al centro del proprio schieramento (a cura dei mercenari). Ciò al fine triplice di avvolgere le legioni romane, incanalarle per scompaginarne l’allineamento e infine ridurre gli spazi necessari alla rotazione dei manipoli (che costituiva l’espediente tattico vincente dei capitolini) per l’effetto provocato dalla pressione convergente dei romani al centro della linea cartaginese nel tentativo di spezzarne la continuità.
La legione romana tipo che prese parte alla battaglia di Canne era del tipo “manipolare” o “polibiana” dal nome dello storico greco che la descrisse, ed era composta da 4 linee ognuna articolata su 10 manipoli per un totale di 4.200 legionari e 300 cavalieri [7].
La prima linea, era costituita dai citati veliti, la fanteria leggera, un manipolo di veliti era composto da 120 uomini armati di scudo tondo e giavellotto, il ruolo dei veliti era quello di nascondere l’articolazione delle linee posteriori, provocare battaglia e fornire auspici sull’andamento futuro del combattimento.
La seconda linea era costituita dagli hastati, i legionari più giovani, che costituivano una linea di fanteria media, il manipolo di hastati era composto da 120 legionari armati di scudo ovale, pettorale di bronzo, elmo, giavellotti e gladio.
La terza linea era costituita dai princeps, legionari di media età, che costituivano una linea di fanteria media, con equipaggiamento simile o poco più pesante di quello degli hastati, il manipolo degli princeps era composto da 120 legionari.
L’ultima linea era composta dai triari, legionari anziani e veterani, che costituivano la linea di fanteria pesante, i manipoli di triari erano composti di soli 60 uomini, e l’equipaggiamento differiva per la foggia dell’elmo di tipo greco, lunghe lance in funzione di contrasto alle cariche di cavalleria e una corazza di maglia.
La manovra della legione manipolare prevedeva una formazione a scacchiera, i veliti trafilavano a comando negli spazi delle diverse linee e si ponevano sul tergo dei triari, i manipoli di hastati si dividevano in due aliquote ognuno e formavano una linea continua di legione, occupando i corridoi attraverso cui erano trafilati i veliti. A questo punto avveniva il contatto con il nemico. I legionari dopo alcuni minuti di combattimento venivano avvicendati dai colleghi nelle file posteriori dello stesso manipolo con una manovra detta “mutatio” al fine di anteporre al nemico sempre soldati freschi. Nelle battaglie antiche fisiologicamente, per la stanchezza, dopo alcune decine di minuti veniva rotto il contatto tra le opposte linee, durante queste pause, a comando, i romani effettuavano la rotazione dei manipoli degli hastati, che si raggruppavano riformando i corridoi e si avvicendavano con i manipoli di princeps retrostanti, replicando in grande la “mutatio” tra le diverse linee della legione.[8]
In taluni casi, soprattutto di fronte al pericolo di cariche di cavalleria particolarmente dense e pesanti la legione dopo il trafilamento dei veliti, poteva semplicemente far avanzare i manipoli dei princeps tra i manipoli degli hastati riproponendo una formazione particolarmente profonda che ricordava la precedente legione “falangitica”, che tuttavia era troppo rigida e che non consentiva il funzionamento del sistema di rotazione che costituiva la forza delle legioni manipolari. La rotazione era un momento delicato per la legione e veniva ordinato dai comandanti tramite le buccine, delle tube bronzee che davano l’incipit alla manovra, che, come detto, non era possibile se non venivano rispettati gli spazi tra i manipoli.
La cavalleria romana di una legione era di solo 300 cavalieri, divisi in due unità di 150 cavalieri ciascuna, il ruolo della cavalleria era di mera protezione dei fianchi della legione e di inseguimento del nemico in rotta.
2 legioni romane e 2 legioni alleate (italiche, dette ali) costituivano un esercito consolare, i consoli contribuivano di tasca loro all’equipaggiamento delle legioni che reclutavano, pertanto esisteva un legame diretto e personale tra il console e le legioni, a Canne come citato c’erano 4 eserciti consolari e i loro comandanti, i consoli, volevano ovviamente una parte della gloria partecipando in prima fila nello scontro decisivo. Per queste ragioni a Canne si giunse al paradosso dello schieramento romano, si scelse di schierare le legioni di fronte non nel modo consueto, 10 manipoli per linea, ma con soli 3 manipoli di fronte, rendendole molto profonde, in modo che ognuna delle 16 legioni avesse le proprie insegne in faccia al nemico[9]. Questa scelta fu fatale, perché l’ordine di rotazione con le tube veniva lanciato contemporaneamente da tutte le legioni provocando un prevedibilissimo caos e gravi problemi di sincronia. Un disallineamento tra legioni avrebbe potuto creare pericolosi varchi o la riduzione dei corridoi di mobilità, come effettivamente avvenne, trasformando la più grande macchina militare mai messa insieme dai romani in una falange informe di 55.000 legionari disorientati e incapaci di contro manovrare. Gli eserciti consolari riuniti schierati in modo classico (8 legioni in primo scaglione e 8 in secondo scaglione), avrebbero coperto una fronte doppia a quella dell’esercito di Annibale disposto in una unica linea. Forse i romani cedettero che questo inedito tipo di formazione avrebbe compensato la mancanza dei addestramento delle legioni appena reclutate, fatto sta che non essendo mai stato provata prima non se ne potevano conoscere gli effetti. Proprio di fronte al genio di Annibale i romani tentarono una improvvida innovazione che si ritorse a loro svantaggio.[10]
Il 2 agosto 216 a.C. era il giorno in cui ricadeva il turno di comando di Varrone, venne da questi dato l’ordine di schieramento per la battaglia e all’alba i legionari cominciarono a lasciare gli accampamenti. I romani si trovarono presto in difficoltà a causa del vento incanalato al mattino nella valle del fiume Ofanto che era loro contrario e per la polvere sollevata da una tale massa di persone in marcia che limitava la visibilità, inoltre la calura di agosto cominciava a farsi sentire aggravando il disagio di dover trasportare una ventina di chili di equipaggiamento. La medesima calura disturbava anche i celti e meno le fanterie africane, più abituate al sole cocente.
Il console Emilio Paolo assunse il comando della cavalleria romana (2.400) sulla destra dello schieramento, trovando posto di fronte alla soverchiante cavalleria pesante cartaginese (6.500) tutta concentrata al comando del Generale Asdrubale, nel mezzo tra l’enorme massa delle legioni e il fiume Ofanto. Alle spalle dei cavalieri romani il fiume formava una pericolosa ansa che in sistema con l’accampamento romano costituiva una vera e propria barriera.
Il console Varrone assunse il comando della cavalleria alleata (3.600), che venne a trovarsi a sinistra delle legioni di fronte alla cavalleria numida (3.500), posta al comando di Annone.
I vice consoli Marco Minucio e Gneo Servilio, con le loro legioni più anziane si misero al centro della formazione romana. Di fronte a loro, oltre la linea dei veliti e quella contrapposta della fanteria leggera numida, al centro, erano i mercenari celti di Annibale in linea convessa, ai loro lati, sia a destra che a sinistra le fanterie iberiche. Il centro cartaginese era sotto il comando diretto di Annibale e di Magone, che dovevano coordinare la manovra di cessione preordinata di terreno da parte dei mercenari senza che questi si volgessero ad una rotta incontrollata. Oltre le fanterie iberiche a destra, come a sinistra, trovavano posto le fanterie pesante oplitiche cartaginesi, i veri perni della manovra. Oltre gli opliti, l’estremità della formazione di fanteria da entrambi i lati era rappresentata da due ali fanteria ausiliaria africana, il cui compito era quello di manovrare per prendere le legioni sui fianchi.

LA BATTAGLIA

1^ fase: All’ordine di avanzare delle legioni, i veliti ingaggiano la fanteria leggera numida, le opposte cavallerie si scontrano. La cavalleria pesante punica travolge la cavalleria romana di Emilio Paolo, che trova rifugio tra le legioni, la cavalleria romana viene inseguita e schiacciata tra la menzionata ansa del fiume Ofanto e l’accampamento romano e annientata. Alla sinistra delle legioni, Varrone con la cavalleria alleata ingaggia lo scontro con l’opposta cavalleria leggera numida. I veliti si disingaggiano e trafilarono tra le linee delle legioni, la medesima manovra è compiuta dalla fanteria numida.
2^fase: Le legioni impattano contro il vertice della formazione convessa dei mercenari respingendola progressivamente e schiacciandola fino a renderla prima una linea retta e poi a renderla concava, così facendo tuttavia le legioni formano un cuneo scomposto che fa saltare gli allineamenti e ridurre la larghezza dei corridoi di mobilità. L’ordine non fu strettamente preservato a causa dell’illusione di essere ormai sul punto di rompere l’ordine nemico e la continuità della sua linea. La cavalleria pesante di Asdrubale, ultimato l’annientamento della cavalleria romana avvolge la formazione delle legioni e carica la cavalleria alleata di Varrone all’estremità opposta del capo di battaglia volgendola in fuga unitamente alla cavalleria leggera numida.
3^ fase : Le legioni centrali sfondano il centro cartaginese, trafilano in parte inseguendo i mercenari. La cavalleria pesante carica alle spalle i veliti sul tergo delle legioni. Le colonne di fanteria ausiliaria africana avanzano manovrano e attaccano i fianchi delle legioni.
4^ fase : Il cerchio intorno alle legioni si richiude e inizia il massacro dei legionari, che pressati gli uni agli altri, accecati dalla polvere, spossati dal sole e disorientati non riescono a riprendere l’iniziativa. I romani riusciti a forzare la linea cartaginese trovano rifugio negli accampamenti, Varrone si ritira e Venosa con i resti della cavalleria. I romani lasciano sul campo il console Emilio Paolo, il vice console Gneo Sulpicio, e 45.000 legionari, in poche parole è possibile affermare che quasi la metà delle truppe capitoline furono annientate in un colpo solo[11]. Per dare dimensione dell’evento si tenga presente che all’epoca l’Italia era abitata da circa 7.000.000 di persone contro i quasi 60.000.000 di oggi e che, per assistere ad un massacro simile in un giorno solo nel vecchio continente, si dovrà attendere l’offensiva della Somme del 1916 sul fronte francese, più di 2.100 anni più tardi.

CONCLUSIONI

Per secoli la battaglia di Canne è stata considerata l’esempio più rappresentativo del primato del genio militare sulla soverchiante forza bruta. Tuttavia Annibale non sfruttò il successo avanzando su Roma, dando così il tempo ai tenaci capitolini di riformare nuovi eserciti consolari, per fattori tangibili e intangibili quali la maggiore vicinanza delle loro aree di reclutamento e la maggiore percezione di urgenza a cui erano sottoposti rispetto ai “cives” cartaginesi per il timore dell’annientamento incombente. La strategia di Quinto Fabio Massimo quindi venne ripresa e la minaccia venne portata dalle legioni di Scipione l’Africano direttamente sul territorio africano, costringendo il senato cartaginese a richiamare Annibale dall’Italia, fino all’ annientamento dei cartaginesi a Zama (202 a.C.).
Comprendere la battaglia di Canne significa, anche ai giorni nostri, comprendere e riconoscere l’importanza dei principi fondanti dell’arte militare, quali l’unicità di comando, l’armonia e il ritmo della manovra, l’economia delle forze, il corretto sfruttamento della dimensione spaziale e temporale, nonché la conoscenza delle caratteristiche del nemico e del terreno di scontro. Per citare il Generale Mini in una sua recente conferenza allo IASD, i romani non si resero conto che un numero eccessivo di soldati in una formazione così compatta avrebbe trasformato formazioni nate per essere snelle e manovriere quali le legioni in una massa confusa e ingovernabile, realizzando un “eccesso di potenza”, tale da farle collassare sotto il loro stesso peso.

Carlo PASQUI

[1] Polibio, “Le Storie”, III libro, capitolo 11.
[2] Andrea Frediani, “Le grandi battaglie di Roma antica”, Newton and Compton, Roma 2002.
[3] La carica durava sei mesi.
[4] Per la fretta i legionari romani costruirono la fortezza nei pressi del tempio di Giove Anxur con sassi non squadrati e malta, fu questo il primo esempio di opus incertus nella storia dell’architettura romana.
[5] Le leggi Sestie del 367 a.C. prevedevano che i consoli fossero uno aristocratico e uno popolare per questioni di bilanciamento di poteri tra patrizi e plebei e che comandassero a giorni alterni. Spesso costoro erano in disaccordo, tendenzialmente i consoli di estrazione popolare erano più aggressivi e meno preparati militarmente. I consoli dell’anno precedente, decaduti dalla carica, fungevano da vice consoli a quelli dell’anno in corso.
[6] Nelle battaglie antiche la rottura del fronte era considerato un evento catastrofico, chi la subiva normalmente era considerato sconfitto e abbandonava il campo.
[7] Adrian Goldsworthy, “Storia completa dell’Esercito Romano”, edizioni logos, Modena 2004.
[8] Edoardo Scala, Storia delle fanterie italiane, volume I, “Le fanterie di Roma”, Ufficio Storico, Roma 1950.
[9] Gregory Daly, “La battaglia di Canne”, Le Guerre, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2008.
[10] Massimo Bocchiola e Marco Sartori, “Canne, descrizione di una battaglia”, Scie Mondatori, Milano 2008.
[11] L’intera armata romana assommava, prima di Canne, a 20 legioni romane e 20 alleate di cui molte incomplete e a bassa prontezza, divise tra la Sicilia, la Spagna e la guarnigione di Roma.

venerdì 26 marzo 2010

Seminario di Studi La Calda estate del 1943
Chiancian 20-21 marzo 2010
Sono state poste le basi per una nuova “scuola” di storici non ideologizzati con i quali sarà possibile riscrivere, ma in alcuni casi scrivere per la prima volta, gli eventi di uno dei periodi più tragici per l’Italia, quello legato alle vicende armistiziali dell’8 Settembre 1943, alle scelte che vennero individualmente o in gruppo fatte dai singoli, militari o civili che fossero, delle conseguenze di tali scelte, spesso imposte dal contingente, che sfociarono in tragedie ancora poco note o addirittura ignorate se si esclude i pochi super informati addetti ai lavori.
L’occasione è stata data da un seminario di studi della durata di due giorni che si è svolto a Chianciano nell’ambito del Consiglio Nazionale dell’Associazione Nazionale Combattenti della Guerra di Liberazione inquadrati nei Reparti regolari delle Forze Armate (Ancfargl) che ha sancito la nascita di una nuova sezione specialistica denominata “Studiosi e cultori della materia” alla quale saranno ammessi, dopo un periodo di prova biennale, studiosi avviati o giovani promettenti leve impegnati in dottorati di ricerca su materie attinenti la Guerra di Liberazione. L’iniziativa fa seguito alla creazione da parte dell’organo associativo, la rivista “il Secondo Risorgimento d’Italia” scaricabile dalla pagina web http://www.secondorisorgimento.it/rivista/sommari/quadrosommari.htm, di una collana di volumi, di cui il sesto della serie “Salvare il salvabile” ha costituito il filo conduttore del seminario nonostante esso sia ancora in fase avanzata di pubblicazione, ma ancora in bozze di stampa e non in libreria.
La tesi sostenuta dal volume è fortemente innovativa, se pure non originale in assoluto come ipotesi, comunque sotto il profilo del “quadro indiziario” di fonti documentali ad essa convergenti appare articolata e ben argomentata, come mai in precedenza, nel delineare uno scenario in cui una fazione, se non il vertice politico militare del tempo nel suo complesso, aveva intrapreso le trattative armistiziali con il fine ultimo di adescare, in perfetto accordo con la Germania ancora alleata, gli angloamericani in una trappola, in un inganno strategico volto a sfruttare le informazioni scambiate in sede di trattative per ributtarli in mare e magari riconquistare la Sicilia che Hitler il 19 luglio a Feltre aveva descritto come la futura Stanlingrado della coalizione nemica.
Il piano ipotizzato nel volume di prossima pubblicazione e commercializzazione non avrebbe però funzionato all’atto pratico per il crollo del fronte interno che il regime aveva sottovalutato, nonostante a seguito dell’avvicendamento di Mussolini con Badoglio il 25 luglio avesse dovuto ricorrere al metodo del bastone (forti misure di ordine pubblico) e della carota, proclamando la caduta del fascismo, sia pure con l’instaurazione di un governo militare e non della democrazia pre regime.
Ai giovani studiosi (età media 30 anni) che hanno partecipato al seminario il direttore e coordinatore Massimo Coltrinari aveva solo fornito uno spunto di approfondimento, senza neppure fare loro leggere, per non influenzarli, il relativo capitolo del volume “Salvare il salvabile”. Il risultato delle loro ricerche è stato sorprendente, in particolare per quanto riguarda una delle argomentazioni a sostegno della tesi di “inganno strategico” secondo la quale la cosiddetta “fuga da Roma” fu un semplice trasferimento a Chieti, dove nel requisito Palazzo Mezzanotte si era cominciato a mettere in piedi una sorta di comando supremo prima che gli eventi, sfuggiti di mano, portassero ad un cambio di programma e l’imbarco sulla corvetta “Baionetta” per fare rotta verso Brindisi e formalizzare quella resa, che avrebbe dovuto invece, secondo l’ipotesi del libro, fungere da specchietto per le allodole. Numerosi gli elementi aggiuntivi frutto di una ricerca condotta in loco, rispetto quelli già riportati in “Salvare il salvabile”, nel senso del potere e delle istituzioni del tempo.
Perora non possiamo dire di più, se non che, in particolare le relazioni relative ai reparti italiani impiegati all’Estero e colti dall’armistizio oltremare, hanno disegnato uno scenario che è difficile immaginare.
Nel congedarci, Massimo Coltrinari ci informa che una analoga due giorni di più ampio respiro si terrà a Roma il 9 e 10 aprile prossimi. Non dispera in quei giorni di avere in mano le prime copie definitive del libro.
Giorgio Prinzi

martedì 19 gennaio 2010

LA STRUTTURA E LA MISSIONE
DEI LIAISON AND OBSERVATION TEAM IN BOSNIA-ERZEGOVINA
Alessandro Fabretti

1. Introduzione
Le nostre Forze Armate sono chiamate sempre più spesso ad operare al di fuori dei confini nazionali nell’ambito delle cosiddette Crisis Response Operations per il mantenimento della pace ed in supporto di quei paesi dove è in atto un processo di stabilizzazione dopo un conflitto. Tuttavia la diversità degli attuali scenari e la complessità delle situazioni post-conflict da gestire richiedono la necessità di dotarsi di strumenti adeguati per operare nei vari contesti operativi, cercando di massimizzare i risultati e razionalizzare le risorse.
Ed è per queste ragioni che le operazioni militari condotte in Bosnia-Erzegovina, nel perseguire l’efficacia dello strumento militare, si sono dotate di un tipo di assetto molto particolare, sviluppatosi ed evolutosi proprio nel teatro bosniaco.
In Bosnia-Erzegovina, dall’aprile del 2004, operano delle unità di osservazione e collegamento che prendono il nome di liaison and observation teams, la cui peculiarità è rappresentata dalla struttura e dai compiti che svolgono nel teatro d’operazione. Anche l’ubicazione di questi team è particolare, poiché sono sparsi in varie località del territorio bosniaco, ed operano permanentemente in queste aree soggiornando in abitazioni civili denominate field house. I liaison and observation teams, o LOT per brevità, vivendo a diretto contatto con la popolazione, sono integrati nella comunità locale; il loro obiettivo primario è il collegamento con le autorità presenti nella loro area di responsabilità e l’osservazione di tutto ciò che può essere rilevante ai fini del situational awareness[1], fondamentale per il Comandante in Teatro.

2. Nascita e sviluppo del concetto di LOT house
Le struttura della coalizione militare in Bosnia-Erzegovina è cambiata costantemente nel corso della missione, infatti attraverso periodiche e costanti revisioni si è partiti dai circa 60.000 soldati presenti sul territorio alla fine del 1996, per arrivare ai 7.000 del dicembre 2004 quando è avvenuto il passaggio di responsabilità tra la NATO e l’Unione Europea ed il contingente ha assunto la denominazione di EUFOR (European Force)[2]. Dall’inizio di quest’anno è in atto un’ulteriore trasformazione per ridurre la presenza militare nel paese a 2500 uomini, ciò a testimonianza dei progressi registrati nel processo di stabilizzazione che oramai si avvia ad una positiva e definitiva conclusione.
Nell’evoluzione delle operazioni in Bosnia Erzegovina e nell’adeguamento dello strumento militare è sempre emersa la volontà di accrescere l’interazione tra le forze della coalizione e la comunità locale.
Il primo esempio di questa volontà lo ritroviamo già nel primo periodo delle missioni IFOR/SFOR[3], quando vennero create delle strutture per il collegamento con gli staff delle Forze Armate locali, che furono importanti anche per stabilire una presenza militare permanente in zone problematiche del paese. Furono dismesse appena la situazione politica migliorò. Un altro esempio è costituito dalle JCO houses[4], che hanno rappresentato una delle missioni primarie del CJSOTF (Combined Joint Special Operation Task Force) di SFOR. Erano ubicate in varie località della Bosnia-Erzegovina ed il loro compito primario era svolgere attività d’intelligence.
Nel 2002, con la costituzione di una platoon house francese a Gacko a cui seguì la troop house britannica di Gradiska, si creano le basi per lo sviluppo del concetto di LOT house. Questi assetti erano costituiti da unità combat a livello plotone che stazionavano in abitazioni distanti dal resto dei contingenti e svolgevano principalmente attività di presenza e sorveglianza. La force protection era limitata, poiché la minaccia era valutata bassa, e si cominciano ad intravedere diverse funzioni che poi caratterizzeranno il concetto delle LOT house.
Con la riduzione delle forze sul terreno i comandanti in teatro hanno dovuto organizzarsi per svolgere gli stessi compiti con meno uomini, senza rinunciare a quell’attività di presenza e sorveglianza che è fondamentale per il successo della missione. E’ per questo motivo che nell’autunno del 2003 il Comando di SFOR, visti anche i precedenti incoraggianti, inizia a pianificare l’impiego su tutto il territorio della Bosnia-Erzegovina di piccoli team di osservazione e collegamento. Lo scopo era mantenere una costante presenza sul territorio e nel contempo aumentare l’interazione tra i militari e la comunità locale. L’elemento che caratterizza questi liaison and observation teams, ma che abbiamo visto non rappresenta una novità, è costituito dalla loro ubicazione, poiché l’indicazione fornita dal Comando di SFOR era di collocare i LOT in strutture/abitazioni civili (field houses), in varie località del territorio bosniaco, allo scopo di facilitare i rapporti con la popolazione e con le autorità locali.
Successivamente nei primi mesi del 2004, le 3 task forces (North, North-West, South-East) che operavano in Bosnia-Erzegovina sviluppano le procedure tecnico-tattiche per l’implementazione di questo concetto ed attraverso dei SOPs (Standing Operating Procedures) danno il via all’impiego operativo dei team sul terreno. E’ importante sottolineare che in mancanza di precedenti di questo tipo e di una dottrina d’impiego in ambito NATO, il Comandante di SFOR conferì alle task forces una certa autonomia e flessibilità nell’elaborazione delle procedure d’impiego e della struttura di comando e controllo.

3. La struttura e la missione dei liaison and observation team
Il numero dei componenti dei team dislocati nelle field houses e la struttura di comando e controllo variano in base alla nazione che fornisce il personale, tuttavia al fine di garantire un certo standard operativo e procedurale, sono state sviluppate delle linee guida che devono essere rispettate da tutte le nazioni contributrici.
Tenendo in considerazione la capacità operativa minima richiesta per i compiti da svolgere e le misure di force protection, ogni LOT deve essere costituito da un numero di membri compreso tra 8 e 12, e di norma ogni team è comandato da un Ufficiale inferiore. Il non rispetto di questo vincolo pregiudica l’assolvimento della missione ed al tempo stesso può compromettere un’efficace capacità di reazione del team in situazioni di emergenza a seguito di un attacco o di un qualsiasi altro atto ostile.
Attualmente sono presenti 45 LOT forniti da 16 nazioni diverse, e sono distribuiti uniformemente su tutto il territorio della Bosnia Erzegovina. Tra l’altro oltre a molti paesi Europei, sono nazioni contributrici anche il Cile, il Canada e la Nuova Zelanda. Il contingente italiano fornisce 4 team ubicati a Sarajevo ed in 3 località della Repubblica Srpska : Sokolac, Pale, già roccaforte dei capi serbi durante il conflitto, e Visegrad, con il suo famoso ponte sul fiume Drina.
Il supporto logistico è responsabilità nazionale, per cui ciascuna Troop Contributing Nation attraverso il proprio National Support Element (NSE)[5], deve provvedere alla fornitura di tutto ciò che riguarda equipaggiamenti, trasporti e vettovagliamento e deve provvedere altresì a stipulare contratti “in loco” per la fornitura di determinati servizi e per l’affitto delle strutture/abitazioni adibite a field house.
La missione assegnata ai LOT consiste nel contribuire al situational awareness, ovvero fornire tutte quelle informazioni riguardo la situazione politica, economica, sociale, ambientale e di sicurezza, in altre parole “feel the pulse”[6] della Bosnia-Erzegovina. Tutto ciò attraverso una costante ed intensa attività d’incontri e di osservazione per rilevare l’eventuale “assenza di normalità o la presenza di anormalità”. Oltre a questa attività di carattere quotidiano che rappresenta il compito primario dei teams, ai LOT si chiede anche di contribuire alle fase di pianificazione e di condotta delle varie operazioni che vengono effettuate nelle loro aree di responsabilità. In alcuni casi, il coinvolgimento della popolazione e delle autorità civili è determinante per il successo dell’operazione; ciò trova ampiamente riscontro in quelle attività intraprese per ritirare le armi possedute illegalmente da cittadini bosniaci. In queste harvest operations[7], così sono denominate, l’apporto dei LOT si è rivelato estremamente utile per il coinvolgimento della comunità locale attraverso un’efficace attività informativa e di promozione.
Per adempiere alla loro missione i LOT svolgono le seguenti attività :
- collegamento pro-attivo con le autorità locali presenti nella propria area di competenza, in particolare con i sindaci;
- collegamento con le varie agenzie presenti sul territorio, le organizzazioni internazionali, le organizzazioni governative e non;
- osservazione di eventi, manifestazioni, opinioni, incontri e discorsi ufficiali.
Dal momento che i team operano isolati dal resto del contingente e vivono in strutture spesso distanti dalle varie basi/compound, il supporto logistico riveste una particolare importanza. La responsabilità è nazionale, per cui ciascuna Troop Contributing Nation attraverso il proprio National Support Element (NSE)[8], deve provvedere alla fornitura di tutto ciò che riguarda equipaggiamenti, trasporti e vettovagliamento e deve provvedere altresì a stipulare contratti “in loco” per la fornitura di determinati servizi e per l’affitto delle strutture/abitazioni adibite a field house.
E’ opportuno evidenziare che i LOT non sono degli assetti intelligence, anche se il loro compito principale è costituito dalla raccolta di informazioni da sorgenti aperte, al fine di poter valutare eventuali minacce, locali e regionali, alla sicurezza ed alla stabilità. Essi rivolgono particolare attenzione al monitoraggio della situazione degli sfollati, delle istituzioni pubbliche, del ruolo della legge (rule of law), degli sviluppi dell’economia locale e delle infrastrutture. Tutti questi aspetti costituiscono gli indicatori principali per la comprensione dei progressi del processo di stabilizzazione, ed in particolare, laddove vi siano stati dei conflitti di natura etnica, costituiscono degli elementi molto importanti per capire come procede la fase d’integrazione e rilevare se vi siano delle situazioni discriminatorie nei confronti di qualche minoranza.
Come si può dedurre i LOT dalla loro intensa attività quotidiana di osservazione e collegamento riescono ad acquisire una grande quantità di informazioni. Per ogni meeting pianificato, incontro occasionale o evento rilevato vengono prodotti dei report che giornalmente l’analysis cell del LOU HQ[9] assembla in un unico documento denominato daily summary. Questo documento viene successivamente inoltrato a tutte le cellule del comando, ed è particolarmente utile per la branca informazioni, in quanto mettendo a sistema i contenuti di tutti i report prodotti dai LOT e le informazioni provenienti da altre fonti, si riesce ad elaborare un quadro informativo completo.
In quasi tutte le località dove sono presenti, i LOT partecipano ai consigli comunali come osservatori, nella maggior parte dei casi benvoluti, ma l’aspetto più importante è rappresentato dal fatto che da questi contesti, dove possono emergere eventuali politiche locali discriminatorie, è possibile avere l’idea di come procede l’integrazione tra le varie etnie. I LOT fotografando la situazione sociale, economica e politica svolgono per certi versi una vera e propria ricerca sociologica sul campo, utile a capire dove indirizzare gli sforzi e gli interventi.
Come abbiamo detto in Bosnia Erzegovina è in atto una radicale trasformazione della struttura di EUFOR (European Force), che ridurrà le unità di manovra presenti, ma lascerà inalterata la struttura ed il numero dei liaison and observation teams, poiché è ritenuto fondamentale il loro apporto in quest’ultima fase del processo di normalizzazione. In conclusione possiamo considerare l’impiego dei LOT come una success story, una dimostrazione ulteriore della flessibilità dello strumento militare che ha dato ottimi riscontri e che può essere esportato in altri contesti con caratteristiche analoghe a quelle della Bosnia Erzegovina. In altre parole l’impiego dei liaison and observation teams è senz’altro adatto in un contesto post conflict a bassa intensità, poiché si inserisce bene nel complesso processo di nation building e rivelarsi una carta vincente.


[1] Il Situational Awareness consiste nella conoscenza e nella consapevolezza da parte del Comandante di tutto quello che può essere rilevante ai fini dell’assolvimento della missione;
[2] EUFOR svolge la missione “ALTHEA” in linea con i principi che sono indicati nella PESD ed ha sostituito SFOR (STABILIZATION FORCE) nel dicembre del 2004. La missione rappresenta una delle espressioni concrete della politica europea di sicurezza e di difesa ed attualmente costituisce la principale operazione militare condotta dall’Unione Europea.
[3] IFOR (IMPLEMENTATION FORCE) – SFOR (STABILIZATION FORCE).
[4] JCO (Joint Commission Observer) costituiti da forze speciali, tra i loro compiti vi era anche quello di stabilire dei contatti con i leaders delle fazioni in lotta.
[5] Nella missione EUFOR la logistica è responsabilità nazionale, ancorché l’attuale concetto logistico della NATO indichi una responsabilità collettiva delle nazioni, in Bosnia il supporto logistico viene fornito ai vari LOT dalle rispettive nazioni;
[6] Haris Daul, Liaison and Observation Teams (LOT) – Future of EUFOR, EUFOR Forum, 13 febbraio 2006;
[7] Queste operazioni consistono in una raccolta di armi, munizioni ed esplosivi che vengono consegnati spontaneamente dalla popolazione. Vengono condotte ciclicamente in diverse località della Bosnia-Erzegovina con la finalità di incrementare la sicurezza nel paese.
[8] Nella missione EUFOR la logistica è responsabilità nazionale, ancorché l’attuale concetto logistico della NATO indichi una responsabilità collettiva delle nazioni, in Bosnia il supporto logistico viene fornito ai vari LOT dalle rispettive nazioni;
[9] Liaison and Observation Unit è un’unità a livello battaglione che inquadra i vari LOT indirizzando e coordinando tutte le loro attività.

domenica 17 gennaio 2010

Massimo Coltrinari

The National Security Strategy of United States of America.
Con questa nota si vuole illustrare i punti salienti della National Security Strategy firmata dal Presidente Bush il 16 marzo 2006 e che rappresenta le linee guida della politica degli Stati Uniti per i mesi correnti e futuri.

Che cosa è la National Security Strategy. (NSS)
La National Security Strategy of the USA è un documento destinato a orientare l’impostazione politico-militare delle principali agenzie e dipartimenti del sistema federale degli Stati Uniti d’America.
La caratteristica di base di questo documento è quella di non avere valore legale, forza di legge e non essere considerata come di alcunché di vincolante.
La sua origine è fatta risalire al Golwater-Nichols Act, che, tra le altre indicazioni, richiede che la National Security Stragegy sia revisionata annualmente, per poi essere presentata e discussa al Congresso degli Stati Uniti. Questa disposizione non è stata rispettata negli anni addietro, così come la dimensione non ha carattere di regolarità. Ad esempio la National Security Strategy del 2000, firmata da Bill Clinton era composta da 67 pagine; quella del presidente Bush del 2002, di sole 31 pagine
Ma al di là di queste indicazioni formali, il Golwater-Nichols Act stabilisce che la National Security Strategy Act deve essere “una onnicomprensiva descrizione, rielaborazione e continuo aggiornamento degli interessi strategici degli Stati Uniti.”
Nel corso degli anni, però, le varie National Security Strategy che si sono susseguite non sono altro che una semplice riproposizione retorica delle principali linee politiche ufficiali.
Eccezione a questa tendenza è la National Security Strategy del 1992 di Bill Clinton che ha aperto la strada alla dottrina del “Enlargement and Engagement” (Allargamento e Coinvolgimento) che ha contraddistinto la politica estera degli Stati Uniti degli anni Novanta.
Altra eccezione è la National Security Strategy del Presidente Busch del 2002, nella quale gli Stati Uniti rivendicano l’opportunità di ricorrere preventivamente allo strumento militare contro qualsiasi Stato ed organizzazione terroristica in grado di minacciare gli Stati Uniti; e, nelle stesso tempo, impedire a qualsiasi potenza d’insidiare il primato militare statunitense e, infine, di estendere e difendere la libertà e la democrazia ovunque nel mondo, ma in particolare nel mondo islamico.

L’attuale National Security Strategy del 2006 amplia e ulteriormente rafforza la visione strategica già presentata nel 2002, dimostrando che l’abbandono dei due grandi strumenti strategici tipici della guerra fredda, Deterrente e Containment, peraltro l’uno e l’altro già messi in discussione dalla Presidenza Clinton, sono a favore di una Preemption (Preventivo) e Prevention (Prevenzione) nella quale gli Stati Uniti, intervengono attaccando molto prima che si materializzi una concreta minaccia. Questo concetto deve essere inteso non come un prodotto momentaneo frutto dell’onda emotiva causata dalle stragi dell’undici settembre 2001, ma come una costante della politica estera statunitense.

La Struttura
Preceduta da una lettera di due facciate, a firma del presidente Bush, indirizzata a tutti i cittadini statunitensi, che inizia con la lapidaria frase “L’America è in guerra”, la National Security Strategy del 2006 consta di 49 pagine, ed è articolata in dieci paragrafi. Ogni paragrafo è suddiviso in tre parti: la prima è una sintesi della versione 2002 della NSS; la seconda la elencazione dei successi e degli obbiettivi conseguiti dal 2002 ad oggi; la terza, ove si indicano le vie da seguire nell’immediato futuro.
La immediata lettura della versione 2006 presenta due elementi chiave da evidenziare: si passa dall’isolazionismo ad una visione di leaderschip Usa nel mondo e dal protezionismo al libero commercio mondiale. Questi concetti sono da substrato ai paragrafi successivi di alcuni dei quali vediamo più da vicino i contenuti

Il Primo paragrafo (Overview of Amercia’s National Security Strategy), esordisce sottolineando che tutta la politica degli Stati Uniti è stata sempre volta a por termine alle tirannidi. Nel secolo appena trascorso sono stati combattuti e vinti il nazismo ed il comunismo. Ora è il tempo di nuove sfide ed il modo di affrontarle è contenuto in questa ultima edizione della National Security Strategy
Il Secondo paragrafo (Champion Aspiration for Human Dignity) è diviso in tre punti:
Summary of National Security Strategy 2002; Successes and Challenges since 2002 e il terzo The Way Ahead, che si articola in tre sottoparagrafi: 1) Explaining the Goal: Ending Tyranny; 2) Explaining the Goal: Promoting Effetive Democracies; 3)How We Will Advance Freedom: Principled in Goals and Pragmatic in Means.
Nella NSS del 2002 si sottolineava che gli Usa devono difendere la libertà e la democrazia in quanto queste sono un diritto inalienabile di tutti i popoli e non sono negoziabili con nulla. Il Governo degli Stati Uniti si adopera affinché la dignità dell’Uomo sia sempre ed ovunque rispettata.
Su questa base, vengono elencati i successi che si sono avuti dal 2002 ad oggi, con cenni alle conquiste in questo conteso in aree significative, come l’Afganistan e l’Iraq, ma anche in alcuni paesi del Medio Oriente (Libano, Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Kuwait e Marocco), in paesi dell’Europa Orientale in virtù delle varie rivoluzioni “colorate” (Georgia, Ucraina, Kyrgyzstan) e in paesi Dell’Africa e dell’America Latina.
Ma questi successi devono continuare. Le nazioni che godono della liberta e della democrazia devono assistere coloro che si vogliono svincolare e sottrarre alla tirannide.
La via per raggiungere questo è quella di porre fine ad ogni tirannide, e, nel contempo, promuovere una effettiva democrazia, che non deve essere disgiunta da una effettiva libertà. Ma tutto questo, si sottolinea, non è sufficente. E questo lo si evince dalla possibilità di avere libere elezioni, con tutto quello che ciò significa. Di pari passo la libertà delle leggi deve avere sostegno da un sistema giudiziario indipendente e lontano da ogni centro di potere che possa influenzarlo, assistito da un competente, onesto ed indipendente apparto di polizia. Questi principi hanno avuto un riscontro sul terreno dalle elezioni in Palestina con la vittoria di Hamas.
Infine vengono date le tracce su come far avanzare la libertà e il rispetto dell’uomo. La Libertà non può essere imposta, essa deve essere scelta. Gli Stati Uniti sono impegnati affinché questa scelta avvenga liberamente ed ogni sforzo viene messo in atto affinché si possa concretizzare. Vengono elencati oltre tredici punti in cui l’azione statunitense si deve esplicare in questo senso.
In particolare deve essere fatto ogni sforzo nel settore della libertà religiosa, nei diritti delle donne, nel campo del traffico degli essere umani.
Ognuno ha il diritto di pensare e professare la religione secondo i dettati della propria coscienza; i diritti delle donne devono essere protetti e ogni forma di schiavitù e di traffico di esseri umani va stroncata.
Il paragrafo si conclude con l’affermazione che questi aspetti devono essere posti a carico di ogni nazione libera, perché tutte le nazioni libere hanno interesse affinché la libertà si affermi sempre più.

Il Terzo paragrafo, tratta della guerra al terrorismo. La “vision” del 2002, predisposta praticamente all’indomani dell’attacco alle “twin towers”, è caratterizzata da un’impostazione messianica, lapidaria, ove la motivazione è da ricercarsi nelle espressioni del Presidente. In tale ambito, viene evidenziato che gli USA sono in guerra e non vi è alcuna distinzione fra i terroristi e chi li supporta: la priorità assoluta da perseguire è la distruzione delle organizzazioni terroristiche. L’Afghanistan va considerato come il primo passo della guerra intrapresa ed occorre focalizzare l’attenzione su organizzazioni o Stati sponsor del terrorismo e che possano o vogliano acquisire il possesso di armi di distruzioni di massa. Nei riguardi di tali attori e coerentemente con l’assenza di distinzioni tra terroristi e chi li supporta, gli USA si riservano il diritto di esercitare la propria autodifesa, anche in maniera unilaterale e preventiva. Peraltro, viene anche menzionata la possibilità di ricorrere al “soft power” per conseguire obiettivi quali la classificazione del terrorismo fra i crimini contro l’umanità, il sostegno ai Paesi Musulmani moderati – allo scopo di prevenire derive verso posizioni oltranziste – ed il rilancio della “pubblic diplomacy” per migliorare l’immagine degli USA nel mondo, la cui politica estera viene spesso letta in chiave negativa. In ultimo, la vision del 2002, pur rimarcando la supremazia dell’offensiva riguardo alla difesa nei confronti del terrorismo, evidenzia la necessità di rafforzare la “homeland security”.

L’impostazione della NSS del 2006 è significativamente meno messianica e più discorsiva. Viene comunque evidenziato che la guerra sarà lunga e potrà essere vinta con il supporto ed il concerto degli Alleati, per negare al terrorismo ciò di cui ha bisogno per sopravvivere: rifugi, flussi finanziari ed il supporto di determinati Stati fiancheggiatori. Tra i successi conseguiti, vengono indicati la significativa degradazione delle capacità operative di Al Qaeda, la convergenza a livello mondiale della generale avversione verso il terrorismo, inteso come deliberata uccisione di innocenti e la cooperazione ottenuta con molti Paesi per quanto concerne il contrasto al terrorismo, dei relativi flussi finanziari ed attività di cooperazione diplomatica e militare. Viene in particolare apprezzato il supporto di Paesi come il Pakistan e l’Arabia Saudita, un tempo considerati parte del problema. Per quanto concerne la “homeland security”, viene presentato quale successo l’adozione del Patriot Act.
Tuttavia, permangono sfide da contrastare: il terrorismo, pur senza una guida centralizzata continua a colpire (Spagna, Gran Bretagna, Cecenia, Giordania, Pakistan, Egitto ecc), l’Iraq è divenuto una motivazione per il reclutamento dei terroristi e Paesi come la Siria e l’Iran supportano il terrorismo.

Per quanto riguarda la strategia da perseguire, viene evidenziato che per vincere la guerra al terrorismo occorre vincere sia la guerra delle armi che quella delle idee (non una guerra di religione). In particolare il terrorismo potrà essere vinto solo con la progressiva affermazione della democrazia, dell’affermazione delle libertà fondamentali ed il conseguimento di un certo benessere tipico dell’economia di mercato in contrasto con un’ideologia di sopraffazione e morte tipica del terrorismo.Peraltro nell’immediato continuerà ad essere necessario il ricorso all’”hard power” per la neutralizzazione dei terroristi (ossia la loro uccisione o la loro cattura), prevenire l’acquisizione da parte loro di armi di distruzione di massa, eliminare il supporto al terrorismo da parte degli Stati canaglia e negare al terrorismo la possibilità di acquisire il controllo di Stati o parte di essi.Comunque, per vincere la guerra al terrorismo occorre vincere le battaglia in atto, ossia consolidare l’Afganistan come stato democratico e sostenere l’Iraq sino alla realizzazione di strutture istituzionali stabili e forze di sicurezza efficienti, nonché dell’economia di mercato capace di sostenere le istituzioni e migliorare la qualità della vita dei cittadini.

Il Quarto paragrafo, riguarda la gestione delle crisi regionali. Nella visione strategica del 2002, la gestione delle crisi regionali veniva vista soprattutto quale potenziale pericolo di coinvolgimento degli interessi degli USA, ciò sia quale conseguenza del loro possibile allargamento verso paesi limitrofi che quale potenziale opportunità per il terrorismo internazionale di inserirsi per acquisire il controllo di stati o di rifugi da cui operare. Peraltro, la possibilità di soluzione delle crisi viene ricondotta principalmente alla volontà di uscirne da parte di coloro che vi sono coinvolti anche se, talvolta, è possibile realizzare delle condizioni per una loro efficace gestione sia da pare degli stati confinanti che di organizzazioni regionali.

Tra le crisi in atto, eredità dei decenni precedenti, vengono tra l’altro individuate quelle del Darfur, la contrapposizione Etiopia- Eritrea, l’Uganda, il narcotraffico in Colombia, il Venezuela, Cuba ecc. Le prospettive del 2006 confermano la necessità di gestione delle crisi sia per il contrasto al terrorismo introducendo tra le motivazioni anche la prevenzione di disastri a carattere umanitario. Ciò da realizzarsi attraverso tre tipologie d’intervento:
. la prevenzione dei conflitti, conseguibile principalmente attraverso la realizzazione di organizzazioni regionali efficienti e la promozione della democrazia;
. le capacità d’intervento nei conflitti, con necessità di miglioramento delle capacità militari di organizzazioni quali la NATO ma anche delle Forze sotto mandato ONU in genere;
. efficaci misure post conflitto quali la stabilizzazione e la ricostruzione.
In ultimo viene evidenziato che, in ogni caso, non può essere tollerato il genocidio, inteso come deliberata intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo etnico o religioso di una nazione. In tal caso occorrerà l’intervento mirato a colpire i diretti responsabili piuttosto che la popolazione da essi governata, non escludendo tuttavia l’intervento armato, preferibilmente condotto da apposita coalizione operante sotto opportuno mandato internazionale.
In nessun caso un dibattito di natura dottrinale su cosa si intenda in termini giuridici per genocidio può scusare l’inazione ed occorre agire in tali frangenti anche se i contendenti non sono ancora disposti alla cessazione delle ostilità.

Il Quinto paragrafo, è dedicato alle armi di distruzione di massa. Nella NNS del 2002 si evidenziava che i pericoli che devono affrontare nel nuovo millennio gli USA sono oggi totalmente diversi, da quelli della guerra fredda, ed in particolare quelli derivanti dalla reale possibilità di subire attacchi terroristici con uso di armi di distruzione di massa.
Pur se l'attività diplomatica deve essere la via preferenziale per la risoluzione delle controversie, il governo americano afferma che la difesa dei propri cittadini e degli interessi statunitensi debba essere perseguita con ogni mezzo, anche militare, e prima che l'attacco del nemico possa essere sferrato (preemptive attack).
Negli ultimi quattro anni sono stati ottenuti brillanti risultati nell'applicazione degli accordi internazionali di non proliferazione anche se, nel caso del Iraq e dell'Afghanistan, è stato indispensabile ricorrere alla forza.

Nel futuro gli USA si impegnano nell'impedire l'accesso alle armi di distruzione di massa da parte di terroristi e di stati canaglia.
Ciò può essere fatto imponendo uno stretto controllo sul materiale fissile e sulla tecnologia nucleare, affrontando con decisione la questione iraniana (sia per lo sviluppo del nucleare a fini militari, sia per il supporto che quel paese dà alla causa terrorista) e verificando la puntuale esecuzione degli accordi del Six-Party Talks di settembre 2005 da parte della Corea del Nord.
Viene molto enfatizzata la necessità di mettere al sicuro il materiale fissile spesso conservato in modo poco sicuro nei depositi dell'ex unione sovietica, attraverso varie iniziative tra le quali spicca la GTRI (Global Threat Reduction Initiative).
Attenzione è data anche al possibile uso di armi biologiche o chimiche, la cui realizzazione è per certi versi più semplice e richiede minime infrastrutture.
Anche qui gli USA privilegiano la via diplomatica, ma nel contempo hanno avviato una serie di attività per neutralizzare o ridurre gli effetti di un’eventuale azione terroristica.
Nella nuova National Security Strategy in più parti è enfatizzata la necessità di agire, di non attendere che gli avvenimenti possano seriamente danneggiare il popolo americano e i suoi interessi. Si dà così vita ad una nuova triade composta da sistemi d'attacco (nucleari e convenzionali), difese attive passive, e infrastrutture sociali reattive.
Preemption è la parola chiave per evitare di essere vittime di un possibile attacco terroristico.

Il Sesto paragrafo, è dedicato al libero commercio. La libertà di un popolo è legata a filo doppio con maggior benessere economico. La libertà economica rende più forti di individui, i quali chiedono con maggior forza la libertà politica. Su questo semplice assioma è basata tutta la politica economica americana.
Per incrementare la libertà economica e la prosperità, gli USA promuovono il libero mercato, un sistema economico stabile, l'integrazione dell'economia globale e uno sviluppo energetico sicuro e pulito.
Negli ultimi quattro anni di Stati Uniti hanno lavorato a livello internazionale per eliminare i sussidi statali in agricoltura e per ridurre i programmi di supporto che creano distorsioni che riducono di fatto le capacità di crescita dei singoli paesi. Queste attività sono state svolte lanciando le negoziazioni nel corso della Doha Development Agenda del WTO. Nel 2003 le negoziazioni furono ravvivate dall'intervento USA e felicemente conclusa nel 2004 con gli accordi di Ginevra. Parallelamente sono stati sottoscritti 14 Free Trade Agreement (FTA) con altrettanti paesi (più 11 in corso di finalizzazione) per aprire i mercati, per supportare le riforme economiche e per creare nuove opportunità ai lavoratori e ai contadini americani.
Anche con le maggiori potenze industriali del mondo sono stati avviati incontri e negoziazioni per promuovere riforme strutturali ed incoraggiare la crescita, la stabilità e le opportunità in tutti gli altri paesi. Per quanto attiene ai miglioramenti nella sicurezza energetica e nella tutela ambientale, l'amministrazione ha lavorato con le istituzioni e con gli industriali per espandere i tipi e le sorgenti di energia, per aprire i mercati rafforzando le regole e le leggi, e sollecitando investimenti privati che possano portare a sviluppare nuove forme di energia per soddisfare la sempre crescente esigenza mondiale.

Nel futuro gli USA continueranno con gli obiettivi fissati nel 2002 e cioè il perseguimento di una libertà economica globale. Ad ogni nazione verrà chiesto in ambito WTO e tramite FTA bilaterali o regionali, di abolire le barriere doganali ed il dannoso meccanismo delle sovvenzioni statali di sostegno. Nell'ambito energetico sarà interattivo diversificare i tipi delle fonti di combustibili riducendo la dipendenza dall'estero oggi del 50%.
Sarà anche necessario riformare sistema finanziario internazionale per assicurare la necessaria stabilità e la crescita economica auspicata. Sessant'anni fa gli USA diedero vita allla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale che, anche se ancora vitali, devono però essere adattati alle nuove realtà. E necessario operare per creare un sistema finanziario internazionale più trasparente, sicuro e che possa essere oggetto di efficaci verifiche. In questo modo sarà possibile controbattere gli abusi e gli illeciti di criminali, terroristi, politici corrotti e trovare soluzione al riciclaggio di denaro sporco.

Non vi è lo spazio per descrivere nei dettagli il settimo, l’ottavo e il nono paragrafo, e si rimanda al documento ufficiale, disponibile sul sito della Casa Bianca, ma merita un po’ di attenzione il decimo Paragrafo (Engagé the Opportunities and Confront the Challenger of Globalization). Il concetto, concernente le opportunità che si possono cogliere con le sfide della globalizzazione, era stato indirettamente indicato nella NSS 2002.
L’espandersi del commercio mondiale, degli investimenti, della informazione e della tecnologia hanno visto gli Stati Uniti in una posizione di primo piano che ha favorito lo sviluppo e quindi un aumento significativo della qualità della vita sia del popolo americano che di quello del mondo intero. Molte altre nazioni hanno abbracciato questo principio e ne hanno avuto dei vantaggi.
Globalizzazione significa anche ulteriore circolazione di idee e di ideali, in altre parole un ulteriore livello acquisito di libertà. Tutto questo deve essere trasformato in sicurezza nazionale. La globalizzazione espone gli Stati Uniti a nuove sfide e li costringe a rivedere i modi ed i termini con cui affrontavano le vecchie sfide, ovvero viene messa in discussione la capacità statunitense di fare fronte alle nuove sfide.
Vengono riportati tre esempi:
. La Salute pubblica minacciata dalle pandemie (AIDS, Aviaria), che non conoscono confini.
. Il commercio illecito di droga, di organi di esseri umani, del sesso, che corrompe con il suo sviluppo il tradizionale senso di sicurezza e del rispetto della legge
. I disastri ambientali, come i tifoni devastanti, i terremoti, i tsunami.

Vengono quindi indicati sistemi e modi per affrontare queste sfide che la globalizzazione impone e che non possono essere non prese in esame in quanto incidono sulla sicurezza nazionale, anche se in modo non tradizionale.

XI La Conclusione
La conclusione è lapidaria. Le sfide che l’America ha di fronte sono grandi, ma l’America ha un enorme potere per influenzare le scelte per affrontare queste sfide.
I tempi richiedono una strategia circa la sicurezza nazionale di alto profilo.
La strategia, peraltro, è idealistica nei suoi obbiettivi, ma realistica nei mezzi per raggiungerli.

Nel paragrafo conclusivo emerge tutto il dramma dell’11 settembre 2001, li dove si sottolinea che un tempo vi erano due Oceani che potevano preservare e assicurare la sicurezza degli Stati Uniti; ora quei tempi sono passati. Gli Stati Uniti ( ma il termine usato è America) non possono conoscere pace, sicurezza e prosperità se si isolano dal mondo. Questa NNS è il documento che spiega a tutti come, in presenza delle sfide attuali, la sicurezza degli Stati Uniti può essere attuata.

E’ evidente che, se si vuole comprendere le linee guida della politica degli Usa nel mondo, occorre meditare e studiare questo documento, che rappresenta, spesso, la chiave di lettura, e di volta, di molte situazioni e di crisi e di contrasto nel mondo.

mercoledì 6 gennaio 2010

I Templari
Antonio Trogu
II Parte
Il processo

La definitiva conclusione della crociata e la fine degli stati latini d'Oriente creò enormi problemi per gli ordini militari che tanto avevano dato alla causa. I Templari avevano acquistato, nonostante tutto, prestigio politico e diplomatico riconosciuto da tutti, le ricchezze che avevano permesso la lunga permanenza in terrasanta erano ora a loro completa disposizione in Europa. Lo stesso maestro Jacques de Molay lasciò la sede di Cipro per recarsi a Parigi, nel nuovo quartiere generale e decidere il da farsi, ma il ritorno definitivo dei monaci-cavalieri in Europa sollevò anche parecchi malumori. Quasi tutti i re europei avevano fatto spesso ricorso alle finanze Templari per le insaziabili esigenze di bilancio, la Chiesa di Roma, anche se da poco trasferita in Francia, aveva timore per la sua potenza politica, il popolo li guarda sempre piu' con diffidenza: i Templari incominciavano a fare paura a tanti. In questi anni la situazione economica della Francia era molto delicata, il re Filippo IV, dopo aver tentato inutilmente di entrare nell'ordine dei Templari, non appare in grado di risollevare le ormai vuote casse dello Stato. Il popolo francese, stanco dei continui aumenti di tasse, incomincia a dare segnali di turbolenza assai pericolosi. Voci di un prestito fatto del tesoriere del Tempio senza autorizzazione di Molay contribuiscono a creare una situazione di tensione tra il re francese e il maestro dell'ordine. I Templari sono diventati scomodi per l'avido Filippo IV e per il suo potere politico.
Tutta la vicenda ha inizio nel 1305, quando un tale Esquiu De Floryan si presentò al sovrano di Spagna Jaime II con una storia stupefacente: diceva di essere stato nelle carceri di Béziers in compagnia di un cavaliere templare cacciato dall’Ordine che gli aveva raccontato le inaudite atrocità che venivano compiute: si rinnegava Cristo all’atto di essere accettati nell’Ordine, si sputava sulla Croce, si praticava la sodomia e si adorava un idolo.
De Floryan raccontò questa storia a Jaime II perché sapeva che il Re aveva buoni motivi per avercela con i Templari, non gli andava troppo a genio avere all’interno dei suoi confini un secondo potere oltre lo Stato con una tale influenza, inoltre avevano le più possenti fortezze del Regno e facevano i migliori affari. Jaime II però ritenne opportuno non intraprendere azioni contro gli onnipotenti Templari, anche perché la pia popolazione spagnola non avrebbe mai perdonato al suo Sovrano una simile azione contro i migliori Cristiani dell’epoca e la Chiesa!
Jaime II consigliò però a De Floryan di rivolgersi a Filippo IV di Francia che aveva una certa esperienza in lotte contro la Chiesa grazie anche al suo scaltro consigliere: Guglielmo di Nogaret
De Floryan alla fine riuscì ad incontrarsi con Nogaret che percepì immediatamente quanto quelle informazioni che gli venivano date fossero ad alto potenziale esplosivo. Ormai era specializzato a saccheggiare beni ecclesiastici e annientare un Ordine per il vile denaro non lo preoccupava minimamente. Inoltre aveva forse un motivo in più per agire contro i Templari: i Cavalieri avevano denunciato all’Inquisizione come cataro suo nonno che era stato così bruciato sul rogo.Per il momento però aveva in mano ben poco per accusare un intero Ordine, aveva soltanto le affermazioni di un pregiudicato, un testimone quindi abbastanza inattendibile, per giunta anche espulso dall’Ordine.
C’era soltanto una soluzione per ottenere prove sicure ed innegabili della colpevolezza dell’Ordine: tutti i Templari dovevano essere sottoposti a tortura e dovevano essere costretti a firmare le deposizioni con il riconoscimento della loro colpevolezza.
“I frati dell'ordine della milizia del Tempio, lupi nascosti sotto un aspetto da agnello e sotto l'abito dell'ordine, insultando in modo sciagurato la religione della nostra fede, sono accusati di rinnegare il Cristo, di sputare sulla croce, di lasciarsi andare ad atti osceni al momento dell'ammissione all'ordine: essi si impegnano con il voto che proferiscono, e senza timore di contravvenire alla legge umana, a darsi l'uno all'altro, senza rifiutarsi, se vengono richiesti...” Con queste parole il re Filippo IV ha giustificato l'arresto in massa, all'insaputa del papa, dei Templari nelle commende francesi avvenuto all'alba di venerdi 13 ottobre 1307. Quasi tutti i monaci vennero imprigionati compreso il maestro Jacques de Molay che si trovava nella commenda di Parigi, tutti i beni dell'ordine confiscati compreso il tesoro e tutti i documenti. Le accuse erano pesanti ma quello che preoccupava era il sospetto che si nascondeva dietro questa manovra del re: il desiderio di sopprimere l'ordine del Tempio. La cattura era stata ordinata dal Grande Inquisitore di Francia, Guglielmo d’Imbert che avrebbe dovuto procedere anche agli interrogatori, ma gli aguzzini cominciarono subito, torturando i poveri malcapitati e iniziando a far sottoscrivere da quanti più Templari possibile le loro dichiarazioni di colpevolezza. Incatenati, isolati dalla vita conventuale e torturati, ai poveri monaci-cavalieri rinchiusi fu presentata una lunga lista di misfatti che da tempo sarebbero stati abituali nell’Ordine. A chi confessava veniva promessa la libertà, il perdono e una pensione ordinaria attinta dai beni dell’Ordine. Si doveva soltanto adempiere alla piccolissima formalità di sottoscrivere le proprie affermazioni di colpevolezza sotto giuramento. Chi invece si intestardiva col negare le accuse veniva invece messo alla ruota, una, due, tre volte al giorno, finché non confessava ….. o moriva.
Non tutti ce la fecero a sopportare le torture e molti firmarono i documenti con le mani insanguinate. I capi d’accusa più importanti furono: aver rinnegato Cristo, aver sputato sulla Croce, sodomia e adorazione di un idolo.
Sono questi mesi difficili per i Templari, il ricordo di epiche battaglie e' lontano e la confusione appare come l'unica certezza, dove confessioni, precisazioni ma anche ritrattazioni e lo spettro di gravi condanne avvicinano i bianchi mantelli al fuoco del rogo. Le torture incominciano a produrre gli effetti desiderati dal re di Francia Filippo IV. Del coraggio dei temuti cavalieri ben poco e' rimasto e lo scoramento nelle file della gerarchia dell'ordine sembra confermare un triste percorso gia' disegnato e dal quale pare non ci sia proprio via di scampo.
Clemente V, papa francese molto vicino al re Filippo IV, non ha mantenuto il suo ruolo di garante alla ricerca della verita' ma ha contribuito egli stesso, con la sua indecisione politica, alla condanna definitiva dell'ordine. A seguito del concilio di Vienne del 1312, il papa approvò, su richiesta del re di Francia, la soppressione dei Templari firmando la bolla 'vox in excelso' e la seguente 'ad providam' con la quale veniva disposto che tutti i beni Templari diventavano proprieta' degli Ospedalieri, altro ordine religioso-militare. Le decisioni del Papa per i Templari furono: coloro che erano stati giudicati innocenti dovevano esser mantenuti con i beni dell’Ordine e potevano vivere nelle loro case o in monasteri, purché non troppi nella medesima casa; coloro che non si erano pentiti o i recidivi andavano severamente puniti e coloro che nonostante le torture continuavano a non confessare dovevano essere giudicati secondo il diritto canonico; i fuggiaschi dovevano presentarsi alle autorità entro un anno.
Quindi l’Ordine fu soppresso, la condanna dei dignitari dell'ordine alla prigione perpetua pareva l'atto finale di un processo politico che liberava tutta Europa di un ordine diventato troppo potente ed influente, restava però il Processo ai singoli imputati di eresia e ai massimi esponenti dell’Ordine che continuavano a marcire in prigione.
Filippo non aspettò un momento, il 18 Maggio pronunciò la sentenza di morte e lo stesso giorno gli alti dignitari dell’Ordine furono bruciati vivi sull’isolotto di Pont Neuf, sella Senna, alle spalle di Notre Dame. Per lo spettacolo si radunò una folla sterminata.
In questo frangente il Gran Maestro Jacques Molay disse una frase storica:
"Alla soglia della morte, dove anche la minima delle menzogne è fatale (si riferisce al rischio di non poter ascendere al Paradiso), confesso chiamando il cielo e la terra a testimoni, che ho commesso peccato gravissimo a danno mio e dei miei, e che mi sono reso colpevole della terribile morte, perché per salvarmi la vita e sfuggire ai troppi tormenti, e soprattutto allettato dalle parole lusinghiere del Re e del Papa, ho testimoniato contro me stesso e contro il mio Ordine. Ora invece, sebbene sappia quale destino mi attende, non voglio aggiungere altre menzogne a quelle già dette e, nel dichiarare che l’Ordine fu sempre ortodosso e mondo d’ogni macchia, rinuncio di buon grado alla vita".
All’ultimo Gran Maestro Jacques De Molay, che pure era stato processato ma poi graziato e messo in libertà, nel corso di una pubblica funzione alla quale era stato inviato ad assistere, vennero lette le sue pretese confessioni. Seguì la ribellione del Gran Maestro, che rinnegando quanto venne detto, affermò la completa estraneità dell'Ordine, alle accuse rivoltigli, affermando indignato, che sempre i Cavalieri del Tempio erano rimasti fedeli alla Regola ricevuta, a Cristo ed al Cattolicesimo.
Venne di nuovo arrestato ed il 28 marzo 1314, bruciato a fuoco lento, come un eretico. De Molay, nel corso del supplizio non si stancò di rinnegare ogni colpa addebitata all’Ordine, accusando di mendacio i suoi aguzzini ed invocando la Giustizia Divina.
Durante i numerosi interrogatori, de Molay ha mancato di coerenza, di certo d'intelligenza, forse anche di coraggio. Egli riconosce dapprima alcune delle accuse rivolte all'Ordine, in seguito ritratta le sue confessioni, per poi adottare una posizione che non cambierà più: non parlerà se non davanti al papa. Così rimane in silenzio anche quando, nel 1310, i Templari si levano in massa per difendere il proprio Ordine. E non dice nulla nemmeno allorché, due anni più tardi, il papa lo abolisce.
Da un esame delle fonti del processo si nota che le confessioni dei templari sono copie stereotipe che raccontano tutti gli stessi misfatti, come è tipico delle deposizioni estorte o suggerite ed i processi dell’Inquisizione al di fuori della Francia pervennero quasi tutti ad una assoluzione dell’ordine.

Conclusioni

Con la soppressione dell’Ordine fu anche la Chiesa e soprattutto il papato a subire un grandissimo danno, un Papa aveva sacrificato un Ordine all’avidità di un Re. Lo scandalo del processo, le confessioni dei Cavalieri, la debolezza del Papa, lo schieramento di un subdolo Re contro un Ordine secolare, minarono le basi della società stessa. Gli alti ideali Medioevali come la cavalleria, il senso dell’onore, la disciplina, il valore, la cortesia, la religiosità vennero messi in discussione. Non dovette essere cosa da poco! Il processo si svolse contro una miriade di norme di diritto canonico e civile, i Templari vennero trattati in modo disumano, le loro confessioni furono estorte con modi e mezzi violentissimi ed era fin troppo chiaro che l’Ordine era innocente.
Ma dopo la soppressione che ne fu di del glorioso Ordine Templare?
I Templari fuori i confini della Francia riuscirono per la maggior parte a mettersi in salvo, soprattutto in Portogallo, Germania e Gran Bretagna. C’è chi pensa che si riunirono in società segrete, come i Rosacroce del XVI secolo, ma per molti è difficile che ciò sia accaduto, i Templari delle varie nazioni erano troppo lontani tra loro per riuscire a comunicare: non potevano più usare il loro vero nome, non avevano un punto di riferimento, erano perseguitati e prontamente colpiti nel cuore.
I superstiti non avevano più soldi, erano dei fuggiaschi ricercati dalla polizia, non avevano figli a cui tramandare le loro tradizioni e i loro segreti (la Regola non permetteva il matrimonio) e avevano grandissime difficoltà a trovare nuovi adepti: chi avrebbe mai voluto entrare in un Ordine soppresso dal Papa e ricercato dalla polizia? Anche se ci fossero state persone con ideali purissimi e lo spirito giusto sarebbe stato meglio unirsi ad Ordini già esistenti (soprattutto i Gerosolimitani godevano di grandissima fama) o al limite crearne uno completamente nuovo.
Nei secoli sono state molte le società che rivendicavano il titolo di "Templari", ma questa è un’altra storia.







BIBLIOGRAFIA

BECK A., La fine dei Templari, Edizioni Piemme, 1999
BERNARD M., Storia e segreti del più misterioso ordine medievale, Edizioni L’età dell’Aquario
BORDONOVE G., La vita quotidiana dei Templari, Milano , RCS Rizzoli, 1989
CAPONE - IMPERIO - VALENTINI, Guida all'Italia dei Templari, Roma, Edizioni Mediterranee, 2º ed. 1997
CUOMO F., Gunther d'Amalfi cavaliere Templare, Roma, Newton Editore, 1996
CHARPENTIER L, I misteri dei Templari, Roma, 1981
LEHMANN, I crociati, Milano, Garzanti, 1978
MARINELLI E., Sindone, un'immagine "impossibile", Milano , Edizioni San Paolo, 1996
PARTNER P., i Templari, Torino, G. Einaudi ed., 1991
RILEY-SMITH JONATHAN, Breve storia delle Crociate, Arnoldo Mondatori editore,1994
I Templari

Antonio Trogu
I Parte

L’Ordine del Tempio

L’Ordine del Tempio è sempre stato ammantato dal mistero e realtà e leggenda, prosa e poesia dei Cavalieri templari si fondono e si confondono.
I templari erano un ordine cavalleresco monastico che segnò la storia medioevale, influenzando moltissimo la cultura del tempo. In un sistema sociale suddiviso fino ad allora in Ballatores (coloro che combattevano), Oratores (coloro che pregavano) e Laboratores (coloro che lavoravano) sorse un nuovo ordine che conciliava i principi base del monachesimo: povertà, castità, obbedienza all’uso delle armi a protezione dei pellegrini che si recavano nei luoghi santi, costituito quindi da monaci che erano al tempo stesso soldati.
Questi monaci soldati, nati con lo scopo di proteggere i pellegrini e non di cacciare i mussulmani da Gerusalemme e dalle altre zone sacre ad entrambe le religioni, erano dediti alla Cristianità ed alla Croce a cui rimasero fedeli fino alla fine.

Origine

Il 27 novembre 1095 Papa Urbano II, durante il Concilio di Clermont, fece un appello chiamando alle armi i cavalieri cristiani per una crociata che liberasse i luoghi santi in Palestina.
Gruppi di crociati iniziarono nell’agosto del 1096 il viaggio per Costantinopoli, dove giunsero in seguito gli altri gruppi per costituire un’unica forza combattente che, sottomessa l’intera regione al controllo cristiano, avrebbe marciato verso la Siria e la Palestina per conquistare Gerusalemme.
Gerusalemme fu conquistata nel 1099 e nel 1100 fu incoronato quale primo re cristiano della città Baldovino I. In quel periodo si trovavano con i crociati un gruppo di nove cavalieri francesi, capitanati da Ugo di Payns, che avevano pronunciato solenne promessa reciproca di castità, obbedienza e comunione di tutte le proprietà. Questi cavalieri erano giunti in Terrasanta per mettersi al servizio del re di Gerusalemme e, sotto la sua guida, avevano partecipato a molte battaglie. Durante la permanenza nei luoghi santi avevano visto le pessime condizioni in cui arrivavano le centinaia di pellegrini e quanti sulle strade polverose che conducevano a Gerusalemme continuavano a morire vittime delle aggressioni delle bande armate senza controllo nella regione e nel 1118 questo gruppo di cavalieri si presentò al re Baldovino II mettendosi a sua disposizione per la protezione dei pellegrini ed il pattugliamento delle strade a Gerusalemme e dintorni. A differenza degli altri cavalieri questi si presentarono al re senza vestiti sfarzosi o armature luccicanti ma coperti da un semplice mantello bianco. Baldovino II concesse loro come quartier generale un’ala del monastero fortificato di Nostra Signora di Sion, accanto a quello che era stato il Tempio di Salomone, e i cavalieri riunitisi in un ordine inizialmente chiamato i “Poveri Cavalieri di Cristo” cominciarono a pattugliare le strade. Dopo poco tempo, essendo aumentato il numero dei cavalieri, si spostarono occupando tutta l’area di quella che era la spianata del Tempio di Salomone, tra la Moschea della Roccia e la Moschea di Al-Aqsa, ed il loro nome fu cambiato in “Ordine dei Poveri Cavalieri di Cristo e del Tempio di Gerusalemme” e da allora furono riconosciuti come “Templari”. L'uniforme era composta da un mantello bianco, arricchito da una croce rossa sul petto e sulla spalla destra. La forma della croce era greca (simmetrica) o latina (con la punta inferiore più lunga), con le punte che si allargano verso l'estremità terminando con un bordo dritto o, più raramente, concavo.

I templari nascevano quindi come un Ordine contemporaneamente monastico e militare: i monaci cosiddetti tradizionali pronunciavano tre voti, ossia obbedienza, povertà e castità: i templari, oltre a questi tre voti, ne pronunciavano anche un quarto, cioè lo "stare in armi", quindi il combattimento armato. Erano così dei veri e propri monaci guerrieri e questa situazione era abbastanza inusuale per la Chiesa, in quanto il voto dello "stare in armi" mal si conciliava con gli altri tre.
Era quindi necessario trovare una posizione chiara e precisa, ricercando anche una regola che si adattasse perfettamente alla situazione. Non è un caso se da questo momento entra nelle vicende Templari, uno dei personaggi più carismatici ed autorevoli del tempo: Bernardo di Chiaravalle. Monaco cistercense, fondatore della abbazia di Chiaravalle (1115), scrittore e successivamente Dottore della Chiesa San Bernardo, riprendendo il concetto della "guerra giusta" espresso da Sant'Agostino, considerò il voto templare dell'uso delle armi contro gli infedeli non una intenzione di "omicidio", ma una vera e propria azione contro il Male, ossia un "malicidio", come si può leggere nel "De Laude Novae Militiae Christi", scritta di suo pugno come l'intera Regola Templare. A questo punto, l'Ordine aveva bisogno di un "imprimatur" ufficiale da parte della Chiesa, e fu per merito di Bernardo di Chiaravalle che, nel corso del Concilio convocato dal Papa Onorio II a Troyes, in Francia, la nuova milizia viene ufficialmente riconosciuta grazie al 'De laude novae militiae' (elogio della nuova milizia),vero e proprio proclama di esaltazione dell'Ordine Templare "Una nuova cavalleria e' apparsa nella terra dell'Incarnazione... essa e' nuova, dico... che si combatta contro il nemico non meraviglia... ma che si combatta anche contro il Male e' straordinario... essi non vanno in battaglia coperti di pennacchi e fronzoli, ma di stracci e con un mantello bianco... essi non hanno paura del Male in ogni sua forma... essi attendono in silenzio ad ogni comando aiutandosi l'un l'altro nella dottrina insegnata dal Cristo... essi fra loro non onorano il più nobile, ma il più valoroso... essi sono i Cavalieri di Dio... essi sono i Cavalieri del Tempio".
Tutti gli Statuti dell'Ordine furono approvati e la Regola Templare in blocco fu sottoscritta da tutti e vi fu apposto il sigillo papale, mentre Hugues di Payns, anch'egli presente al Concilio, venne nominato Gran Maestro dell'Ordine.
A Troyes poi i Templari adottarono un motto: "Non nobis Domine, non nobis, sed nomini Tuo da gloriam", ossia "Non a noi, Signore, non a noi, ma al Tuo nome da gloria". San Bernardo inoltre trasmise ai cavalieri la devozione a Maria e il grande rispetto per la donna, la Regola infatti cita: "Maria presiedette al principio del nostro Ordine, ne presieda anche, se questa sarà la volontà del Signore, la fine". Ancora l’ultimo Gran Maestro, sul rogo, pregò i suoi carnefici di legarlo con il viso rivolto verso Notre Dame.
Il primo sigillo del nuovo Ordine rappresentava da una parte la Cupola della Roccia e dall'altra due cavalieri su un cavallo che stava ad indicare la povertà iniziale dei cavalieri che erano costretti ad andare in due su un solo cavallo e il dualismo universale delle cose, a cui si rifà il loro ideale, cioè la convivenza pacifica in TerraSanta della cultura Cristiana e di quella Islamica. Nel 1139 vi fu la bolla "Omne datum optimum", di papa Innocenzo II che concesse all'Ordine la totale indipendenza, compreso l'esonero dal pagamento di tasse e gabelle, oltre alla direttiva secondo la quale l'Ordine non doveva rendere conto a nessuno del suo operato, tranne che direttamente al Papa, diventando così un organismo a parte con una posizione molto privilegiata.






Organizzazione e attività economiche

L'Ordine, attraverso la sua Regola,[1] si diede una organizzazione interna verticistica e formidabile: un Gran Maestro che aveva la responsabilità totale del comando e di tutto l'Ordine; un Maresciallo, che aveva la responsabilità delle armi e dei vettovagliamenti dei cavalieri; un Gran Siniscalco, che aveva la responsabilità amministrativa e politica dell'Ordine. Dopo di questi, sia i possedimenti che le donazioni terriere venivano suddivise in Gran Priorati, che equivalevano agli Stati; i Priorati, che equivalevano ad un gruppo di regioni nello stesso stato; i Balivati, che equivalevano ad una provincia; i Precettorati, che equivalevano alle nostre città piccole e grandi. Così esistevano i Precettori, i Balivi, i Priori, i Gran Priori. Era una organizzazione perfetta, visto che ognuno per la gestione interna era totalmente indipendente dall'altro, e ognuno doveva rendere conto al suo superiore diretto, fino ad arrivare al Gran Maestro. I quartieri generali rimasero a Gerusalemme fino alla riconquista musulmana della città nel 1187, dopodiché furono trasferiti ad Antiochia, Acra, Cesarea e infine a Cipro.
Per ciò che riguardava la parte economica, ogni Precettoria doveva mantenersi da sola, facendo lavorare sia i cavalieri che altro personale: ogni Precettoria aveva i suoi orti, i suoi animali da allevamento e quant'altro necessario al sostentamento dei cavalieri. Le Precettorie o Commende erano quindi dei complessi autosufficienti nelle quali vi erano attività agricole, metallurgiche, religiose e militari. Nelle Commende erano allevati e selezionati i cavalli, indispensabili alla guerra, i bovini per i lavori nei campi e i maiali per le carni. Per alimentare gli animali era necessario aumentare la raccolta del foraggio e quindi migliorare la resa dei terreni coltivati. S'introdussero, a tale scopo, delle nuove tecnologie che consentirono il raggiungimento di notevoli risultati per l'epoca. Alla fine di ogni mese, la Precettoria doveva inviare al Gran Siniscalco, che fungeva anche da Tesoriere, la decima parte del guadagno incamerato, mentre il resto rimaneva alla Precettoria per i costi di gestione. Così i Templari, sia in Terrasanta che in Europa, divennero un costante riferimento per le truppe ed anche per i pellegrini, che consideravano le Precettorie, ossia le caserme, veri punti di ristoro ed eventualmente anche rifugi inattaccabili dalle scorrerie dei briganti.
Le donazioni costituirono la fonte principale del patrimonio dell'Ordine in Occidente. Potevano essere di ogni genere: terreni, case, mulini, denaro, ecc. Molto spesso gli eredi contestarono le donazioni ed i templari si trovarono coinvolti in dispute legali. Le donazioni venivano amministrate diligentemente in quanto era da queste che derivavano le entrate necessarie a pagare le responsiones. Ogni elargizione o donazione veniva usata per il finanziamento della campagna di guerra in Terra Santa, e tutti, pur non partecipando direttamente alla guerra, potevano però dare il loro contributo: in pratica, donare ai Templari significava contribuire materialmente alla liberazione dei "Possessi di Dio" come veniva chiamata spesso la terra al di là del mare.
Le ricchezze ottenute dai Templari furono impensabili e loro stessi furono bravi a gestirle: non lasciavano il denaro in eccesso a marcire in buie stanze, ma lo investivano, soprattutto facendo servizio di tesoreria per nobili e re e prestando il denaro, certo, da Cristiani non potevano chiedere interessi, ma sapevano come non subire danni con tariffe di prestito.Usarono inoltre le loro ricchezze per costruire numerose fortificazioni in tutta la Terra Santa.
Alcuni confratelli si occupavano esclusivamente di attività bancarie e gli affari che svolgevano erano soprattutto di quattro categorie:
-deposito tributi e somme di denaro di un principe votatosi alla Crociata;
-trasferimento in Terra Santa di dette somme;
-riscossione delle decime pontificie per le crociate;
-prestiti a principi o nobili, che motivassero tale bisogno di denaro con pii motivi.
A loro è dovuta anche l’invenzione dell’assegno o della lettera di cambio: per esempio i pellegrini che si volevano recare in Terra Santa, ma avevano paura di essere rapinati, potevano lasciare denari in una qualsiasi magione templare e ricevere una quietanza di riscossione; all’arrivo in Terra Santa portavano la quietanza nella magione e tornavano in possesso della somma di denaro lasciata prima della loro partenza.

Monaci soldati

Dopo il concilio di Troyes del 1128/29 ed il riconoscimento ufficiale dell'Ordine da parte della Chiesa, la popolarità della Nuova Milizia Cristiana si diffuse in tutta Europa e le fila dell'Ordine vennero rafforzate da un gran numero di effettivi. Come detto non tutti gli appartenenti all'Ordine erano cavalieri, anzi il numero di questi era limitato rispetto alla totalità dei Fratres; di gran lunga più numerosi erano i Fratelli Sergenti, Serventes, di natali non nobili, che si dividevano in Fratelli di mestiere, e Sergenti a cavallo, questi ultimi destinati ad affiancare i Cavalieri in battaglia, benché dotati di un equipaggiamento di solito più leggero e con un abbigliamento differente, nero o marrone.
Vi erano quattro divisioni di confratelli nei Templari:
cavalieri, equipaggiati come cavalleria pesante [2]
sergenti, equipaggiati come cavalleria leggera,[3] provenienti da classi sociali più umili dei cavalieri
fattori, che amministravano le proprietà dell'Ordine
cappellani, che erano ordinati sacerdoti e curavano le esigenze spirituali dell'Ordine
Ciascun cavaliere aveva sempre due o tre sergenti che lo accompagnavano in battaglia e un gruppo di sei o sette scudieri per assisterlo sia in tempo di pace che di guerra. La maggioranza dei Cavalieri templari si dedicava alle manovre militari. ed erano probabilmente le unità da combattimento meglio addestrate e disciplinate del loro tempo. La stragrande maggioranza dei Templari combatteva a cavallo, mentre i sergenti e i novizi erano soliti combattere a piedi. Naturalmente in combattimento il loro asso nella manica era la devastante carica, si può immaginare la devastazione e il panico che può creare una carica di cavalleria pesante in mezzo alle fila di fanteria!
L’unità base della cavalleria Templare era la lancia, o concroi, formata da 20 o 30 Cavalieri e comandate da un Commendatario. Una fila di Cavalieri pesantemente corazzati costituiva la fila anteriore, appena dietro di essi i sergenti a cavallo disposti su due file seguiti ancor più dietro dagli scudieri. Il Commendatario si riconosceva rispetto ai Cavalieri normali perché aveva sulla lancia un pennoncino di colore bianco-nero che serviva per guidare i Cavalieri a lui affidati anche verso obiettivi diversi da quelli del resto della formazione.
Il pennoncino era dello stesso colore dello stendardo dei Templari, il Baussant, oppure Baucent, o ancora Vaucent, da alcuni tradotti come “Valgo per Cento”, un avvertimento ben chiaro per i nemici! Comunque era una parola che inneggiava alla bellezza della vittoria. Il Baussant era per metà nero e per metà bianco e questi due colori stavano a significare la loro duplice vocazione: far vivere la fede e dar morte all’errore.
La loro forza derivava da una disciplina ferrea, che faceva di loro un gruppo omogeneo e disciplinato, determinato a sacrificarsi, non essendo ammesso loro di "arrendersi" al nemico. I Cavalieri Templari si distinsero sempre per la loro incredibile determinazione in battaglia, avevano una disciplina disumana e una spietata fermezza di fronte all’avversario. Non a caso venivano chiamati dai musulmani i "diavoli rossi", mentre i Gerosolimitani erano chiamati i "diavoli neri". Pretendevano il privilegio della prima linea durante i combattimenti, molto spesso dovettero pagare con un alto tributo di sangue questo privilegio, ma con la loro fama di essere i più valorosi difensori della Croce non avevano difficoltà a reclutare nuovi combattenti.
Nel giro di pochi anni divennero il contingente crociato più temuto dal nemico ed i Saraceni, contrariamente al loro costume, nel caso riuscissero a farli prigionieri, non li lasciavano vivere a meno che rinnegassero la propria fede. Cosa che non successe mai. Per i Templari, infatti, le battaglie riservavano due sole prospettive: la vittoria o la morte. Usavano far strage di nemici, non perché provavano piacere nell’uccidere, ma per compensare con il terrore l’irrimediabile inferiorità numerica… sapevano che solo la vittoria o la morte sul campo li potevano sottrarre alle atroci torture a cui venivano sottoposti quando cadevano nelle mani dei musulmani; da qui una delle principali ragioni dello straordinario eroismo di cui dettero ripetute prove.
La prima vera azione di guerra dei templari in Terrasanta risale al 1138, quando Gran Maestro era stato eletto Roberto di Craon. L'azione si svolse a Tecua, cittadina musulmana non lontana dall'attuale Ghaza. I crociati attaccarono e presero la cittadina, ed invece di ritirarsi subito, come consigliava Roberto di Craon, gli ufficiali crociati decisero di rimanere per saccheggiare la città. I musulmani, riorganizzatisi, attaccarono di sorpresa le truppe crociate, facendo un autentico massacro, ed anche molti templari rimasero sul terreno.
Un grande condottiero musulmano, Zengi, che era riuscito a riorganizzare le file musulmane, creando quella coesione che mancava tra i vari sceiccati e mettendo assieme un formidabile esercito di oltre 100.000 uomini pronti a tutto pur di riconquistare le terre una volta loro dopo essersi, nel 1128, impadronito di Aleppo e di alcune zone del Principato di Antiochia, minacciando la Contea di Tripoli e la città di Damasco, la notte della vigilia di Natale del 1144, dopo un intero mese di durissimo assedio, conquistò Edessa e quasi tutta la sua contea. La sconfitta e la caduta di Edessa destarono grande impressione nell'occidente cristiano, e Baldovino III, anche se giovanissimo, chiese al Papa Eugenio III di bandire un'altra crociata, cosa che avviene il primo dicembre 1145 con le relative bolle pontificie. La seconda crociata era pronta e, per evitare fastidiose noie tra francesi e tedeschi, le due armate partirono per la Terrasanta separatamente. Per primi partirono i tedeschi, passando per l'Ungheria ed arrivando a Bisanzio. Ma i crociati non furono visti di buon occhio da Manuele Comneno, imperatore di Costantinopoli, anche perchè i soldati tedeschi considerarono la città come fosse una conquista, rubando e saccheggiando. Finalmente, dopo qualche tempo, i tedeschi lasciarono Costantinopoli, dirigendosi a sud, attraversando l'Anatolia per poi poter raggiungere Efeso e poi la Terrasanta. Nel bel mezzo delle montagne, le truppe crociate tedesche furono attaccate e quasi completamente distrutte dall'esercito turco selgiuchida, tanto che i crociati persero i nove decimi degli effettivi, e si ritirarono fortunosamente a Nicea, dove attesero l'esercito francese condotto da Luigi VII. Il re di Francia arrivò a Nicea i primi giorni di novembre, e raccolse ciò che rimaneva dell'esercito tedesco a Lapodion, nei pressi del lago di Apollonia, un po' più a sud. Corrado III, ascoltando di consigli di Everardo di Barres, Gran Maestro Templare, arrivò per mare in Terrasanta nel 1148. Intanto, l'esercito crociato francese era costretto a difendersi dai continui attacchi dei Turchi, con i quali ingaggiarono battaglia ad Antiochia in Pisidia, e riuscirono ad arrivare a Laodicea, ma in condizioni pietose. La città era stata sgomberata per le violenze dei crociati contro la popolazione civile, e la carestia stava facendo numerose vittime. I crociati francesi erano allo stremo ed ormai molti disertavano e si ribellavano ai loro ufficiali: solo i Templari rimanevano nei ranghi compatti e disciplinati. Mentre l'esercito crociato attraversava i Monti Cadmus, Goffredo di Rancon, comandante dell'avanguardia, incurante dei consigli dei Templari, attraversò le gole invece di accamparsi sui monti per la notte: era l'errore atteso dai Turchi, che attaccarono l'esercito crociato nella sua retroguardia, e solo lo scendere della notte salvò i crociati dalla più completa disfatta. A questo punto Everardo di Barres, dopo un colloquio con il re di Francia, prese il comando dell'esercito, riorganizzandolo, ponendo a capo di ciascun gruppo di 100 soldati un templare, che ben sapeva cosa fare. Così, i francesi comandati dai templari riuscirono a passare le montagne ed arrivarono ad Attalia, dove però trovarono una brutta sorpresa: le navi promesse dai Bizantini erano poche e malmesse, quindi una parte dei crociati partì con le navi, un'altra parte, ivi compresi i templari, proseguirono per terra.
Nel 1150, Baldovino III aveva fatto fortificare la città di Gaza e l'aveva donata ai Templari, perchè la difendessero e perchè facessero da sentinella al sud della Palestina.
Il 25 gennaio 1153, l'intero esercito cristiano assediò Ascalona, ma dopo quattro mesi, ancora nulla era stato concluso, ogni attacco veniva sistematicamente respinto.
Verso la fine di luglio 1153, una torre mobile dell'esercito cristiano prese fuoco, e venne scagliata contro le mura della città: il forte impatto ed il calore provocarono una breccia dove si trovava un gruppo di Templari guidati da Bernardo di Tremelay.
Quest’ultimo vista la breccia colse al volo la possibilità di buttarsi in prima linea e quindi si lanciò con quaranta cavalieri dentro la breccia. Gli altri Crociati in quel momento si trovavano dall’altra parte della città e non fecero in tempo a seguire i Templari che si erano gettati all’interno di Ascalona. I musulmani, vedendo solo quaranta uomini, contrattaccarono, massacrando i cavalieri e lo stesso Tremelay. I corpi del templari furono appesi per i piedi fuori dalle mura, e le loro teste lanciate sul campo cristiano con delle piccole catapulte. La furia dei cristiani a questo spettacolo fu tale che il 19 agosto 1153, dopo un formidabile ed intenso assedio, la città fu presa e messa a ferro e fuoco.A questo evento seguì un periodo di relativa pace. Ma durò poco. Sal-Hal-Din più noto come Saladino riorganizzò l'esercito musulmano, portandolo ad oltre 200.000 uomini, con i quali attaccò il Cairo, sbarazzandosi del visir Shawar, ormai amico dei cristiani, e rivolgendosi direttamente contro Gerusalemme. Tutto il mondo mussulmano si unì a Saladino contro i cristiani nel 1174. Nel novembre 1174 Saladino entrava a Damasco, ed il 9 dicembre dello stesso anno entrava ad Homs, per poi proseguire per Aleppo, che venne assediata il 30 dicembre. Nel 1178, Baldovino fece costruire una fortezza, chiamata "Guado di Giacobbe", che fu affidata ai Templari. Tutto sembrava calmo, ma nel febbraio del 1179 Saladino attaccò ed invase la Galilea, senza però tener conto della resistenza della fortezza templare del "Guado di Giacobbe", che non cadde, ed impedì a Saladino di raggiungere Gerusalemme.
Ma non era finita qui: il 10 giugno 1179, presso Mesaphat, l'esercito cristiano di Raimondo III ed i Templari si scontrarono con i 200.000 uomini dell'esercito musulmano. Fu un massacro, tanto che Saladino poi conquistò il Guado di Giacobbe, giustiziando tutti i templari di stanza nella fortezza, e prendendo prigioniero il Gran Maestro, Oddone di Saint Amand, che però non volle che fosse pagato nulla per il suo riscatto, e finì i suoi giorni morendo di fame e di stenti nel carcere di Damasco.
Nel 1187, successe un fatto gravissimo: Rinaldo di Chatillon, con un’ atto assolutamente irresponsabile e folle, marcia verso Medina e La Mecca, con l'intento di appropriarsi della "pietra nera", simbolo sacro musulmano. Quest'atto di pirateria scatena le ire degli arabi, e Saladino raduna ed organizza il più grande esercito che si sia mai visto: fra cavalieri, arcieri e fanti, oltre 300.000 uomini erano agli ordini del condottiero musulmano.
La vera battaglia si svolse ai corni di Hattin il 4 Luglio 1187. L'esercito Crociato dopo vari giorni di dura marcia e senza acqua (l'unica risorsa d'acqua era presidiata dai musulmani) si scontrano con l'esercito di Saladino che riuscì ad accerchiare l'esercito Cristiano che fra l'altro non aveva un'unica guida, ma ogni reggimento aveva un suo capo e, così diviso l'esercito Cristiano perse molto in efficacia e se ci si aggiungono la stanchezza e la sete si capisce bene perchè i Cristiani furono duramente battuti.
Gli arcieri a cavallo musulmani riuscirono fin troppo bene a tenere a bada la fanteria Cristiana, mentre la fanteria di Saladino ebbe l'arduo compito di reggere le devastanti cariche della Cavalleria pesante europea.
La battaglia durò diverse ore, ma alla fine, con la graduale perdita di consistenza delle cariche della cavalleria pesante, i musulmani ebbero la meglio, l'esercito Cristiano fu duramente battuto, soltanto in pochissimi si salvarono e i templari ed ospitalieri catturati vivi vennero consegnati ai carnefici arabi.
Dopo questa sconfitta cristiana, una dopo l'altra cadono in mano araba Tiberiade, Acri, Nablus, Giaffa, Sidone ed Ascalona. Rimaneva Gerusalemme che, dopo alcune settimane di assedio, il 2 ottobre 1187 viene conquistata dal Saladino. Dopo la caduta di Gerusalemme e di tutto il regno, il 6 aprile 1291 Acri fu assediata da oltre 50.000 uomini. La guarnigione templare tenne duro: il 18 maggio tutta Acri era in mano musulmana, tranne la fortezza dove si erano arroccati gli ultimi 150 Templari. Non potendo più guidare l’avanguardia in battaglia si trasformarono in retroguardia e sacrificarono così le loro vite, la difesa della fortezza era chiaramente senza speranza e, benché senza alcun pericolo potevano salvarsi via mare, i Cavalieri Templari combatterono, tennero testa a tutti gli attacchi per dieci giorni, fino a quando i musulmani non riuscirono a forzare le difese, sfruttando anche il loro numero elevato. Morirono tutti quanti, tranne una decina che scamparono. L'avventura cristiana in TerraSanta era definitivamente terminata. In due secoli i Templari avevano lasciato sul terreno dei regni cristiani oltre 12.000 cavalieri e furono gli ultimi a lasciare la Terra Santa.
Ma non furono protagonisti solo in TerraSanta: quando le orde mongoliche minacciarono l’Europa i Templari contribuirono non poco alla sua difesa, che trovò provvisoria soluzione con la battaglia di Liegnitz nel 1241. Nella penisola iberica stettero parimenti in prima linea, i sovrani di Spagna e Portogallo difficilmente avrebbero conseguito le loro vittorie senza i Templari, non invano affidarono loro le proprie fortezze più munite e li ricoprivano di munifici donativi.
Anche la flotta Templare era tra le migliori, nessuno si sarebbe mai azzardato ad attaccare una nave battente bandiera Templare e i Saraceni se ne tenevano ben alla larga. Famosi erano i Templari nordici, che portarono con loro nella vita monastica le loro preziose conoscenze in campo di nautica e battaglie navali.
[1] La Regola del Tempio, approvata durante il Concilio di Troyes del 1128, arriverà a contare 678 articoli dai 72 di partenza. Il testo inizia con un'ammonizione ed un'esortazione diretta ai cavalieri laici : "voi che avete condotto finora una vita cavalleresca secolare... che avete abbracciato soltanto per umana convenienza, perchè voi seguiate coloro che Dio ha scelto dalla massa della perdizione e indicato con la sua dolce pietà della difesa della Santa Chiesa, e perchè vi affrettiate ad unirvi a loro per sempre". I sette articoli seguenti costituiscono il processo verbale del Concilio, mentre quelli dal IX al XVI, trattano doveri essenziali dei templari, peraltro molto simili a quelli dei monaci cistercensi. Gli articoli dal XVII al XXIII descrivono l'abbigliamento dei templari. Il colore bianco è destinato ai cavalieri, mentre il nero è per i sergenti. Gli articoli dal XXIV al XXX trattano dei pasti, disponendo che i templari devono consumare la loro razione quotidiana in comune, in silenzio in un'unica scodella. La vita conventuale viene regolata dagli articoli dal XXXI al XLIV che sottolineano la necessità del silenzio, dell'obbedienza al gran maestro, l'aiuto reciproco tra confratelli nonché l'obbligo della povertà individuale intesa come privazione di oggetti, armi ed abbigliamenti eccedenti la normale dotazione individuale di ogni cavaliere o sergente.
La mancanza di queste disposizioni vengono regolate dagli articoli dal XLV al L: per colpe di una certa entità il colpevole sarà allontanato dalla compagnia degli altri confratelli e non berrà né mangerà con loro, oppure in casi ancora piu' gravi verrà espulso dall'ordine.
gli articoli che vanno fino al LXIX trattano argomenti diversi: è proibito cacciare animali, tranne il leone, e bastonare i propri scudieri qualunque cosa essi facciano; si raccomanda di accudire i fratelli anziani o malati.
Gli ultimi articoli sono quelli che hanno fatto nascere le congetture sulla presunta omosessualità dei templari . E' vietato accogliere donne all'interno dell'ordine e baciare l'altro sesso. Anche le riunioni principali dovevano essere tenute in privato alimentando le ipotesi di riti particolari eretici...

[2] Le unità a cavallo furono tatticamente molto importanti fino alla fine del 19° secolo per le loro caratteristiche di mobilità e velocità.
Dal momento della sua affermazione fino al suo tramonto la cavalleria, la cui origine si può fare risalire al Cavaliere medievale e come simbologia alla Cavalleria medievale, è stata l'arma più importante, tanto per ragioni sociali e politiche quanto per motivi squisitamente militari.
La cavalleria, composta di uomini d'arme in grado di combattere a cavallo, infatti necessitava di uomini molto addestrati a questo tipo di combattimento e di animali da monta selezionati ed impiegati esclusivamente nel combattimento.
[3] La cavalleria leggera utilizzava cavalli piccoli, veloci e agili; i cavalieri portavano un'armatura molto leggera oppure ne erano privi. Gli archi erano corti con gittata lunga, non avevano però la stessa potenza degli archi lunghi o delle balestre.