Maria Luisa Suprani Querzoli
Luci e ombre del Poeta Soldato
Durante
la Prima Guerra Mondiale le figure degli intellettuali rivestirono un ruolo
essenziale nella comunicazione. Il più noto di essi coniò addirittura parte del
lessico che rimane tuttora presente nel linguaggio: il termine ‘velivolo’ o la
denominazione ‘Battaglia del Solstizio’, ad esempio, si debbono al Vate. Egli
non si fece scudo della propria penna ma partecipò in prima persona alla
guerra, impegnandosi in imprese anche rischiose (il Volo su Vienna) senza paura
di perdervi la vita.
Si può parlare nel suo caso di ‘coraggio’ o forse sarebbe più
opportuno riferirsi al concetto di
‘temerarietà’ in obbedienza ad un gusto estetico capace di richiedere
totale identificazione fra ideali professati ed esistenza?
D’Annunzio era immerso profondamente nel clima bellico in
cui, forte della sua cultura notevolissima dei classici, poteva sperimentare dal vivo le dinamiche proprie della
ferinità che si sprigionano dal conflitto. Ne era consapevole e non ne faceva
mistero:
Ricordo
una disputa alla mensa di Comando a Vicenza – Villa Camerini – (Cadorna non vi
partecipava) quando un ufficiale, pensoso di problemi osò parlare di guerra e
di pace a proposito del romanzo di Tolstoi. Il D’Annunzio reagì con violenza
– fors’anche per un istintivo timore di confronti coll’ombra del grande
«barbaro». Reagì pallido e iroso. Non so se nel suo sdegno, come spesso avveniva
in lui, non si confondesse a una reale manifestazione di sentimenti autentici,
una certa voluta drammaticità dell’attore – e quale attore! – ben cosciente
della scena su cui recitava. Ma ciò che di lui in quel momento mi parve
schietto è la confessione di ciò che gli appariva essenziale nelle supreme
finalità del nostro intervento. Non bastavano Trento e Trieste per
giustificarlo. Non era ragione sufficiente l’antico conflitto contro l’Austria
reazionaria. L’Italia aveva bisogno di una prova esaltatrice e rinnovatrice –
di un «bagno di sangue».
«L’Italia
ha bisogno di un lavacro per purificarsi dalle sozzure, dalle pusillanimità,
dalla vigliaccheria di secoli» - insisteva - «è necessaria una ecatombe
colossale per rinvigorirla, per farne una ‘unità d’acciaio’. Guai ai pacifici!
È necessario che gli italiani siano condotti dall’esasperazione a nutrirsi
delle cervella del proprio nemico» (sic).[1]
L’esperienza bellica incide profondamente nella sfera morale
di un Paese. La coesione che il giovane Regno d’Italia guadagnò con la Grande
Guerra gettò le basi sostanziali di un concetto di ‘Nazione’ presente nelle
menti ancora di pochi. Ciò non toglie che la pars destruens richieda la pietas
necessaria di fronte al sacrificio della vita della gioventù combattente,
anche avversaria. Charle Montague afferma che la furia (e non il valore) è propria di chi non combatte: tale
osservazione parrebbe pertinente alla figura del Poeta Soldato, impegnato più
in senso estetico che propriamente militare. La conferma a ciò traspare dalle
parole dello stesso D’Annunzio:
Dovetti confessare al Poeta a che punto i suoi amici soffrissero nel
vederlo ad ogni istante rischiare la propria vita: che non volasse più, per
piacere! Che si riposasse finalmente, aveva dato al suo paese tutto quello che
i migliori cittadini potevano dare alla patria, la sua anima e il suo spirito,
la sua volontà, la sua energia, il suo sangue, la sua vita quasi … «Ma
non la propria vita!» esclamò allora. «Come potete voi, che dite di essere
mio amico, non desiderare una morte in combattimento, in cielo? A quale
vecchiaia mi volete destinare? A quella di un uomo di lettere in mezziguanti
che scriverà opere, seduto come un travet [figura di ‘colletto bianco’ schiavo
del dovere] alla sua scrivania? Oh, no! Ho assaggiato troppo la vita temeraria,
la vita sublime dello spazio e del vento, ho troppo goduto del pericolo, ho a
oggi troppo bisogno di tentare, di osare! Amo con passione il volo. Vorreste da
me che conducessi la vita di un comandante gottoso che firma carte? Mai mi
sento più felice che lassù, lontano da tutte le povertà e i languori umani … E
poi, se lo si può confessare, adoro la guerra. […] Non fosse per il sangue
altrui che gronda, sarei tentato di aver paura della fine stessa della guerra».[2]
Il terribile amore per la guerra[3] che
pervadeva il Poeta si arresta, umanamente, di fronte al sangue versato.
Le forze
potentissime che si sprigionano dalle dinamiche del conflitto costituiscono
invece per il Militare non un elemento di fascino
a cui soggiacere bensì un fattore psicologico essenziale da gestire
efficacemente: solo la consapevolezza del Dovere permette il distacco
necessario al raggiungimento di un’affermazione indirizzata al disegno di nuovi
sofferti equilibri.
L’estetica
del pensiero strategico risponde a criteri altri da quelli dell’edonismo.
Gabriele D’Annunzio
rimane un grande Poeta ma non fu un Soldato.
[1]
T. Gallarati Scotti, Idee e orientamenti
politici e religiosi al Comando Supremo: appunti e ricordi, Roma: Edizioni
Cinque Lune, 1963, p.7 (in M.L. Suprani Querzoli, La Grande Guerra di Francesco Baracca, Forlì: CartaCanta, 2020, pp.
159 – 160).
[2][2] M.
Boulenger, Chez D’Annunzio - a cura
di A. Pietrogiacomi, prefazione di G. B. Guerri - Rimini: Odoya, 2018, pp. 40
– 41.
[3] Il
riferimento è all’omonima opera di James Hillman.
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