Mario Rino Me
E oggi ?
L’economia è divenuta di fatto una forza politica trainante, e detta
l’agenda anche ricorrendo a maniere forti (Vassilis Vassilakis, parla di
“dispotismo dell’economia”). Cambiati contesti e circostanze, si riscopre che
la guerra è un fenomeno endemico. Durata e costi degli interventi in Iraq e
Afghanistan, hanno demolito alcune certezze come la fattibilità di operazioni
militari a zero morti, on the cheap. Le guerre “irregolari”
contemporanee sono diventate complesse: asimmetriche, all’interno degli stati e
dunque civili e poliedriche con la partecipazione di molti attori e sotto lo
della giurisprudenza internazionale e dei media. Dove la sintesi e l’estetica
portano a semplificazioni, non sempre coerenti con la realtà. Peraltro, prevale
a volte l’interesse a non raccontare la vera storia, se non, addirittura,
menzogne per forzare la mano. La guerra
non é più il bellum tomistico (contra extranes hostes, inter nationes liberas,
multitudo ad multitudinem) e “trinitario”, per dirla alla van Creveld, e
presenta nuovi aspetti che mettono in
discussione la teoria clausewitziana. Da tempo, le grandi potenze, ma anche le
medie, anche a causa dell’interconnessione delle economie, sono nelle
condizioni di non potersi permettere di fare più la guerra tra di loro. Usando l’analogia
usata per i colossi bancari (troppo grande per fallire), dalla fine
della seconda Guerra Mondiale, le
grandi potenze sono oramai “troppo grandi per combattersi”. La violenza organizzata, ma sempre più
vincolata, propria delle legittime entità istituzionali annaspa di fronte alla
violenza portata dagli insorti, e, con il ricorso al terrorismo, raggiunge gli
estremi. Nel frattempo, il centro di gravità si è spostato alla popolazione, non
più blocco monolitico, nelle cui “acque”, per dirla alla Mao, nuota la
guerriglia, e che, nella ricostruzione della struttura statuale e societale, le
forze legittime cercano di portare dalla propria parte, nel quadro di quella
che viene chiamata ”la conquista dei cuori e delle menti”. Vecchi schemi di
interpretazione, soggetti alle sfide dei nuovi contesti, sono saltati o devono
essere riadattati.
Le nuove sfide
Il fire power tradizionale deve essere accompagnato dalla capacità
di restare in zona per completare l’opera, ed ecco allora il nuovo concetto
dello staying power[1]. Da usare però quanto
basta, anche perché se si è percepiti come occupanti, iniziano i pasticci. Ma
se la “mala bestia” dei conflitti sembra molto più difficile da domare, restano,
tuttavia, in piedi alcuni principi. Ad esempio, quello tipicamente clausewitziano della distruzione delle forze
si applica selettivamente privilegiando, con un mix di forza e dialogo, l’annichilimento
della volontà di combattere delle parti anti-governative. Difatti, nella
continuità clausewitziana dei rapporti tra i duellanti, una delle lezioni
apprese nella lotta all’insurrezione armata consiste nell’aumentare il canale
di scambio con l’organizzazione politica del movimento ostile alle forze
governative. Senza poi trascurare il fatto che quello che il generale G.
Templer[2]
definiva “the shooting side of the business”
è una delle parti dell’intera impresa, forse la più difficile. Anche perché le
nuove tecniche di contro-insurrezione sono rivolte a due generi di audience con
l’intento comune di tranquillizzare: l‘opinione pubblica di casa e la
popolazione assistita. Ma servendo due padroni si rischia di rivivere la
vicenda di Arlecchino. In breve, pazienza e una combinazione di attività armata
e di negoziazione. Con le nuove dottrine, concetto quest’ultimo che merita una
riflessione a parte visto il loro
carattere non dogmatico[3],
si riscopre poi l’originale approccio italiano a questo genere di conflitti,
basato su una presenza attiva nella società del paese da sostenere. Iniziata
dal generale Franco Angioni nella crisi libanese dei primi anni 80, si è
sviluppata e perfezionata seguendo uno sviluppo dal basso (bottom up). A H. Kissinger viene attribuita l’apparente gioco di parole in base al quale ”finché le forze regolari non vincono, esse
perdono, per contro, finché la guerriglia non perde, essa vince”. Egli apre dunque la questione della
definizione di successo in questi scenari. Ho detto successo in quanto nel
confronto militare tradizionale c’è sempre stato un verdetto, ancorché a volte
sfumato. Figuriamoci nello scenario magmatico evocato da Kissinger, decisamente
diverso dal conflitto di tipo tradizionale incentrato sulla vittoria sul campo.
In breve, ancor più che nel
passato, non c’è un risultato netto in bianco e nero, di vittoria o sconfitta,
ma uno spettro di possibili risultati che non possono essere riconducibili a un
semplice e generico end-state, ripetuto come una litania.
Premessa la sconfitta militare delle forze avversarie e
dell’infrastruttura di sostegno, il modello seguito dagli USA, e, per esteso
dal sistema di Alleanze riconducibile alla politica estera di Washington, si è articolato su una serie di attività che
si snodano dal controllo dello stato e istituzioni del paese, divenuto nel
frattempo assistito, alla riforma del suo sistema politico e di governo, alla
ricostruzione dell’economia e infrastruttura, al riallineamento della politica
estera e all’impianto di una nuova relazione strategica[4].
Se da una parte gli interventi in Iraq e Afghanistan hanno sortito il successo
politico –militare dell’abbattimento dei rispettivi sistemi dispotici, le
difficoltà incontrate nel colmare il vuoto nella fregola del regime change,
il pesante tributo di vittime, le enormi risorse profuse vis à vis le
incertezze del post- presenza militare, pongono governi e opinioni pubbliche di
fronte alla domanda se ne sia valsa o no la pena di intervenire, considerando
anche gli impegni dopo il ritiro. In definitiva occorre definire una cornice
concettuale per definire la relazione di costi benefici connessi con
l’intervento militare, che sancisce, per definizione, l’elevato livello di
interesse per il paese e i conseguenti obblighi operazione durante e dopo il
disimpegno militare. In Afghanistan, dopo
i frequenti episodi di fuoco amico, a quanto risulta dalle ultime cronache, le
Forze armate di quel paese incontrano difficoltà nel frenare l’emorragia di
diserzioni, bassi tassi di reclutamento che obbligherebbero le autorità
nazionali a sostituire annualmente il 30% degli organici[5].
Senza poi trascurare il venir meno alcuni capisaldi,
come il coinvolgimento dei talebani, per cui si sta consolidando l’opzione
per approcci che contemplano un maggior
coinvolgimento afgano. Il che complica l’intero impianto della exit
strategy dell’Alleanza Atlantica.
Conclusione
Oggi, nel contesto del complesso
fenomeno della globalizzazione, sono aumentati i campi del confronto (si pensi, al malware cibernetico[6]); mentre sull’attacco armato non c’era alcun
dubbio interpretativo, oggi si richiedono pertanto nuove e chiare definizioni
su cos’é un’aggressione e se, in che misura e come si possa contrastarla
rimanendo in una cornice di legittimità. Su questa tela di fondo, van der
Dennen, definendo le linee di politica come “la continuazione della guerra con altri
mezzi[7]”,
inverte, paradossalmente, i fattori. Politica come guerra dunque anche se non
sottesa da logiche di “potenza” per dirla alla Aron (guerra dei cambi, guerre
commerciali ecc). Pace e guerra, secondo lui, non differiscono, quantomeno teoricamente, nei fini, ma nei mezzi per
conseguirli; resta però il fatto che le due formulazioni esprimono il
perdurare, in tutti i campi, di una competizione ad ampio spettro, condotta con
una vasta gamma di mezzi, violenti e non. In effetti, il consolidarsi nel tempo del sistema internazionale, delle democrazie
e delle società, tutti meno inclini alla guerra in linea con le tesi Kantiane
della pace perpetua, riprese nel 900 da B. Angell[8],
molte cose sono in meglio. Ciò grazie anche alla costante tendenza verso
sistemi più democratici, all’opera sistematica di educazione al controllo della
forza, all’affermazione degli studi nel campo delle scienze socio-politiche,
che hanno contribuito a meglio definire le interrelazioni tra le parti della
citata trilogia, e, non ultimo, alla definizione del quadro normativo in tema
di controllo democratico e direzione politica delle forze armate. Ma l’altro
lato della medaglia evidenzia che dopo i fatti dell’11 settembre 2001 e degli
anni successivi, il fenomeno dell’insurrezione su scala nazionale, ha
dimostrato che gli Stati non hanno più il monopolio della violenza organizzata.
Non è venuta meno, tuttavia, anche in ambito multilaterale, la non infrequente
interferenza politica, e non solo, su questioni di livello tecnico-gestionali,
di squisita pertinenza militare. Anche per la politica, pertanto, ci sono momenti
in cui essa deve ritirarsi. Nelle strutture organizzative stratificate, la
predetta tendenza alla verticalizzazione dall’alto in basso, viene definita con
il termine “micro management”, già presente in passato e come tale
stigmatizzato dalle icone del pensiero strategico[9].
Sfasamento politico-militare, mezze misure militari e tiepido sostegno politico,
avversione delle società a imbarcarsi e sostenere imprese di cui non si
percepisce necessità, interessi e\o posta in gioco (anche perché non sempre ben
informate o preparate, n.d.r.), nonché scarsa conoscenza delle culture \società
locali, sono all’origine di tante amare esperienze di quest’ultimo
cinquantennio. Già mezzo secolo fa Raymond Aron sosteneva che “les Europèens voudrayent sortir de histoire,
la grand Histoire qui s’écrit en lettres de sang”, che è all’origine di un
diverso approccio alla storia tra le due sponde dell’Atlantico. Non sempre si è
dato ascolto alle lezioni del passato e agli avvertimenti dei grandi del
pensiero strategico. Le cui opere, nonostante alcune diversità, riconducibili
allo spirito del tempo, mettono in evidenza una continuità di pensiero,
che ci offre un insieme armonico di regole, esperienze conoscitive e tecniche,
in cui il valore aggiunto del fattore umano è costituito dalla creatività e
flessibilità nell’interpretarle e metterle in pratica. In breve una chiarezza
intellettiva, preparazione, buon senso ed equilibrio delle persone che le hanno
avute in dote, e del sistema socio-culturale che li ha prodotti. In estrema sintesi,
l’uso, orale o scritto che sia, del linguaggio strategico ha una diffusione
generale, che precede codificazioni storiche; inoltre, lo scrivere con
giudizio e buon senso, dote che assomma le qualità del sapere e della
comunicazione, travalica le barriere dello spazio e del tempo. Alla luce delle
nuove realtà, resta tuttavia da riconcettualizzare il modello di intervento sin
qui seguito per l’assistenza ai paesi in cui si è intervenuti, attagliandolo al
fattibile e non al desiderabile.
Per concludere, il
Feldmaresciallo Bernard Montgomery[10]
riporta nel libro da lui curato un detto di Mao Tse Tung, che, a tal proposito,
sosteneva : “Tutte le leggi e le teorie militari che sono nella natura dei
principi,rappresentano l’esperienza delle guerre combattute dai popoli nel
passato o nei nostri giorni. Ne dovremmo studiare seriamente queste lezioni,
pagate col sangue che costituiscono l’eredità delle guerre passate. Questo è un
punto, ma ve n’è un altro. Noi dovremo sottoporre queste conclusioni al vaglio
della nostra esperienza , assimilare tutto ciò che è utile, respingere ciò che
è inutile e aggiungere quanto specificamente nostro. Quest’ultima cosa è molto
importante, perché, altrimenti , non potremmo
condurre la guerra. Leggendo s’impara, ma anche applicando s’impara: è
anzi la migliore maniera per imparare”.
[1] Alexandra de Hoop Scheffer, L’Iraq en quete de
sens, http://www.ceri-sciencespo.com/cherlist/hoopscheffer/maghreb_machrek07.pdf
[2] The
Economist, Modern Warfare, edited by Benjamin Sutherland, pag 273-276.
[3] Da considerare una guida nel dominio dell’agire,
più che una serie di regole rigide, tipo
catechismo. In breve una sorta di cornice di riferimento.
[4] William C.
Martell, Victory in War, Cambridge University Press, New York, 2007, pag
137-144.
[5] Rod Nordland,
Afghan’s Army Turnover threatens US Strategy, NYT ,Oct 15 2012
[6] Vedi A new
Kind of Warfare, Editorial ot the Times, NYT
9 Sept 2012.
[8] Bernard
Angell, The Great Illusion, 1910. L’autore, che nel suo libro “La grande Illusione “
sosteneva la futilità della guerra, non faceva tutavia previsioni sulla
scomparsa del fenomeno. Egli sosteneva che commercio e industria erano le fonti
del benessere e non lo sfruttamento di popolazioni sottomesse. L’illusione era
riconducibile agli apparenti i guadagni del colonialismo con guerre di
conquista ecc . Nel 1933 , dopo la riedizione del libro, in cui, con l’avvento
della Società delle Nazioni , introduceva la nozione di sicurezza collettiva,
fu insignito del premio Nobel. http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laureates/1933/angell.html
[9] Von Clausewitz descrive la situazione in questi termini “ se
l’uomo di stato guarda a certe mosse e attività
militari, che sono a lui estranee, allora la politica influenzerà le operazioni al peggio”.
[10] Bernard Montgomery, Storia delle Guerre,
Rizzoli, Milano ,1970, pag. 17.
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